martedì 31 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono, da Amos di Tekoa

AMOS DI TEKOA
(Libro di Amos)
Marc Chagall - Profeta

Carissimo.
Ti scrivo queste righe mentre prendo un po’ di fresco sotto il mio più grande sicomoro.
È molto bello, sai, ci si può persino arrampicare e da qui si gode una vista stupenda: sono le colline di Tekoa, e un po’ più in là il deserto che da Tekoa prende il nome, e in fondo, se mi volto a oriente, il grande Giordano. Nelle lunghe notti estive, custodendo il gregge, ho imparato persino a conoscere le stelle, le costellazioni, le Pleiadi e Orione: Dio è grande e sublime!
Io sono nato pastore, e pastori sono stati mio padre e mio nonno: ho vissuto una vita all’aperto, ho incontrato il Signore durante il mio lavoro. Ma non fraintendermi: non è che lui si sia manifestato a me come lui è, perchè nessuno può vedere Dio e restare vivo. Però ne ho sentito la sua presenza, forte, come il ruggito dei leoni che di tanto in tanto si spingevano fino alle nostre campagne, e che qualche volta avevano divorato il nostro bestiame: quel ruggito è impossibile da descrivere, ma altrettanto impossibile da dimenticare: è un terremoto che ti entra dentro le viscere, che ti fa vibrare i polmoni e i fianchi e ti atterrisce a tal punto da lasciarti paralizzato, senza sapere cosa fare...
Ecco, con questa forza mi si manifestò il Signore, che era acceso d’ira e minacciava di distruggere Damasco, Gaza, Tiro, Edom e Rabba: Fuoco! Era la mia parola preferita, quella che più spesso mi trovavo a gridare contro queste ricche città, che ammassavano denaro e potere, che costruivano palazzi, che deportavano i loro stessi fratelli, senza più ricordarsi dei legami di sangue, che ammazzavano persino le donne incinte per allargare i loro possedimenti.
Un fuoco era dentro di me, io che ero così piccolo e lontano dai giri politici, e divampava in modo tale che andò a bruciare anche Giuda e Israele, i quali non osservavano i comandamenti, anzi! Divennero idolatri, fedifraghi, profanatori. Per arricchirsi erano disposti a tutto, anche a opprimere i poveracci. Essi non ricordavano più le grandi meraviglie che il Signore aveva compiuto per noi, quando ci fece uscire dall’Egitto, ci diede la terra, una e unica, per tutti.
Il Signore mandò me, che ero della tribù di Giuda, a predicare a Samaria... ora non so se ti rendi ben conto, ma è come se, una volta diventato diacono e prete, il vescovo decidesse di mandarti in una parrocchia riformata a Ginevra: avresti il coraggio?
Eppure così fu per me, e non potei oppormi!
Un fuoco era dentro di me, ogni volta che il Signore minacciava. Lui minacciava, ma ero io a bruciare di zelo per lui. E ancora fuoco sentivo arrivare da nord, quando popoli più numerosi, militarmente più forti, più attrezzati, si preparavano ad invaderci. E più io gridavo, e più volevano che tacessi.
Sai, nel Regno del Nord, ormai staccato da Giuda, si moltiplicavano i santuari, sempre più ricchi, sempre più sfarzosi, i re e i sacerdoti di Betel e di Galgala avevano copiato le feste che si facevano a Gerusalemme, ma le facevano più belle, più luminose, più ricche.
Quelle vacche delle loro donne ostentavano i loro gioielli, quegli ubriaconi dei loro mariti opprimevano i poveri e contemporaneamente facevano sacrifici e offrivano doni, decime, frutti. Avevano una liturgia elaborata e varia, ogni giorno.
Sai cosa dovetti gridare un giorno, durante una festa solenne?

Io detesto, respingo le vostre feste solenni
e non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco le vostre offerte,
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.

Lontano da me il frastuono dei vostri canti:
il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!
Piuttosto come le acque scorra il diritto
e la giustizia come un torrente perenne.
Mi avete forse presentato sacrifici
e offerte nel deserto
per quarant’anni, o Israeliti?


