lunedì 7 luglio 2025

L’automatismo del “Noi canteremo gloria a te”



«Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.

In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.

Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”»

«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Le parole di Gesù nel Vangelo di quest’ultima domenica cadono sempre provvidenzialmente a proposito dopo la notizia di un uomo, una persona, un prete che si è tolto la vita.

La vita dell’apostolo, inviato a portare la pace nelle case e ad annunciare la vicinanza e la presenza di Dio in Gesù Cristo, è diventata nei secoli qualcosa di molto più complicato.

Mi viene in mente Alfred Loisy, il quale, certamente esagerando ma non con una certa dose di verità, scriveva: «Gesù ha annunciato il Regno ma invece è arrivata la Chiesa».

La nostra vita di preti oggi è largamente occupata da borsa, sacca, sandali e saluto alla gente.

Borsa e sacca, perché dobbiamo gestire dei beni, chiese, case parrocchiali, altre attività come scuole materne, case di riposo o altro (opere che altri fanno più e meglio di noi…), spesso con pochissime risorse: le offerte non bastano e le rette spesso sono al di sotto del fabbisogno, perché noi si accoglie tutti, o almeno si cerca… e allora si creano le preoccupazioni: bollette, stipendi, tasse, imposte, ristrutturazioni, approvvigionamenti…

Sandali, perché siamo costretti ad assumerci sempre più “ruoli” e “servizi”: due, tre parrocchie; due, tre uffici diocesani; insegnamento; oratorio; e facciamo chilometri in auto, e saltiamo da un altare all’altro la domenica senza neanche il tempo di fermarci per un dialogo o una carezza a un bambino.

Salamelecchi con la gente, perché spesso, pur di non litigare o avere seccature, accontentiamo qualunque richiesta, oppure se talvolta ci irrigidiamo su una decisione, perché pensiamo sia giusta e ce ne assumiamo la responsabilità, veniamo bombardati da accuse, offese, chiacchiere, quando non calunnie. Diventiamo presto i preti “cattivi” al contrario di qualche altro confratello “buono” e accomodante.

Un tempo il prete viveva in genere con almeno uno o due membri della propria famiglia, aveva relazioni “normali”, familiari appunto. Questo era un male o un bene? Non so… Oggi ci abituiamo a vivere da soli, a lavorare da soli, a mangiare da soli, a sbagliare da soli. Senza nessuno che si accorga, appunto, del nostro umore, delle nostre sciocchezze, e neanche delle nostre esigenze…

Inoltre, un tempo il prete aveva un ruolo sociale riconosciuto, come altri, il dottore, il maresciallo, la maestra, il sindaco…

Oggi dobbiamo “conquistarci” la benevolenza della gente, dobbiamo lottare per raggiungere compromessi con la gente, sempre al ribasso, perché alla fine non abbiamo voglia di condurre battaglie sui padrini, o sulla data della comunione o della cresima in parrocchia…

La gente spesso ci sfida… Dobbiamo gestire opere di cui non vediamo più l’utilità…

Certo, il Signore ha promesso cento volte tanto quel che abbiamo lasciato, insieme a persecuzioni… ma persecuzioni per cosa, a ben vedere? Per la fede in lui? O perché ci si vuole rispettosi delle tradizioni, sacerdoti che devono solo occuparsi di accendere le candele dell’altare?

E così... altro che rallegrarci perché il nostro nome è scritto nei cieli!

Non condivido il fatalismo e l’individualismo – nel quale, peraltro, in quest’epoca, tutti noi, preti compresi siamo immersi – di chi dice: «Fai quel che puoi e cercati qualche amico con cui condividere, perché il presbiterio ideale non esiste, il vescovo ideale non esiste, la parrocchia ideale non esiste».

Lo so benissimo che non esiste la Chiesa del Mulino Bianco, come non esiste la famiglia del Mulino Bianco.

So benissimo che anche noi preti tra noi siamo homo homini lupus, ma io non mi sono fatto prete per giocare al ribasso, per insegnare alle persone ad “accontentarsi”. Mi sono fatto prete perché credevo, e credo, e lo dico a denti stretti, che il Vangelo è un modo differente di vivere. E questo annuncio a chi si sposa, ai bambini, ai giovani, ai preti: prendi il largo! Non accontentarti di quello che la società ti dice, di giocare al ribasso, che tanto nulla mai cambierà.

