martedì 1 gennaio 2019

Omelia per il primo dell'anno

La liturgia della Chiesa ci fa iniziare l’anno con la benedizione di Aronne sui figli di Israele e ci parla della circoncisione di Gesù all’ottavo giorno, secondo la tradizione ebraica. La circoncisione è segno di appartenenza a Dio e al suo popolo eletto. Quel segno che Abramo praticò su se stesso e su tutti i maschi della sua casa per dichiarare la sua adesione all’alleanza con Dio.
E in fondo appartenere vuol dire benedire: noi benediciamo, cioè diciamo e vogliamo il bene, di tutto ciò che ci appartiene, persone comprese. E ci sentiamo appartenere a chi ci benedice, a chi dice il bene per noi, tanto che diciamo che non è tanto padre o madre chi ci genera fisicamente, ma chi ci fa crescere, chi semina in noi semi di bellezza e di bontà, chi ci innaffia con la sua generosità e il suo amore, chi ci custodisce con la sua premura e vicinanza al di là di un possibile legame di sangue. Sembra che ogni cosa autentica nella nostra vita inizi attraverso una benedizione, cioè una radicale disposizione al bene e per il bene. 
E allora mi sembra che iniziare l’anno con questa benedizione, significhi per noi iniziare l’anno consapevoli di un’appartenenza fondamentale e basilare nella nostra vita: noi apparteniamo a Dio. Il Figlio di Dio ha voluto appartenere anch’egli alla nostra umanità per dirci che noi apparteniamo a Dio. Ha voluto condividere umanamente, anche attraverso i gesti della religione ebraica, nella quale è nato e cresciuto, i segni della religione ebraica, quelli che potremmo chiamare i sacramenti della religione ebraica.
Ha voluto appartenere a un popolo non per diventare il dio di una nazione, ma per dire che quel popolo apparteneva a Dio, e che attraverso quel popolo tutta l’umanità appartiene a Dio. Per dire anche a noi: tu appartieni a Dio. Tu non sei un essere umano frutto del caso, lasciato sulla faccia della terra solitario e isolato dal resto del mondo, che deve vivere la sua vita individuale.
Tu appartieni a Dio!
Noi non abbiamo più i segni della circoncisione, perché abbiamo i sacramenti. Gesù ha voluto stabilire un legame con i suoi discepoli che superasse i confini della nazione e dell’appartenenza al popolo ebraico, e anche i confini dettati dalla differenza di sesso. Infatti la circoncisione era solo per i maschi, mentre il battesimo è per uomini e donne indistintamente.
Dunque la solennità di oggi ci fa fare un passo avanti nella contemplazione del mistero dell’incarnazione: Dio ci ha donato suo figlio come vero uomo per dirci il suo desiderio di benedizione su ogni uomo e donna.
Non c’è solo l’incanto dei pastori, una scenetta idilliaca di una piccola famigliola. 
C’è già tutto il dramma che costerà a Dio adottarci: tutta la sua vita.
Conosco famiglie che hanno adottato dei bambini, e hanno dovuto fare una trafila lunghissima per essere dichiarate adeguate... poi sono dovute andare spesso all’estero per stare un tempo con il bambino, conoscerlo e farsi conoscere, passare del tempo con lui, guadagnarsi la sua fiducia, instaurare un legame umano.
E poi una volta adottato spesso non sono mancati i problemi, dovuto magari a traumi infantili che si sono portati avanti nella crescita. Quanto hanno dovuto penare certe madri e certi padri adottivi. Davvero un parto, anche se non li hanno generati fisicamente.
Ecco cosa ci dice la liturgia di oggi: Dio ha deciso di venire ad adottarci. Non gli è bastato far esplodere la sua creatività nel dare inizio a ogni cosa che esiste. Non gli è bastato riservarsi un popolo che lo lodasse in tutto il mondo. Attraverso Gesù ci ha fatto comprendere quale fosse il suo vero desiderio: quello di adottarci, quello di farci sperimentare la sua paternità benedicente.
Questo è il cristianesimo, questa è la nostra fede: abbiamo un padre, gli apparteniamo, non come un possesso ma come persone amate.
Noi passiamo tutta la vita ad avvicinarci (e allontanarci) da questo mistero di amore, perché insieme alla consolazione che dovrebbe portarci la consapevolezza di avere un padre e di non essere soli, nasce subito anche il veleno della paura, di quella tentazione di cui parlavamo domenica quando dicevamo che esistono tante persone che pensano di “essersi fatte da sole”, di non avere avuto bisogno di nessuno che le abbia benedette, curate, cresciute.
La tentazione insomma di pensare di essere totalmente indipendenti da Dio.
Salvo scoprire poi che senza Dio non possiamo vivere, perché nel cuore di ogni persona è radicato un bisogno di appartenenza.
Nel romanzo Narciso e Boccadoro, di Hermann Hesse, si narra di due amici, un monaco e un artista. Boccadoro, l’artista dopo aver fatto un periodo in monastero esce alla ricerca della sua identità, cercando continuamente una madre, cioè un’origine che cercherà nelle donne che incontra e proverà a scolpire in una statua della Madonna. Tornato alla fine della vita in monastero, porrà all’amico monaco l’ultima sfida, che riassume il suo percorso di vita: «Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire».
Veramente nel nostro cuore noi abbiamo bisogno di appartenenza, di sentirci chiamare per nome. Perché se nessuno ci chiama per nome noi restiamo nel buio, restiamo nella incomunicabilità, non veniamo alla luce.
Allora in questo ottavo giorno di Natale, in cui facciamo memoria della circoncisione e dell’imposizione del nome a Gesù, noi facciamo memoria della nostra appartenenza a Dio, non più attraverso un segno esteriore sulla carne dei maschi, ma attraverso un segno interiore impresso nel nostro cuore: la coscienza di essere figli e di poter chiamare Dio Abbà, babbo, papà, paparino.
Questa è la vera benedizione sulla nostra vita, che non ci abbandona mai, che ci fa respirare con confidenza le cose belle che verranno e ci fa affrontare con fiducia quelle tristi.
Il Signore faccia sempre risplendere il suo volto su ciascuno di voi!
Amen