Il Signore sputava sopra le loro liturgie, non le voleva, non le gradiva, lo infastidivano, perchè esse non corrispondevano alla loro vita, alle loro scelte, alle loro azioni. Erano solo apparenza.
Quante volte ha cercato di farli desistere dalla loro condotta!
Arrivò la siccità, la carestia di raccolti, non c’era più pane da nessuna parte, i giardini e le vigne si erano seccate. Fuoco era persino l’aria che respiravamo!
Li strappò dal fuoco, come si strappa un tizzone ardente da un incendio... eppure neanche così tornarono a lui. Non capivano che erano segni attraverso i quali venivano messi alla prova: la vita non è sempre godereccia. Quando finiscono i piaceri e quando ci sono i problemi, cosa resta? Quando la luce si trasforma in tenebra, cosa si può sperare ancora?
Nulla. La vita sparisce in un battito di ciglia, e gli spensierati non se ne accorgono nemmeno, finché non arriva per loro il momento di diventare schiavi e di essere deportati. Io forse ero divorato dal suo zelo ed esageravo con gli oracoli e le visioni distruttive, ma loro certamente erano insensati, deficienti, come chi vorrebbe arare il mare con i buoi. Gente sciocca, vanesia, stupida, istupidita dal male stesso che compiva.
Così li invitavo continuamente a cercare Dio, a convertirsi. Dissi loro che sarebbe arrivato un momento in cui non ci sarebbe stata fame di pane, ma fame di parola di Dio, perchè nessuno avrebbe più parlato loro in nome di Dio... eppure niente: non volevano ascoltare.
Quella peste di Amasia, sacerdote di Betel, mi denunciò al re d’Israele e mi fece allontanare. Forse pensava che io fossi una spia di Giuda, che andassi lì perché ero pagato da Gerusalemme... non capiva che era il Signore a mandarmi a profetizzare, io che fino ad allora neppure avevo mai visto un profeta. Ma anche lui fece una brutta fine, come tutti i capi di Israele, deportati, uccisi, sconvolti.
Eppure, a un certo punto, neppure io ce la facevo più: la devastazione, la tristezza, il peso della desolazione che ero chiamato ad annunciare erano troppo anche per me. Mi resi conto che in fondo siamo tutti poveracci, tutti creature disgraziate che cercano la felicità a tal punto talvolta da bersi il cervello, e compiere il male. Male orrendo. Ma sempre male compiuto da poveracci, da poveri uomini e povere donne, tanto più poveri quanto più malvagi. Scoprii dentro di me un altro ruggito, ma stavolta più dolce, più sottile, più mite: le mie viscere si commuovevano davanti a tanto male subito da questi disgraziati dissoluti. E così implorai per due volte Dio: «Signore Dio, perdona! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo. Chi lo rialzerà se tu lo distruggi?». Non chiedermi né come né perchè, ma mi resi conto che la mia preghiera per il popolo fece cambiare idea al Signore. Egli mi aveva ascoltato. Aveva trattenuto la sua mano.
Tuttavia neppure la misericordia serviva con questi... a un certo punto, passeggiando per Betel vidi un muratore che innalzava un muro. Utilizzava un filo a piombo per costruire dritto, e capii che era giunto il colmo. Il Signore avrebbe tirato dritto nella sua decisione. Capii che tutte le loro feste, le loro liturgie splendide, si sarebbero presto ritorte contro di loro. Che lutto e nenie funebri avrebbero sostituito canti e balli. E alla fine il silenzio, quel silenzio opprimente e terribile nel quale non si ha neppure la consolazione della sua Parola.
Questa visione mi atterrì, perchè la sua grandezza e la sua forza sono irresistibili.
Mi atterrì a tal punto che pensai di non farcela, che pensai: A che pro, Signore, tutti questi sforzi che hai fatto, se poi distruggerai tutto?
Siamo davvero condannati a non trovare senso nella nostra vita? È davvero tutto così insensato, tutto così malato e toccato dal male in modo irreversibile? Mi hai mandato solo per annunciare rimproveri e castighi?
Mi crogiolavo in questi pensieri di morte, quando vidi in lontananza un campo di grano: tutto era bruciato, tranne che un piccolo angolo, nel quale le spighe erano miracolosamente rimaste integre. Le raccolsi, e dopo averle schiacciate feci un po’ di farina e del pane. E finalmente, dopo giorni di digiuno e di tristezza, mangiai.
E capii che il Signore avrebbe lasciato un resto, che la mia vita e la mia predicazione non erano state vane, anche se forse io non avrei visto il compimento e il rientro dei deportati, e di nuovo campi e vigne con i frutti.
Capii che seppur poveracci, il Signore ci avrebbe rialzato, avrebbe permesso alla tenda di Davide di venire nuovamente elevata. Ma doveva rimanere una tenda di pastore... non un palazzo!
Capii che questa è la nostra condizione: per quanti bei giardini coltiviamo, e per quante vigne curiamo, siamo nomadi, siamo in cammino.
Credente” è un participio presente, una dinamica sempre in atto, mai del tutto realizzata, ma sempre passibile di equivoci, di ipocrisia, di infedeltà: sempre da curare perchè il cuore corrisponda alle parole e le parole alla vita. A te diranno a breve: «Credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni».
Mi sembra una bella sintesi della mia vita, perchè quel fuoco che chiamavo dal Cielo a divorare gli altri, in realtà era anzitutto per me, che di Dio ero soltanto un ministro, un servo, un amplificatore della sua voce: ero io quel tizzone sottratto dall’incendio, e di questo non finirò mai di ringraziare l’Altissimo!