Io non voglio rinunciare a cercare un volto di Chiesa che esprima sempre più e sempre meglio la vicinanza di quel Regno che Gesù ci ha portato e che devo annunciare, e che mi produce la gioia inconfondibile che il mio nome è scritto nei cieli, cioè che la mia vita è nelle mani di Dio, che è un padre amorevole, cercatore di pecorelle smarrite e abbracciatore di figli ritornanti e di figli recalcitranti.

Il nostro ministero è ancora troppo impastato di ripetizioni, di feste che ogni anno sono uguali a sé stesse, di attività che a scadenza si ripresentano inesorabilmente, di appuntamenti da onorare sul calendario, di un’agenda da portare avanti perché si è fatto sempre così.

Io lo chiamo l’automatismo del “Noi canteremo gloria a te”, canto valido per tutte le stagioni e tutte le celebrazioni in ogni momento dell’anno, che ogni buon cristiano intona automaticamente per iniziare la Messa: lo odio così tanto (non me ne voglia l’Autore, non è colpa sua!) che nella mia parrocchia non si canta mai e non si trova neanche nel libretto dei canti.

Ho avuto la fortuna di conoscere preti di molte diocesi d’Italia e anche oltre…

Spesso storie tristi, pretese assurde verso il vescovo, gente patologicamente psichiatrica… persone veramente disturbate… insieme anche a persone che hanno vissuto una vita silenziosa e umile, senza grandi scossoni, a persone che hanno fatto tanto bene agli altri…

Il problema è che se noi non crediamo più nel presbiterio, l’alternativa qual è? L’individualismo esasperato? e allora la Chiesa cos’è? Un insieme di individui che fanno un percorso personale? È questo che insegniamo ai giovani e ai bambini? Non penso.

A me i miei preti e le mie catechiste hanno insegnato un amore grande, consapevole, certo non un’illusione, ma un’attenzione a tutti, un’accoglienza senza distinzioni, un dialogo autentico, la sincerità nei rapporti… il senso di dover collaborare, e di avere un unico obiettivo… Non a salvarmi da solo…

Anche noi preti siamo uomini, con tutte le contraddizioni e le moltitudini che conteniamo, come ogni persona. E di questo dobbiamo ricordarcene sempre per curare noi stessi, per curarci degli altri, per chiedere che anche gli altri (specialmente chi ha responsabilità superiori) si curi di noi.

Per questo la morte tragica di un uomo, e per giunta di un confratello, è sempre un colpo al cuore, e deve chiamarci e richiamarci a una maggior attenzione.

 

Nessun uomo è un’isola,
completo in sé stesso;
Ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto. 

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
la Terra ne sarebbe diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa. 

Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità. 

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.


(John Donne)

 

giovedì 16 gennaio 2025

Ciao don Roby. In morte di don Roberto Lai


Non conosco altro modo di salutarti se non questo: "Ciao don Roby!".

Eravamo ragazzini quando ci siamo conosciuti, facevamo le scuole medie. Partecipavamo agli incontri vocazionali in Seminario a Villacidro, alle celebrazioni diocesane in Cattedrale, agli incontri dei ministranti... Poi siamo entrati in Seminario a un anno di distanza, cinque anni intensi, ma anche pieni di allegria e spensieratezza: tu hai sempre tenuto banco, con le tue imitazioni dei parroci e dei vescovi, le battute, le prese in giro bonarie… Dove c'era trambusto e schiamazzi lì c'eri tu sicuramente!




Altrettanto serio eri nelle liturgie, cambiavi quasi aspetto.

Dopo per me c’è stata Roma, i primi anni del nostro sacerdozio ci siamo visti durante le vacanze o le celebrazioni diocesane. Hai partecipato al mio dottorato in Gregoriana, ti sei complimentato con me.





Poi di nuovo in diocesi, incarichi diversi, noi profondamente diversi: per ridere tu mi chiamavi “lefebvriano” e io ti chiamavo “modernista”, in una inversione ironica di ruoli, che in realtà era un modo per condividere opinioni diverse, che – lo spero – arricchivano entrambi. Certamente le tue mi hanno sempre fatto riflettere.

Quando è venuta la malattia, io ero fuori diocesi, mi hai fatto una lunga telefonata il giorno prima di essere ricoverato: avevamo condiviso preoccupazioni e speranza.

