domenica 28 ottobre 2018

Pensieri su Bartimeo, cieco, e sui preti

Molti lo rimproveravano perché tacesse
Che magra figura che ci fanno i discepoli. Sempre timorosi di preservare il Signore, di non disturbarlo troppo, perché ha molto da fare e non può stare a sentire ogni mendicante che sta fermo su tutte le strade in cui passa.
Mi sembra di vedere questa cerchia allargarsi sino ad oggi: verso il parroco, verso il vescovo, verso il papa: un cordone di sicurezza che talvolta li rende inavvicinabili... Loro sanno che cosa è giusto fare, cosa consigliargli, vogliono risparmiargli la seccatura di dover ascoltare l’umanità che sta ai margini e che non ha biglietti da visita da far valere, ma solo la forza del proprio grido di sofferenza.
Ma Gesù non è inavvicinabile, e anzi comanda ai suoi discepoli che chiamino Bartimeo.

C’è una suggestione che mi viene ascoltando il grido di Bartimeo e lo zelo silenziatore dei suoi discepoli: occorre ricuperare la capacità di gridare, o quantomeno di parlare, senza che qualcuno ci zittisca. Noi facciamo molta fatica a parlare di noi, a condividere qualcosa di profondo di noi stessi, non dico con i laici, ma ancor prima tra noi preti, persino tra amici. Il nostro ruolo ci impone (almeno questa è l’idea del prete) sempre uno standard che è fatto di certezze, di assertività, una diplomazia che spesso ci fa bypassare i nostri crucci, le nostre disperazioni, le nostre nevrosi. Le risolviamo con un po’ di grazia a buon mercato, ma a lungo andare questo sfibra la nostra anima. Voglio dire che il peggior “discepolo silenziatore” ce l’abbiamo dentro di noi: preti che non fanno mai una visita medica (io sono il primo) perché si credono immortali. Preti che non controllano il loro modo di mangiare o di bere, perché sembra non avere niente a che fare con la loro anima. Preti che non si interrogano mai sul loro rapporto con i soldi, e non comprendono che accumulare è un modo di dire: Ho paura di morire. Preti che non sono mai sfiorati da un dubbio sulla loro sequela. Persone anafettive perché abituate a non esprimere mai i propri sentimenti

E che vivono tutto questo a volte con sensi di colpa enormi, perché hanno silenziato quel grido interiore. E non parlano. Non dico che siamo tutti problematici, però se leggiamo la nostra storia con un po’ di onestà, proviamo a vedere se non è vero quel che dico... 
Occorre ricuperare la capacità di ascoltarci, nel senso di ascoltare noi stessi e di ascoltarci tra di noi: «Solo nell’incontro con una persona che non censura, dirige o manipola, ma che tollera e accetta davvero tutto ciò che vive nell’anima di un individuo è possibile diventare sinceri nei confronti di se stessi e trovare, in virtù di quanto si scopre in questo modo, il coraggio di cercare nuovi atteggiamenti» (Drewermann).

«Gli rispose: “Cosa vuoi che io ti faccia?”». Imparare dallo stile di Gesù
Gesù non insegna niente a Bartimeo (altre volte lo farà, e del resto questo è chiaro dall’appellativo con cui Bartimeo gli si rivolge: lo chiama Rabbunì,maestro mio). Non si tratta qui di contrapporre insegnamento e azione.
Gesù parla al cuore, anzi ascolta il cuore, il desiderio di vedere di Bartimeo. Lo fa aprire e sbocciare, gli fa sentire di essere considerato, capito, riconosciuto nel suo essere bisognoso. Non solo aiutato con una moneta!
Questo permette al nostro interlocutore di ritrovare fiducia in se stesso e di diventare discepolo.
Gesù non castra i nostri desideri. Talvolta una malintesa spiritualità ci fa pensare (e ci fa dire): devi rinunciare ai tuoi desideri, perché Dio deve metterti i suoi nel cuore... sì e no.
Anzitutto Gesù guarda anche alla domanda di vita di ciascuno di noi: «Cosa vuoi che io ti faccia?». Non è Aladino che ti offre di sfregare la lampada, ma non è neanche Zeus che ti impone la sua volontà dall’alto: è un Dio che scende in dialogo, al tuo livello, che intercetta i desideri del tuo cuore per metterli a servizio del regno.
Il Messia non evita la sofferenza che incontra, non si schermisce dicendo: Cosa posso farci io?Bensì la accoglie, la fa sua, la porta su di sé. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore perché rivestito anche lui di debolezza: è un (il) sofferente che conosce la sofferenza, accoglie le persone che gli si presentano come sono realmente, si innesta nel loro dolore e nella loro insicurezza: il miracolo viene quando la fede è pronta ad accoglierlo.