Buona predicazione della sua misericordia!

Amos, pastore di Tekoa

lunedì 30 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono, da Abramo di Ur dei Caldei

ABRAMO DA UR DEI CALDEI
(Gn 12; 22)



Carissimo.
Ho saputo che presto sarai ordinato diacono, e questa notizia mi ha riempito di gioia, perchè mi ha ricordato i miei inizi, quando uscii dalla casa di mio padre, dalla mia parentela per andare verso una terra che non conoscevo.
Sai, io sono una persona concreta, sono un pastore, sono abituato a contare ogni sera le mie pecore e i miei cammelli per verificare che non ne manchi neanche uno. Tutto deve tornare a casa mia. Siamo benestanti, ma il patrimonio si conserva se si tiene sotto controllo, appunto.
La questione è proprio questa: che Dio invece mi ha promesso qualcosa fuori controllo!
Una notte, mi ricordo ancora come fosse oggi, il Signore mi ha parlato, mi ha fatto uscire fuori dalla mia tenda e mi ha chiesto di contare le stelle... Ma come si fa a contare le stelle?
E mi ha promesso che la mia discendenza sarebbe stata più numerosa delle stelle, se io fossi riuscito a contarle.
Un’altra volta, stavo insieme a Lot, mio nipote, e il Signore mi ha mostrato tutta la valle del Giordano, una enorme distesa di terra. E mi ha detto: «Se uno potrà contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti».
A me che avevo una moglie sterile! Comprendi?
Allora qui si tratta proprio di un’assurdità. Eppure qui sta il paradosso: che se fosse davvero un’assurdità, io non l’avrei fatta. Perché io – torno a dire – sono un uomo concreto.
Mi sono fidato di queste voci che sentivo, di queste visioni che vedevo... anche se non sempre capivo. Ci ho messo tanto tempo. Ed ero già grande! Avrei dovuto avere senno.
Sai, i miei mi hanno accusato di essere pazzo. Si stava così bene a casa mia, avevo tutto. E invece io ho preferito seguire un’altra strada.
Così ho avuto un figlio da Agar, che era la schiava di mia moglie, ma Sara non la sopportava, perché Agar la prendeva in giro, la umiliava per la sua sterilità. E tanto fece che mi costrinse a cacciarla, insieme a Ismaele. Qualche volta mi sono fatto condizionare da altre persone che avevano una certa influenza su di me.
Sì, non sono stato un santo, lo ammetto: avrei dovuto resistere. Così come quando presentai Sara al faraone come mia sorella e non come mia moglie: avevo paura che mi facesse fuori per prendersi la mia bellissima signora. E così ho fatto certe cose soltanto per cavarmi d’impiccio, non perchè fossero giuste.
Non so, è come se convivesse in me un affidamento totale a un Dio che neppure conoscevo tanto bene, nomade anche lui come me, e contemporaneamente però una fifa blu quando si trattava di prendere decisioni.
C’è stata però un’occasione nella quale la mia paura e il mio coraggio sono andati avanti insieme, e questo è stato la mia salvezza. È stato quando è nato Isacco, il mio figlio tanto desiderato, colui che ha rallegrato la mia vecchiaia e che ho amato infinitamente.
A un certo punto, questo Dio che mi aveva promesso una discendenza senza numero mi ha chiesto di sacrificarlo.
Lì mi è crollato il mondo addosso. Perché Dio mi chiedeva una cosa simile?
Mi chiedeva di odiare colui che amavo. Perché uccidere è odiare. Mi ricordavo bene di Caino e Abele, mio padre Terach ci raccontava sempre la storia... sai, noi siamo pastori, siamo abituati a risolvere le cose con il coltello. Ma io, grazie a Dio, poiché disponevo di molti soldi e sono sempre stato una persona pacifica, ho preferito spendere qualcosina in più per aggiustare le cose, quando qualcuno si appropriava di pozzi che non erano i suoi, o di pascoli che non erano i suoi. Pensa che a Lot dissi tranquillamente, pur di non litigare, che si scegliesse la terra che più gli piaceva. Io sarei andato dalla parte opposta. Io sono fatto così: non mi piace litigare, non mi piace odiare.
Beh, insomma... a un certo punto Dio mi fa: «Prendi il tuo unico figlio che ami, vai sul monte e offrilo in olocausto».
Non so se mi spiego: il mio unico figlio (Agar se n’era già andata con Ismaele)... offrirlo in sacrificio?