E poi sono stati questi otto anni: mi hai sempre chiesto di sostituirti quando ti assentavi per visite, controlli, chemio: a Siddi, a Pauli Arbarei, e negli ultimi due anni a Uras. Mi affidavi le tue parrocchie con grande fiducia e ho potuto vedere la stima di cui eri circondato, la cura anche delle piccole relazioni, degli anziani, dei giovani, dei bambini, delle famiglie.

Ho fatto al posto tuo, e a volte insieme con te, Pasque, Natali, feste patronali e tante celebrazioni ordinarie e feriali… ma tu, appena ti sentivi un po’ meglio, tornavi più entusiasta che mai: a nulla serviva rimproverarti per darti una calmata, per pensare alla tua salute… hai accettato con riluttanza e tanti scrupoli di lasciare la parrocchia di Uras quest’estate, non volevi vederlo come un rifiuto di un servizio.





In questi due anni abbiamo condiviso il percorso per il tesserino da giornalista: eri orgoglioso di questo impegno con il Nuovo Cammino e di questo risultato.

Infine, questi mesi, entrare e uscire dall’ospedale, e poi entrare per non uscirne più. 

A giugno sei venuto a Sa Zeppara per la festa, hai predicato sulla devozione alla Madonna, sei salito in processione con noi sino al colle… coi miei sensi di colpa per averti fatto stancare.





Ti avevo promesso un lauto pranzo a base di pesce… Ma ogni volta che provavamo a pensarci stavi nuovamente male.

A novembre mi mandasti un canto di un Grest di tanti anni fa, che entrambi usavamo per la preghiera iniziale, ti piaceva molto, ed anche a me. Fa così:

 

A mani vuote noi veniamo a te Signore 

Con le ferite e tante tracce di dolore 

Tu stringi al cuore il cuore affranto, 

e porti in braccio il corpo stanco, 

ti fai eco in 1000 toni al nostro canto. 

Dopo le strade che ora salgono a fatica, 

dopo tutto…

Dopo le stelle accese sulla volta antica, 

dopo tutto… Dopo il confine di misteri della nostra vita, 

dopo tutto, che ci aspetta… dopo tutto…

Quando tutto l'universo salirà a te..

ma che sarà di noi?

Dopo tutto dopo tutto! 

Io prosciugherò dagli occhi il vostro pianto

Io trasformerò in gioia ogni lamento, 

e poi io sarò sempre con voi!

Io ho preparato a tutti voi un posto in Cielo.

Amore e luce copriranno tutto, tutto!

 


In quest’ultimo mese i nostri dialoghi si sono fatti più spirituali, noi che non abbiamo mai amato tanto “discorsi spirituali”: ma era diventata una necessità ora, un pensare a cose essenziali, un progressivo staccarsi dai pensieri della terra per meditare sulle cose ultime. Lo hai fatto sino alla fine, anche con un filo di voce, anche solo con il cenno delle mani. Qualche giorno fa mi hai dettato queste parole:

"Come e quando giungerò alla cima del Cranio, chiamato Golgota, solo Dio lo sa. Anche se con un certo timore dico: “Sia fatta la tua volontà”, sono certo che dopo il dolore e il silenzio arriverà il grande Alleluia della vittoria finale: allora potrò dire anch’io con San Paolo “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tim 4,7)."

Lunedì, insieme a tuo figlioccio don Luca, ti abbiamo amministrato l’Unzione, consapevoli che l’ora si avvicinava: sei stato partecipe, hai pregato con devozione. Poi tutto è diventato un grande sonno.

Considero un privilegio raro aver potuto partecipare alla tua passione, a quella della tua famiglia. Anche affaticato e dolorante, anche stanco e sofferente, ma sempre con gratitudine, per tutto, per tutti.

Sul tuo stato di WhatsApp avevi messo tre versi di un poeta americano, Robert Frost:

 

Due strade trovai nei boschi

E io scelsi quella meno battuta

Ed è per questo che sono diverso.

 

Sì, eri diverso, ma di una differenza non ostentata, non esibita. Eri sacerdote, hai sempre voluto esserlo, lo sei sempre stato: la strada meno battuta è diventato in realtà un cammino che hai fatto percorrere anche ad altri.  