sabato 27 ottobre 2018

Non ditemi che è un problema di “sporchi negri”

Sgombro preventivamente il campo da qualunque polemica, ogni omicidio è un crimine, specialmente se compiuto in modo deliberato e per motivi futili o abietti.
A chi lo ha compiuto va data la pena massima e va assicurato un percorso di rieducazione.
Senza se e senza ma. Punto.
Ora veniamo ai fatti: a Roma qualche giorno fa una ragazza di 16 (sedici) anni, tossicodipendente, padre spacciatore, madre adolescente a sua volta, andata probabilmente a cercare una dose, è stata stordita, stuprata e uccisa da quattro (o forse più) uomini, tutti nerissimi, davanti ad alcuni testimoni.
I giornali nazionali inondati da questa notizia che alimenta il voyeurismo italiota.
A metà settembre sul Lago Omodeo, a Ghilarza, un ragazzo di 18 (diciotto) anni, piccolo spacciatore, è stato ucciso da cinque-sei persone, fatto a pezzi e sepolto, probabilmente perché aveva commesso lo sgarro di andare a casa di una 17enne a chiedere il pagamento di una dose di fumo. Ragazza che durante l’omicidio è stata registrata piagnucolare dentro l’auto che era sotto microspia perché il padre del “capo” era a sua volta sospettato di un omicidio avvenuto un anno prima.
Gli assassini e i complici non superano i 21 anni. Sono bianchissimi.
E nessuno ne parla, non ci sono scoop gossippari e scandalistici.

Ma trovate voi le differenze, se ci riuscite.
Purtroppo c’è chi cavalca l’odio razziale, chi dice che questi “vermi” devono marcire in galera, etc etc.
Invece i tranquilli ragazzi di Ghilarza che hanno pianificato e messo in atto un omicidio a sangue freddo, erano bravi ragazzi che chissà cosa gli è passato per la testa.

No, in realtà nei quartieri degradati di Roma, come nelle periferie che sono i nostri piccoli paesi dell’interno (e anche della costa), il problema è che la droga gira come fosse pop corn, che nelle campagne inaccessibili del Supramonte e dell’Ogliastra si coltivano ettari di marjuana, che in Sardegna l’abbandono scolastico prima del diploma è il più alto in Italia (oltre il 33% a fronte del 28% nazionale), che mancano biblioteche, cinema, teatri, luoghi in cui si promuove la cultura, mancano palestre, le scuole sono fatiscenti, non insegniamo più la bellezza, mancano scuole di musica, corsi di pittura...
Il degrado è alle stelle nei nostri paesi, dove i giardini pubblici diventano presto selve oscure, dove non si fa la manutenzione delle strade, dove non si dipingono le case, dove gli uffici pubblici non danno le informazioni che dovrebbero, dove se uno ha un problema... che se lo risolva da solo...

Io vedo tutto nero?
Spesso sì, vedo tutto nero.
Vedo soprattutto che abbiamo trascurato di costruire una società più giusta, pensando che il benessere – inteso come il possesso dell’ultimo gioiello tecnologico o la libertà di fare quel che si vuole, fosse anche drogarsi liberamente – fosse l’unica cosa da perseguire. E ancora siamo su questa strada! Non ce ne frega nulla!
Cosa sta facendo l’attuale Governo per la cultura, per le scuole, per promuovere la legalità, per fare anche dei piccoli paesi e delle periferie delle grandi città dei centri dove si impara a parlare, a confrontarsi, a raccontarsi, ad affrontare i problemi invece che affogarli nell’alcool e nella droga?
Ha un piano di rinascita o preferisce dare uno stipendietto a tutti, stipendietto che finirà presto nelle slot machines col bollo statale a cui hanno appena sollevato l’aliquota di prelievo erariale? Nel 2016 in Italia si sono spesi 96 miliardi di euro alle macchinette, pari alla spesa per l’Istruzione. Quanto ha guadagnato lo Stato? Circa 20 miliardi.
Perché se per voi è normale che una ragazzina di 16 anni vada a bucarsi a mezzanotte in un palazzo fatiscente covo di pusher, per me non lo è.
Se per voi è normale che una ragazzina di 17 anni, offesa perché colui che le aveva venduto degli spinelli, bussa alla porta di casa a chiedere i soldi, scatenando l’ira vendicatrice degli amici, per me non lo è.

Ma non ditemi che è un problema di “sporchi negri”, per favore. Il problema è molto più serio e tragico, ahimé, e nessuno, tra quelli che dovrebbero e potrebbero fare qualcosa, sembra accorgersene. Anzi, proprio loro alimentano la paura del nero, e in questo dimostrano di essere sporchi bianchi. Non la sentite come un’offesa vero? Male.







Once more I could lift you strong
Out of the loneliness
And the emptiness
Of the days