Lì ho capito che si può offrire in sacrificio solo ciò che si ama. Si può sacrificare non ciò che non conta niente nella vita, ma ciò che conta tutto, come un figlio, come la libertà, come i genitori.
Ravenna, San Vitale - Mosaico del presbiterio
Mi sono reso conto che questo è stato sempre il filo rosso della mia vita: in fondo non sono mai contate per me le ricchezze, le donne, i greggi, bensì il fatto che tutta la mia vita sia stata sempre un perdere qualcosa: perdere la terra e la casa di mio padre, perdere la terra migliore e più fertile, perdere qualche pozzo, perdere Ismaele, e ora perdere Isacco.
Quella promessa assurda di Dio la riassumerei proprio così: prometti tutto, ma questo tutto te lo devo restituire.
I vostri evangelisti scrivono che Gesù ha detto una volta queste parole: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Sì, lo so che per timore che suonasse troppo forte, questa parola è stata addolcita da chi vi ha tradotto la Bibbia. Ma io non fatico a pensare che Gesù abbia usato davvero il verbo “odiare”, perchè è stata anche la mia esperienza.
Io non potrei capire questa parola se non avessi sperimentato sulla mia pelle cosa significa. Come si fa infatti a odiare coloro che sono parte del nostro cuore, che rappresentano le nostre radici, le nostre aspirazioni, tutti i sentimenti di bene che può avere un uomo?
Come Dio può pretendere, chiedendoci di seguirlo per una strada che non conosciamo (e già questo dovrebbe bastargli), che addirittura odiamo coloro che ci sono cari?
L’ho capito salendo sul Moria con Isacco. Se Dio pretendesse da noi un amore tiepido, un amore da dividere in mille rivoli, un amore che non fosse esclusivo e assoluto... se non fosse così, che amore sarebbe?
Ma allo stesso tempo ci ha dato questi affetti, a che pro?
Ecco, mi pare di poter dire così: in realtà è proprio perchè io amo pazzamente questi miei cari che sono disponibile anche a sacrificarli. Quello che tutti chiamano odiare e ritengono una pazzia, come appunto in questa richiesta di Gesù, in realtà è un amore più grande, o meglio è un amore che non smette mai di amare. Se io avessi odiato Isacco, Dio non mi avrebbe chiesto di offrirlo in sacrificio... io ho potuto salire il monte Moria con Isacco perchè lo amavo infinitamente, e ancor più adesso. Ecco perchè Dio me lo stava chiedendo.
Nessuno può capirmi, se non chi ha fatto la mia stessa esperienza, e spero che anche tu la faccia. C’è qualcosa che supera il buonsenso comune, che supera persino una certa etica comune, ed è appunto la fede. Lì sono diventato veramente me stesso, lì sono diventato veramente autentico, perchè nessuno poteva fare la scelta al posto mio. Lì, in questa scelta assurda, sono diventato veramente Abramo. Sono rinato con una nuova paternità, con un nuovo figlio.
Lì, proprio sul Monte Moria, ho compreso che il Signore non vuole olocausti e sacrifici, ma vuole un cuore puro, che gli appartenga, vuole un amore grande, che faccia muovere le nostre scelte, che ci spinga verso mete sconosciute, che ci faccia sperare contro ogni speranza.
E sono sicuro che chiunque mette in pratica quelle parole di Luca, anche lui farà la stessa esperienza: rinascerà come figlio, come fratello, come padre, rinascerà nuovo, rinnovato, autentico...
Capirà che Dio non chiede sacrifici, ma chiede amore totale, e che proprio in questo amore totale ci fa ritrovare tutto ciò che per amore abbiamo abbandonato. Anzi il centuplo, anzi, in quantità incommensurabili.... Conta le stelle, se riesci, conta i granelli di sabbia se riesci... Tali saranno i doni che io ti farò!
Ecco, io sono stato solo con questi miei dubbi: li ho dovuti presentare infinite volte al Signore perchè mi aiutasse a comprendere cosa mi capitava.
Sono vissuto come forestiero la gran parte della mia vita. Alla fine della mia vita non avevo che un pezzo di terra per la mia tomba e quella di mia moglie... altro che grandi terre. E non avevo che un figlio, ormai, Isacco... altro che polvere della terra e stelle del cielo...
Eppure ho continuato a sperare.
E ora posso vedere che tante cose sono cambiate, Dio solo lo sa. Non mi troverei più nel vostro mondo. Eppure la fedeltà di Dio non è cambiata. Lui è rimasto fedele a me e rimarrà fedele anche a te, stanne pur certo.