Roberto, ci mancherai molto. 




Don Roberto Lai è nato il 29 agosto 1978 ed è nato al cielo il 15 gennaio 2025.

sabato 24 febbraio 2024

Regionali in Sardegna: andate a votare!




 Questa domenica si va al voto in Sardegna. O meglio: questa domenica tutti siamo invitati ad andare al voto per rinnovare il Consiglio Regionale e per eleggere il Presidente della Regione.

Il voto non piace agli italiani in generale e ai sardi in particolare: nelle ultime elezioni politiche il calo è stato vertiginoso, con neppure il 64% di affluenza. Nelle Regionali del 2019 andò a votare circa il 54% dei sardi.

Significa che il Presidente fu scelto da poco più di un quarto degli aventi diritto: il 25% del totale dei maggiorenni in Sardegna.

Certo con questi numeri è facile lamentarsi del cattivo governo da una parte ed è facile rivendicare il buon governo dall’altra. La realtà è che la nostra società spesso pensa di non poter cambiare le cose attraverso il voto, le persone sono stanche, disilluse, disincantate, non credono di poter esprimere e costruire un cambiamento con la partecipazione alle elezioni e con la scelta di persone idonee a rappresentarli.

Questi ultimi cinque anni sono stati investiti in pieno dalla pandemia di Covid 19, ma sono anche stati anni in cui si è potuto contare sulla progettazione del PNRR per ridare nuovo impulso all’economia e non solo.

Quest’anno la scelta ricade su quattro candidati, i quali, al netto delle foto opportunity con personaggi che possono accreditarli in questa o quell’altra area della società, rappresentano una fetta più o meno consistente del mondo politico e partitico della Regione.

La complessità della società attuale non vede di buon occhio l’espressione di un partito unico che rappresenti le istanze dei cattolici, e forse è meglio così: ovunque siamo lievito e non pasta (per quanto a leggere certi programmi sembrerebbe che neppure il lievito riesca a rimanere vivo, ma non si sa mai).

Certamente ci sono da segnalare a tutti alcune priorità, che ho racchiuso in un decalogo (si parva licet):

 

1)   Improrogabilità della questione abitativa: AREA non riesce a sviluppare un progetto di edilizia pubblica che risponda alle esigenze della nostra Isola. Il rincaro degli affitti, la difficoltà negli accessi e nei pagamenti dei mutui casa non permettono ai giovani di mettere su famiglia e impediscono di tornare in Sardegna a coloro che vogliono farlo;

2)   Educazione, formazione, dispersione scolastica: la povertà educativa (con una significativa presenza di NEET) e la dispersione non solo esplicita (abbandoni) ma anche implicita (competenze inadeguate e scarsamente competitive) rende i nostri giovani inadatti ad inserirsi nel mondo del lavoro, e spesso anche a curarsi di sé stessi; la fragilità del sistema formativo professionale fa sì che manchino figure formate per le aziende del territorio; 

3)   La situazione delle carceri sarde, sia per le persone ristrette e sia per il personale: mancano direttori, mancano agenti di polizia penitenziaria, mancano educatori, medici. Manca un progetto serio di accompagnamento per il recupero alla socialità di chi ha sbagliato e paga il proprio debito con la giustizia;

4)   La situazione delle donne (personale, lavorativa, formativa, familiare): le donne in Sardegna lavorano ancora troppo poco, perché talvolta è difficilissimo quando non impossibile conciliare il lavoro fuori casa con le esigenze della famiglia.

5)   La creazione di adeguate politiche di supporto al lavoro povero (i dati dell’ultimo Rapporto di Caritas Sardegna sul lavoro non-standard sono un buon punto di partenza); 

6)   La situazione delle comunità di recupero da dipendenze, non adeguatamente supportate dalla Regione e la situazione della sanità, a partire dal numero di medici di famiglia e pediatri;

7)   L’attenzione alle aree rurali e alle aree spopolate e poco urbanizzate dell’Isola;

8)   La situazione dell’industria: Cagliari, Portovesme, San Gavino, Villacidro, ma non solo;

9)   L’inquinamento ambientale;

10) Infine: la soluzione del problema dei campi dove sono confinate le famiglie di etnia Rom, e una adeguata politica di inclusione sociale per loro e con loro.

 

Chiunque governi la Sardegna dopo il 25 febbraio non può non misurarsi con questi problemi.

