lunedì 7 luglio 2025

L’automatismo del “Noi canteremo gloria a te”



«Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.

In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.

Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”»

«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Le parole di Gesù nel Vangelo di quest’ultima domenica cadono sempre provvidenzialmente a proposito dopo la notizia di un uomo, una persona, un prete che si è tolto la vita.

La vita dell’apostolo, inviato a portare la pace nelle case e ad annunciare la vicinanza e la presenza di Dio in Gesù Cristo, è diventata nei secoli qualcosa di molto più complicato.

Mi viene in mente Alfred Loisy, il quale, certamente esagerando ma non con una certa dose di verità, scriveva: «Gesù ha annunciato il Regno ma invece è arrivata la Chiesa».

La nostra vita di preti oggi è largamente occupata da borsa, sacca, sandali e saluto alla gente.

Borsa e sacca, perché dobbiamo gestire dei beni, chiese, case parrocchiali, altre attività come scuole materne, case di riposo o altro (opere che altri fanno più e meglio di noi…), spesso con pochissime risorse: le offerte non bastano e le rette spesso sono al di sotto del fabbisogno, perché noi si accoglie tutti, o almeno si cerca… e allora si creano le preoccupazioni: bollette, stipendi, tasse, imposte, ristrutturazioni, approvvigionamenti…

Sandali, perché siamo costretti ad assumerci sempre più “ruoli” e “servizi”: due, tre parrocchie; due, tre uffici diocesani; insegnamento; oratorio; e facciamo chilometri in auto, e saltiamo da un altare all’altro la domenica senza neanche il tempo di fermarci per un dialogo o una carezza a un bambino.

Salamelecchi con la gente, perché spesso, pur di non litigare o avere seccature, accontentiamo qualunque richiesta, oppure se talvolta ci irrigidiamo su una decisione, perché pensiamo sia giusta e ce ne assumiamo la responsabilità, veniamo bombardati da accuse, offese, chiacchiere, quando non calunnie. Diventiamo presto i preti “cattivi” al contrario di qualche altro confratello “buono” e accomodante.

Un tempo il prete viveva in genere con almeno uno o due membri della propria famiglia, aveva relazioni “normali”, familiari appunto. Questo era un male o un bene? Non so… Oggi ci abituiamo a vivere da soli, a lavorare da soli, a mangiare da soli, a sbagliare da soli. Senza nessuno che si accorga, appunto, del nostro umore, delle nostre sciocchezze, e neanche delle nostre esigenze…

Inoltre, un tempo il prete aveva un ruolo sociale riconosciuto, come altri, il dottore, il maresciallo, la maestra, il sindaco…

Oggi dobbiamo “conquistarci” la benevolenza della gente, dobbiamo lottare per raggiungere compromessi con la gente, sempre al ribasso, perché alla fine non abbiamo voglia di condurre battaglie sui padrini, o sulla data della comunione o della cresima in parrocchia…

La gente spesso ci sfida… Dobbiamo gestire opere di cui non vediamo più l’utilità…

Certo, il Signore ha promesso cento volte tanto quel che abbiamo lasciato, insieme a persecuzioni… ma persecuzioni per cosa, a ben vedere? Per la fede in lui? O perché ci si vuole rispettosi delle tradizioni, sacerdoti che devono solo occuparsi di accendere le candele dell’altare?

E così... altro che rallegrarci perché il nostro nome è scritto nei cieli!

Non condivido il fatalismo e l’individualismo – nel quale, peraltro, in quest’epoca, tutti noi, preti compresi siamo immersi – di chi dice: «Fai quel che puoi e cercati qualche amico con cui condividere, perché il presbiterio ideale non esiste, il vescovo ideale non esiste, la parrocchia ideale non esiste».

Lo so benissimo che non esiste la Chiesa del Mulino Bianco, come non esiste la famiglia del Mulino Bianco.

So benissimo che anche noi preti tra noi siamo homo homini lupus, ma io non mi sono fatto prete per giocare al ribasso, per insegnare alle persone ad “accontentarsi”. Mi sono fatto prete perché credevo, e credo, e lo dico a denti stretti, che il Vangelo è un modo differente di vivere. E questo annuncio a chi si sposa, ai bambini, ai giovani, ai preti: prendi il largo! Non accontentarti di quello che la società ti dice, di giocare al ribasso, che tanto nulla mai cambierà.