Augurandoti ogni bene per il tuo futuro, ti saluta il tuo vecchio patriarca
Abramo

domenica 29 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono, da Elia di Tishbi

ELIA DI TISHBI
(1Re 17-19)

Carissimo.
È passato molto tempo da quando ho messo piede per l’ultima volta su questa terra, ma ho ancora vivo nel mio pensiero il ricordo dei miei giorni terreni.
Furono anni di grande carestia, di siccità tremenda: in tutta la terra d’Israele non si trovava più né grano né olio, perchè non pioveva da tre anni e mezzo.
Io però ero fortunato: i corvi mi portavano da mangiare mattina e sera, e mai mi mancò il cibo.
Quando il fiume si seccò, Dio mi comandò di andare a Sarepta, in territorio pagano, da una vedova che aveva un figlio. Ella aveva solo un pugno di farina e un orcio di olio, e io le dissi di non temere, e di preparare da mangiare. E così mangiammo, lei, il suo bambino ed io, per molto tempo. E sperimentai, per la prima volta che Dio è nel poco, e salva nel poco e con poco.
Che per lui non è più difficile venire a capo delle situazioni difficili con poco, piuttosto che non con molto. Questa è stata sempre la cifra della mia vita.
Così quando il figlioletto di questa povera vedova si ammalò e morì, chiesi a Dio di risuscitarlo, e mi stesi su di lui, corpo a corpo, perché è soltanto quando ci si dà completamente, senza risparmiarsi anche fisicamente, che la parola di Dio si realizza ed è efficace, e non è soltanto flatus vocis.
Quando fui mandato ad Acab, sapevo che Gezabele era una sanguinaria e violenta, e tuttavia non ne ebbi paura. Acab mi apostrofava chiamandomi “la rovina di Israele”, ma in realtà la rovina erano lui e sua moglie, e tutti quelli che adoravano gli idoli, che stimavano potenti gli amuleti, che credevano di salvarsi attraverso il loro potere.
Io ero rimasto solo. Solo. Solo.
L’unico sulla faccia della terra a continuare ad avere fede nel Signore.
E il Signore stette al mio fianco, quando davanti ai profeti di Baal egli fece scendere il fuoco sul mio giovenco e non sul loro, nonostante si dimenassero per ore, si facessero incisioni, e gridassero al loro dio.
Così, nel mio zelo per Dio, diventai anche io un sanguinario e li sgozzai senza pietà.
Ma fatti fuori loro, il popolo non credette di nuovo in Dio. Tuttavia egli rispose alla mia preghiera mandando la pioggia: era una nuvola, inizialmente, piccola come una mano d’uomo, ma poi si tramutò in un temporale che risanò la terra. Tutti si convertirono, tranne Acab e Gezabele, che mi cercava per uccidermi.
Allora dovetti scappare, solo, ancora una volta, rifugiandomi a sud, a Bersabea, ai pozzi di Abramo e di Isacco. Andai nel deserto: volevo morire. Sai, la solitudine è pesante a volte: chiedevo a Dio che mi mostrasse un segno, e non ottenevo nulla. Mi chiedevo a che cosa servisse essere così zelante, quando poi l’unico risultato era la persecuzione, l’affronto. Certo offendevano lui, ma era con me che se la prendevano! Perciò gli chiesi di morire. Ed egli, per tutta risposta, mi fece trovare del pane e dell’acqua, e mi fece vagare nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti. Stette presente nella mia solitudine, mi custodì invece che ascoltare i miei vaneggiamenti. Mi fece attraversare la mia solitudine, facendomi entrare dentro me stesso, facendomi arrivare alle sorgenti del mio rapporto con lui, dove non valevano più gli effetti scenici, i miracoli, le guarigioni, ma bisognava tendere l’orecchio. Lì sull’Oreb la sua presenza fu delicata, il sussurro di una brezza leggera, ma io non vedevo altro che la mia solitudine.
Mi sentivo solo, solo e ancora solo. E in pericolo di vita.
Così il Signore mi diede un comando, mandandomi a ungere il re di Aram e il nuovo re d’Israele, per far fuori Acaz e Gezabele.
E mi incoraggiò dicendomi che non ero solo come mi lamentavo, ma che ben settemila persone in Israele non si erano piegate ai Baal. Capisci? Dovevo solo alzare gli occhi, non ero solo! Ma il mio dolore mi aveva chiuso in me stesso.
Allora uscii e per prima cosa, vedendo Eliseo, lo chiamai a diventare mio segretario, perchè in futuro prendesse il mio posto.