Andiamo a votare per scegliere persone capaci, rigorose, desiderose di lavorare per il bene comune. Ce ne sono ancora, e noi dobbiamo avere fiducia.

 

mercoledì 10 maggio 2023

Sempre son state lacrime mie le lacrime di chi piange

 Chissà perché parlare della morte ci viene più immediato che parlare della vita, perché la morte in genere ci lascia senza parole, e allora per esorcizzarla ci mettiamo a parlare, mentre la vita nascente, l’in-fanzia, le parole le porta fuori pian piano, con dolcezza, con la lingua materna.

Forse per questo motivo le ultime ventiquattro ore di Gesù hanno nei Vangeli una rilevanza quantitativamente maggiore del resto dei suoi trentatré anni.

Oggi abbiamo celebrato il funerale di Kristian, un giovane uomo della comunità Rom di San Nicolò d’Arcidano, che avrebbe compiuto 25 anni il mese prossimo e che si era trasferito di recente a Terralba, in una casetta che aveva risistemato per sé, per Fatima e per le due bambine, e per un terzo in arrivo che non conoscerà mai il papà. 

Kristian è morto nel giro di un mese, dopo le prime avvisaglie di un male terribile che l’ha portato progressivamente all’ospedale, poi a Milano, poi in uno stadio irreversibile che ne ha determinato il decesso due giorni fa.

Prima di portare la bara in chiesa, alcuni membri della banda musicale del paese hanno suonato una marcia funebre e la vedova, insieme con i fratelli del defunto hanno strappato tutti i petali dei fiori, spargendoli a terra davanti alla bara di Kristian.



Un’immagine struggente e commovente di come breve sia la vita, e di come difficile sia il distacco. Questo gesto esprimeva plasticamente la morte, il disfacimento, il lutto, la desolazione.

E mentre i fiori venivano sparsi, copiose scendevano le lacrime.

Sempre son state lacrime mie le lacrime di chi piange, forse perché conosco, anche se di rimbalzo, il dolore per la perdita di un giovane genitore, la vedovanza, l’orfanezza nella mia famiglia.

Le parole di don Mattia sono state parole di speranza, parole comprensibili davanti all’incomprensibile, e l’annuncio: “Cristo è risorto!”, con la testimonianza di una comunità unita attorno alla vedova, alle piccole figlie, ai genitori e ai fratelli che piangevano la morte che si è portata via una così giovane esistenza.

Chissà perché parlare della morte ci viene più immediato che parlare della vita, lasciandoci a guardare per terra fiori strappati.

La vita è come un soffio, canta il salmista, come un fiore del campo che fiorisce al mattino e alla sera è falciato e secca.

La morte, questo dragone, questo serpente antico, questo leviatano, questo mostro degli abissi inferiori, è l’ultimo nemico che sarà annientato. Nemico dell’umanità, nemico dell’uomo, nemico di Dio. La morte è nemica, va combattuta, va affrontata, va catturata.

A nessuno è risparmiata la tragedia del morire, ad alcuni non è risparmiata la tragedia del veder morire un figlio. 

Chissà perché parlare della morte ci viene più immediato che parlare della vita. Forse non lo sappiamo, e per questo continuiamo a chiederci perché, e per questo non ci stanchiamo di guardare a Gesù Crocifisso, che la morte l’ha affrontata da uomo autentico, pienamente, con pianti, lacrime e grida forti.

E davanti ai miei occhi, ancora bagnati di lacrime, restano quei fiori a terra. Quei petali strappati.

L’uomo è come un soffio... Ma tu vieni Signore, Maranatha!



lunedì 24 ottobre 2022

Tra istruzione e merito: segnalo un pericolo


Alle Scuole Elementari (allora si chiamavano così) ero bravo, diciamo pure molto bravo.

Così bravo che non c'era bisogno che la mia carissima Maestra Sandra Dessì mi seguisse troppo. Alle domande che rivolgeva alla classe io alzavo sempre la mano, ma ero normalmente l'ultimo a cui faceva dare la risposta, dopo aver sentito tutti gli altri. Raramente mi chiamava alla lavagna per risolvere un problema, perché io già lo risolvevo al posto. In genere cercava le risposte dai meno svegli e chiamava alla lavagna i meno preparati. Ricordo che una volta mi misi a piangere perché anche io volevo essere gratificato (questo lo dico col senno di poi, allora piangevo solo perché ero trattato diversamente e non capivo perché).