Io non voglio rinunciare a cercare un volto di Chiesa che esprima sempre più e sempre meglio la vicinanza di quel Regno che Gesù ci ha portato e che devo annunciare, e che mi produce la gioia inconfondibile che il mio nome è scritto nei cieli, cioè che la mia vita è nelle mani di Dio, che è un padre amorevole, cercatore di pecorelle smarrite e abbracciatore di figli ritornanti e di figli recalcitranti.

Il nostro ministero è ancora troppo impastato di ripetizioni, di feste che ogni anno sono uguali a sé stesse, di attività che a scadenza si ripresentano inesorabilmente, di appuntamenti da onorare sul calendario, di un’agenda da portare avanti perché si è fatto sempre così.

Io lo chiamo l’automatismo del “Noi canteremo gloria a te”, canto valido per tutte le stagioni e tutte le celebrazioni in ogni momento dell’anno, che ogni buon cristiano intona automaticamente per iniziare la Messa: lo odio così tanto (non me ne voglia l’Autore, non è colpa sua!) che nella mia parrocchia non si canta mai e non si trova neanche nel libretto dei canti.

Ho avuto la fortuna di conoscere preti di molte diocesi d’Italia e anche oltre…

Spesso storie tristi, pretese assurde verso il vescovo, gente patologicamente psichiatrica… persone veramente disturbate… insieme anche a persone che hanno vissuto una vita silenziosa e umile, senza grandi scossoni, a persone che hanno fatto tanto bene agli altri…

Il problema è che se noi non crediamo più nel presbiterio, l’alternativa qual è? L’individualismo esasperato? e allora la Chiesa cos’è? Un insieme di individui che fanno un percorso personale? È questo che insegniamo ai giovani e ai bambini? Non penso.

A me i miei preti e le mie catechiste hanno insegnato un amore grande, consapevole, certo non un’illusione, ma un’attenzione a tutti, un’accoglienza senza distinzioni, un dialogo autentico, la sincerità nei rapporti… il senso di dover collaborare, e di avere un unico obiettivo… Non a salvarmi da solo…

Anche noi preti siamo uomini, con tutte le contraddizioni e le moltitudini che conteniamo, come ogni persona. E di questo dobbiamo ricordarcene sempre per curare noi stessi, per curarci degli altri, per chiedere che anche gli altri (specialmente chi ha responsabilità superiori) si curi di noi.

Per questo la morte tragica di un uomo, e per giunta di un confratello, è sempre un colpo al cuore, e deve chiamarci e richiamarci a una maggior attenzione.

 

Nessun uomo è un’isola,
completo in sé stesso;
Ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto. 

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
la Terra ne sarebbe diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa. 

Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità. 

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.


(John Donne)

 

giovedì 16 gennaio 2025

Ciao don Roby. In morte di don Roberto Lai


Non conosco altro modo di salutarti se non questo: "Ciao don Roby!".

Eravamo ragazzini quando ci siamo conosciuti, facevamo le scuole medie. Partecipavamo agli incontri vocazionali in Seminario a Villacidro, alle celebrazioni diocesane in Cattedrale, agli incontri dei ministranti... Poi siamo entrati in Seminario a un anno di distanza, cinque anni intensi, ma anche pieni di allegria e spensieratezza: tu hai sempre tenuto banco, con le tue imitazioni dei parroci e dei vescovi, le battute, le prese in giro bonarie… Dove c'era trambusto e schiamazzi lì c'eri tu sicuramente!




Altrettanto serio eri nelle liturgie, cambiavi quasi aspetto.

Dopo per me c’è stata Roma, i primi anni del nostro sacerdozio ci siamo visti durante le vacanze o le celebrazioni diocesane. Hai partecipato al mio dottorato in Gregoriana, ti sei complimentato con me.





Poi di nuovo in diocesi, incarichi diversi, noi profondamente diversi: per ridere tu mi chiamavi “lefebvriano” e io ti chiamavo “modernista”, in una inversione ironica di ruoli, che in realtà era un modo per condividere opinioni diverse, che – lo spero – arricchivano entrambi. Certamente le tue mi hanno sempre fatto riflettere.

Quando è venuta la malattia, io ero fuori diocesi, mi hai fatto una lunga telefonata il giorno prima di essere ricoverato: avevamo condiviso preoccupazioni e speranza.