Gli gettai addosso il mio mantello. Mi pare che questa cosa sia importante: gettare addosso a qualcun altro il proprio mantello, cioè trasmettere ad altri la passione per Dio.
Quando pensavo di essere solo avrei voluto morire. Capii invece che dovevo fare fiducia in Dio e anche negli uomini, che non tutti erano corrotti e malvagi, che il Signore agiva non soltanto attraverso di me. Allora potei vedere più chiaramente, ed Eliseo mi seguì sempre, e divenne profeta al posto mio.
Infatti sperimentai che c’è una solitudine sbagliata, e che un uomo solo non ha chi lo rialzi quando cade.
Quando si sta troppo tempo soli, poi, senza un confronto serio e onesto con gli altri, si rischia di pensare di essere sempre nel giusto, si rischia di non esercitare più l’amore, perchè non si ha una persona concreta a cui darsi: noi uomini di Dio, pur rimanendo celibi, tutti dedicati a Dio, non per questo dobbiamo diventare degli orsi delle caverne.
Inoltre rimanere soli produce un altro grave problema: il compiacimento di sé stessi. Troppo spesso, quando dicevo di essere solo, non era un lamento, ma quasi un motivo di vanto: solo io sono bravo, Signore, solo io ti seguo, solo io sono capace!
Meno male che Dio mi ridimensionò: altro che solo! C’erano settemila persone che erano rimaste fedeli a lui!
Non fu mai facile il mio carattere, mi incendiavo facilmente: ad Acab rimproverai la sua usurpazione della vigna del povero Nabot di Izreel; a Gezabele pronosticai che sarebbe morta di morte violenta, lei che aveva fatto della violenza la sua regola, e che i cani avrebbero leccato il suo sangue, e così fu. Letame diventò sulla terra!
La vita può attraversare spazi di desolazione, tempi di fraintendimento da parte dei fratelli, ma io sperimentai la fedeltà di colui che mi chiamò, nonostante i momenti di sconforto.
Era presunzione pensare che il Signore non mi abbandonava? No, era semmai abbandonarmi fiduciosamente nelle sue mani, come un bambino. Perché sapevo con certezza una cosa: che non era mia la forza, non era mia la parola, non erano miei i segni che accadevano attraverso di me.
Se avessi dovuto contare solo su me stesso, o sulle forze che non vedevo attorno a me e i nemici che mi circondavano, sarei capitolato subito, mi sarei lasciato morire nel deserto.
Invece capii quel che ti dicevo all’inizio, che il Signore è nel poco e salva nel poco e con poco. Il fondamento della mia vita non era in me e neppure nel mio zelo, anzi: ogni volta che mi ero fidato soltanto del mio zelo, avevo agito da violento, come quando ammazzai senza pietà i profeti di Baal.
Ma non era la tolleranza zero, quanto il Signore mi chiedeva!
Egli mi chiedeva semplicemente di fidarmi di lui, che non mi avrebbe abbandonato. Perché in fondo, essere uomini di Dio, come mi chiamava la gente, è proprio questo: non fare miracoli, ma testimoniare una vita altra, a partire dalla propria vita e dalla propria storia. Non rifugiarsi in una volontà personale, in un progetto personale, in una strada personale, ma aprirsi alla volontà di Dio, alla sua strada.
Non voler essere profeta, per esserlo veramente. Non voler essere nulla, per poter essere tutto, ovunque il Signore mi chiamasse ad andare e qualsiasi cosa mi chiamasse a dire.
Quando mi fossilizzavo nelle mie idee, nei miei progetti, tutto si faceva maledettamente difficile e arduo. Mentre quando lasciavo spazio a lui, tutto ciò che era arduo diventava una sfida.
Quando progettavo per conto mio, i miei piani cadevano miseramente. Ma se accoglievo le sollecitazioni del Signore, allora il suo piano si realizzava.
Quando mi muovevo per conto mio, finivo per ricadere nel deserto della mia solitudine, mentre quando era lui a muovermi, c’era sempre una missione da compiere: solo il suo amore può liberarci dalla disperazione dovuta alla nostra condizione e ai nostri tanti limiti.
E dunque imparai a discernere col tempo gli impulsi momentanei dovuti al mio carattere piuttosto focoso, e la pazienza di scoprire l’azione di Dio non nell’uragano, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nell’alito di vento leggero.