Portavo sempre a casa degli ottimi voti, pagella eccellente, grandi complimenti a mia mamma ai colloqui.

Eppure la Maestra si ostinava a farmi rispondere per ultimo e a non chiamarmi alla lavagna.

Solo dopo ho capito che la Maestra privilegiava quelli che bravi non erano per aiutarli a diventare più bravi, per stimolarli e incoraggiarli, non certo per demolirli.

La mia Maestra non ci ha insegnato la meritocrazia, ma che i più deboli si aiutano a diventare forti, e che quelli che partono svantaggiati (qualunque sia il motivo: soggettivo, individuale, sociale, familiare) si aiutano a diventare migliori.

venerdì 7 ottobre 2022

Tra sogni ed estreme unzioni: quale speranza per la Chiesa di oggi?

Qualche notte fa ho fatto un sogno, un incubo che al risveglio ho ricordato lucidamente, a differenza di quanto mi capita di solito.

Mi chiamano per un’estrema unzione (sì, estrema, mi dicono che la nonna sta morendo), vado e trovo su una poltrona davanti al camino acceso un uomo grosso seduto sopra la mamma, “per scaldarla” perché ha freddo (ma io tra me e me penso che così la soffoca). 

Scambiamo due parole poi dico: “Vado in macchina a prendere l’olio”. Quando torno comincia ad affluire gente, bambini che gridano, persone che cantano e passeggiano in questo immenso salone nel quale ci troviamo. 

A un certo punto il tipo si alza da sopra la mamma e vedo la mamma col viso nero, tra il tumefatto e il bruciato, per me era morta.

Comunque, comincio la preghiera e nel frattempo arriva gente che si siede a tavola, rimprovero un ragazzino che passeggiava con un monopattino cantando a squarciagola… Continuo sempre più sommerso dal caos attorno a me. Nel frattempo sulla tavola comincia ad arrivare da mangiare e tutti si servono e continuano a parlare, mentre io sollevo la voce per far sentire la preghiera. Ma nessuno mi ascolta. Mi volto e non vedo più da nessuna parte la moribonda. Così, sconfortato dalla totale disattenzione di tutti, grido che lì non ci faccio nulla, che sono irrispettosi, e che non capisco perché mi abbiano chiamato, e me ne vado.

È l'immagine della Chiesa.

Di quello che facciamo noi: la gente ci chiede cose (servizi, sacramenti) a cui non è vitalmente interessata.

Era l’estrema unzione della Chiesa.

Vado persuadendomi che bisogna fare il percorso inverso rispetto a ciò che stiamo facendo in questo tempo, ricominciando catechismo, oratorio, attività varie con l’illusione così di coinvolgere le persone e “creare” comunità.

Occorre prima costruire un tessuto di comunità, e allora si possono proporre delle cose, anche catechesi e quant’altro.

Come fare? Non ho ricette, ma la Tradizione continua della Chiesa dice una cosa: “L’Eucaristia fa la Chiesa” (e viceversa): non ci sono alternative. 

Se non si riparte dalla Messa si fa un buco nell’acqua. 

Una Messa ben celebrata, ben cantata, preparata, con lettori che proclamano bene la Parola di Dio, con una buona omelia, con spazi di silenzio, con un tempo successivo per le relazioni personali, qualche saluto, uno scambio di parole tra tutti... 

Non vedo altre strade. Altrimenti continuiamo a sprecare energie in cose per le quali la gente ha soltanto un residuo di interesse estetico o culturale, quando va bene, e presto o tardi arriveremo a dare l’estrema unzione alla Chiesa.

domenica 14 agosto 2022

Si allarghino per te gli spazi dell'amore - In morte di Antonino Orrù, vescovo emerito di Ales-Terralba

Ho ancora il vivido ricordo di un giorno che venne per la festa patronale a Terralba, avrò avuto dodici o tredici anni e facevo il chierichetto. Appena mi vide alla porta di chiesa mi disse: «Allora Marchisceddu (Marcolino), ci stai pensando?? Guarda che io ti penso eh»… La mia reazione fu della serie «E si domandava che senso avessero queste parole per lui»… In realtà io sapevo bene cosa significassero. 