E poi sono stati questi otto anni: mi hai sempre chiesto di sostituirti quando ti assentavi per visite, controlli, chemio: a Siddi, a Pauli Arbarei, e negli ultimi due anni a Uras. Mi affidavi le tue parrocchie con grande fiducia e ho potuto vedere la stima di cui eri circondato, la cura anche delle piccole relazioni, degli anziani, dei giovani, dei bambini, delle famiglie.

Ho fatto al posto tuo, e a volte insieme con te, Pasque, Natali, feste patronali e tante celebrazioni ordinarie e feriali… ma tu, appena ti sentivi un po’ meglio, tornavi più entusiasta che mai: a nulla serviva rimproverarti per darti una calmata, per pensare alla tua salute… hai accettato con riluttanza e tanti scrupoli di lasciare la parrocchia di Uras quest’estate, non volevi vederlo come un rifiuto di un servizio.





In questi due anni abbiamo condiviso il percorso per il tesserino da giornalista: eri orgoglioso di questo impegno con il Nuovo Cammino e di questo risultato.

Infine, questi mesi, entrare e uscire dall’ospedale, e poi entrare per non uscirne più. 

A giugno sei venuto a Sa Zeppara per la festa, hai predicato sulla devozione alla Madonna, sei salito in processione con noi sino al colle… coi miei sensi di colpa per averti fatto stancare.





Ti avevo promesso un lauto pranzo a base di pesce… Ma ogni volta che provavamo a pensarci stavi nuovamente male.

A novembre mi mandasti un canto di un Grest di tanti anni fa, che entrambi usavamo per la preghiera iniziale, ti piaceva molto, ed anche a me. Fa così:

 

A mani vuote noi veniamo a te Signore 

Con le ferite e tante tracce di dolore 

Tu stringi al cuore il cuore affranto, 

e porti in braccio il corpo stanco, 

ti fai eco in 1000 toni al nostro canto. 

Dopo le strade che ora salgono a fatica, 

dopo tutto…

Dopo le stelle accese sulla volta antica, 

dopo tutto… Dopo il confine di misteri della nostra vita, 

dopo tutto, che ci aspetta… dopo tutto…

Quando tutto l'universo salirà a te..

ma che sarà di noi?

Dopo tutto dopo tutto! 

Io prosciugherò dagli occhi il vostro pianto

Io trasformerò in gioia ogni lamento, 

e poi io sarò sempre con voi!

Io ho preparato a tutti voi un posto in Cielo.

Amore e luce copriranno tutto, tutto!

 


In quest’ultimo mese i nostri dialoghi si sono fatti più spirituali, noi che non abbiamo mai amato tanto “discorsi spirituali”: ma era diventata una necessità ora, un pensare a cose essenziali, un progressivo staccarsi dai pensieri della terra per meditare sulle cose ultime. Lo hai fatto sino alla fine, anche con un filo di voce, anche solo con il cenno delle mani. Qualche giorno fa mi hai dettato queste parole:

"Come e quando giungerò alla cima del Cranio, chiamato Golgota, solo Dio lo sa. Anche se con un certo timore dico: “Sia fatta la tua volontà”, sono certo che dopo il dolore e il silenzio arriverà il grande Alleluia della vittoria finale: allora potrò dire anch’io con San Paolo “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tim 4,7)."

Lunedì, insieme a tuo figlioccio don Luca, ti abbiamo amministrato l’Unzione, consapevoli che l’ora si avvicinava: sei stato partecipe, hai pregato con devozione. Poi tutto è diventato un grande sonno.

Considero un privilegio raro aver potuto partecipare alla tua passione, a quella della tua famiglia. Anche affaticato e dolorante, anche stanco e sofferente, ma sempre con gratitudine, per tutto, per tutti.

Sul tuo stato di WhatsApp avevi messo tre versi di un poeta americano, Robert Frost:

 

Due strade trovai nei boschi

E io scelsi quella meno battuta

Ed è per questo che sono diverso.

 

Sì, eri diverso, ma di una differenza non ostentata, non esibita. Eri sacerdote, hai sempre voluto esserlo, lo sei sempre stato: la strada meno battuta è diventato in realtà un cammino che hai fatto percorrere anche ad altri.  

Roberto, ci mancherai molto. 




Don Roberto Lai è nato il 29 agosto 1978 ed è nato al cielo il 15 gennaio 2025.