Mi ricordai di quella vedova, a Sarepta, di quel pugno di farina, di quel po’ d’olio. E non me lo dimentico più.
Dio è nel poco e salva nel poco.
Ma io ero testardo. Fu lui a rendermi docile passo dopo passo.
Mi fece comprendere che non dovevo chiedermi tanto in che modo far fronte a tale o tal altro problema, a questa o a quella situazione, bensì come seguire la sua chiamata, come ascoltare la sua parola nel vento leggero.
Così potei continuare a seguirlo, finché non mi prese con sé sul carro di fuoco: oramai avevo lasciato il testimone nelle mani sicure di Eliseo.
Il mio compito non era terminato, ma continuava attraverso i miei fratelli profeti, e continuerà fino alla venuta del Messia attraverso tutti coloro che hanno preso il mio mantello: i monaci e le monache.
Nulla è andato perduto di ciò che ho fatto, perché nulla era semplicemente mio, perchè io non agivo per mio conto, ma per conto di Dio, e dunque non avevo un mio piano da realizzare, ma solo dovevo cercare la sua volontà, per me e per il mio popolo.
E questo, anche se un po’ in ritardo, finalmente l’ho capito, e ho cercato di vivere così! E ancora continuo a vivere... nell’attesa della sua venuta!

Elia,

profeta simile al fuoco

sabato 28 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono da Pietro di Betsaida

PIETRO DI BETSAIDA DI GALILEA
(Mt 4,18-22; Mt 16,13-23, Lc 22,61, Gv 21,1-19)