Era così mons. Orrù, molto diretto, sorridente, ci conosceva per nome, faceva delle battute e intanto seminava il germe della vocazione. Il suo motto, sullo stemma e nella vita, era “Dilatentur spatia Charitatis” (Si allarghino gli spazi dell'amore), una frase di Sant’Agostino che ho sempre amato.

Ricordo ancora quando agli inizi di agosto del 1998 andai a parlargli nel suo studio ad Ales per chiedergli di entrare in seminario: era contento, mi accolse con gioia e chiamò subito il rettore per comunicarglielo. 

E così ogni anno, al rientro per le vacanze natalizie, facevamo tappa in episcopio per il pranzo con i seminaristi: prima una chiacchierata nel suo studio per sapere come andava e poi ci faceva preparare un vero pranzo natalizio.

Non mancarono negli anni anche alcune incomprensioni, dovute a piccolezze e subito ricomposte. 

Celebrando il rito di ammissione nel 2002 mi disse tra le altre cose: «Questo si attende il popolo, che il presbitero sia un uomo di Dio, come la Chiesa oggi intende, e sempre immerso nel gran mare delle vicende umane, senza dimenticare nessuna persona affidatagli, specialmente i più poveri e bisognosi. C’è necessità ancora oggi, di uomini scelti tra il popolo per mettersi al suo servizio, perché Dio vuole aver bisogno degli uomini per evangelizzare e incontrare il suo Israele; ha bisogno ancora di profeti che siano testimoni dell’amore di Dio e della Nuova Alleanza sigillata nella Croce di Cristo, di uomini che siano scelti e mandati da Lui, segno che Dio non si è ancora stancato del suo popolo e che è fedele alle sue promesse. […] Il cammino e la strada del presbitero non è per nulla facile, né tantomeno votato al borghesismo di una vita tranquilla, che nulla ha a che fare col mandato che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli, tantomeno ci è promessa la riuscita. Il cammino è certamente in salita e questo tuo primo “eccomi”, Marco, è appunto il primo di tanti “eccomi” che sarai chiamato a dire al Signore».

Poi nel 2003 decise di mandarmi a studiare a Roma… non convintissimo e dopo mille rassicurazioni sul mio “ritorno” appena terminati gli studi, anche perché lui oramai era in scadenza, avendo compiuto i 75 anni canonici e non voleva ipotecare il suo successore.

E quindi la mia ordinazione diaconale il 5 gennaio 2004, con qualche nostalgia, perché era la sua ultima ordinazione da vescovo titolare: fu contento, anche se già provato dalla salute precaria.

Esattamente un mese dopo, con l’elezione di mons. Dettori, divenne emerito, ma volle comunque essere presente anche alla mia ordinazione presbiterale, e fu per me una grande gioia.

Mons. Antonino è stato il vescovo della mia infanzia, adolescenza e giovinezza: un uomo del suo tempo, certamente, ma umano, cordiale, rigido su certe cose, ma apertissimo su altre.


Vorrei ricordarlo soprattutto per aver recuperato un sacerdote diocesano, mio predecessore a Sa Zeppara, don Cabiddu: questi era un prete un po’ “particolare” che a un certo punto verso metà degli anni ’70 andò via e interruppe qualunque contatto con la diocesi, senza che nessuno sapesse dove fosse finito.

Mons. Orrù, che era stato suo compagno di seminario a Cuglieri, negli anni lo cercò senza risultati, fino a quando sfogliando il giornale lesse di un incidente accaduto in un condominio nell’hinterland di Cagliari: un uomo, di cui il giornale riportava le iniziali, era caduto nel vano dell’ascensore, riportando diverse fratture. Il vescovo capì che era lui e andò a trovarlo in ospedale. La leggenda narra che entrando nella sua camera gli disse in sardo: «Giuseppi, seu Antoninu Orrù» (Giuseppe, sono Antonino Orrù). 

Dopo un po’ di tempo riuscì a riabilitarlo completamente facendogli celebrare anche il 50° anniversario di ordinazione, e alla sua morte gli fece un bel funerale da prete con tutti i crismi.

Era il pastore che fino alla fine era andato in cerca della pecora smarrita. 

Il Pastore grande delle pecore ti accolga nel suo regno, caro mons. Antonino!