Roma- Santissima Trinità dei Monti
         Carissimo.
Ci sono delle cose che si imprimono nella mia memoria come se fossero scolpite. Cose che rivivo quotidianamente in simultanea: sono quelle che io chiamo “le mie vocazioni”. Tenterò di spiegarmi.
Forse tu sai che io lavoravo con Andrea mio fratello, e con i miei soci, Giovanni e Giacomo. Un’impresa faticosa e onesta, siamo pescatori. Mi è sempre piaciuto il mio lavoro, sai? Un po’ anfibio, metà a terra metà in mare, senza mai schierarmi definitivamente.
Perché in fondo è rassicurante sapere che la tua vita sta tutta dentro un lago, che le persone che incontri ruotano tutte attorno al lago, che i pesci che peschi stanno tutti lì, e che escluso il pellegrinaggio annuale che facevamo a Gerusalemme, la nostra vita iniziava e finiva a Cafarnao. Tutto questo era per me molto confortante: mio fratello, mia moglie, i miei figli, i soci, la barca, il mercato...
Poi un giorno Gesù passò sulla spiaggia del nostro mare (lo chiamavamo così perché ci sembrava grande, enorme, ma in realtà tutto sembra grande quando si hanno pochi termini di paragone) e chiamò me e mio fratello a seguirlo. Ci promise che saremmo diventati pescatori di uomini. Chissà cosa voleva dire! Però fu di un fascino tale, che mio fratello e io mollammo le reti, e andammo dietro al Maestro di Nazaret. E mai avrei pensato di finire la mia vita a Roma, io che ero vissuto fino a quel momento sul lago.
Furono anni bellissimi dopo questa chiamata. Un giorno, stavamo alle sorgenti del Giordano, un luogo incantevole. E Gesù ci chiese cosa pensavamo di lui...
Io che lo avevo visto agire e parlare come mai nessun uomo aveva fatto, ne ero sicuro: «Tu sei l’Unto, il figlio del Dio Vivente!». Non so da dove mi vennero esattamente queste parole: le credevo, anche se forse non avrei mai potuto dirle così bene. Ma la cosa più strabiliante fu la sua risposta: egli mi disse che io sarei diventato una pietra di fondazione per la sua comunità, e che le potenze del male non l’avrebbero potuta abbattere.
Capisci? Io ero un pescatore, mica un architetto! Men che mai un muratore! La mia barca veniva sballottata dai venti e dalle correnti del lago. Se pioveva troppo non si pescava, se non cresceva la luna non si pescava... ero soggetto a continui mutamenti anche nel mio umore.
Ora lui mi dice che sarei diventato pietra... che su di me anche altri avrebbero costruito.
E non finisce qui, perché subito dopo mi disse anche che mi avrebbe dato le chiavi del regno dei cieli...
Che responsabilità, aprire quella porta ai fratelli! Ma allora mi sembravano tutte parole esagerate e incomprensibili, tanto che Gesù stesso ci ordinò di tacere questi nostri dialoghi. E cominciò a dire che sarebbe stato accusato a Gerusalemme, che lo avrebbero fatto soffrire, che lo avrebbero ucciso e che il terzo giorno sarebbe risuscitato.
Non ci vidi più, lo presi da parte e cominciai a rimproverarlo: «Come ti permetti? Dove andiamo noi senza di te!? Tu solo hai parole di vita eterna. Come faccio a costruire una comunità se tu vieni ucciso!?». D’altra parte ero ben più grande di lui, e poi lui non aveva mai parlato così. Stavamo bene in quel posto, chiacchieravamo come amici, possibile che dovesse pensare a queste cose?
Non mi aspettavo la sua reazione: fu di una forza e di una durezza straordinarie. Mi disse: «Tu mi farai cadere, sei mio nemico! Vai dietro a me!».
Io ero furente, e anche imbarazzato: Gesù non chiamava nemici neppure i farisei. Mi aveva chiamato satana. Possibile che avessi detto una cosa così sbagliata? Io gli volevo bene, non volevo che morisse.
Non mi rendevo pienamente conto che ancora una volta mi chiamava a seguirlo.
Prima pescatore di uomini, poi pietra di costruzione, poi clavigero del paradiso, ma sempre e soltanto discepolo.
Georges de la Tour - Tradimento di Pietro
Così arrivammo a quella notte, quella notte in cui capii cosa significavano quei discorsi, e in cui lo tradii davanti a una serva, e giurai e spergiurai di non conoscerlo.
Allora successe una cosa strana, mentre ero nel cortile di Caifa a Gerusalemme: io spiavo da lontano i movimenti delle guardie del sommo sacerdote. Una piccola folla si era radunata lì: tre volte mi chiesero se lo conoscessi e mi intimarono di dire la verità, e tre volte io negai. Avevo paura. Dio mio! Come sono caduto in basso. Aveva ragione lui, ero suo nemico. Avevo tradito il mio Maestro, il mio amico, colui dal quale avevo ricevuto solo del bene, che mi aveva dato una dignità che mai nessuno mi aveva dato.
A quel punto, era quasi l’alba, i galli cominciarono a cantare in tutta Gerusalemme. E Gesù, che era legato e veniva interrogato davanti alla porta, si voltò come per cercare qualcuno. E quando incrociò il mio sguardo mi fece un sorriso. Conoscevo quello sguardo e quel sorriso: quante volte nei nostri discorsi, quando dicevo qualche sciocchezza, lui mi guardava così. Erano occhi che non avevano bisogno di parole: dicevano la sua comprensione per me, la sua pazienza, la sua amicizia. Non parlava, non mi giudicava, non mi rimproverava. Mi guardava. E io non capivo esattamente cosa producesse quello sguardo in me, ma sentivo di essere compreso da lui in quel momento, di essere abbracciato, di essere amato così come ero, anche con le mie debolezze.
Ma quella notte quello sguardo finalmente fece sgorgare da me un pianto dirotto. Non potevo trattenere le lacrime e i singhiozzi. Uscii fuori e piansi per ore, finché non si fece giorno.
Georges de la Tour - Il pentimento di Pietro
Avevo capito che quell’annuncio della sua passione si stava ora realizzando, e che io non solo non ero stato capace di difenderlo, ma addirittura lo avevo tradito e rinnegato.
Ebbene, non ti narrerò dello schianto provato al vederlo crocifisso, da lontano ovviamente, né ti dirò di cosa ho provato al vedere la tomba vuota, quali pensieri, quali sentimenti...
Arriviamo al dunque: dopo che le donne vennero a dirci di averlo visto vivo, egli apparve anche a noi.
Eravamo tornati a pescare, là dove tutto era iniziato, proprio sul mare di Tiberiade. Eravamo tornati a pescare perchè in fondo, anche se lo avevamo visto, noi senza di lui pensavamo di non poter fare nulla. Non potevamo più stare chiusi a Gerusalemme, la testa ribolliva, le mani si dimenavano, dovevamo pur fare qualcosa!
Tuttavia quella notte non pescammo nulla.
All’alba notammo un uomo sulla riva, il quale ci chiese se avessimo del pesce e, accidenti, non avevamo nulla da vendere! Ma quell’uomo insisteva: Gettate la rete a destra e pescherete!
Non ci crederai, ma quella mattina tirammo su una quantità di pesci mai vista in tutta la nostra vita. Giovanni si accorse subito che era Gesù, io mi gettai in mare, e tutti corremmo a riva.
Lui ci aveva preparato del pesce arrostito e del pane, e mangiammo tutti in allegria.
A fine pasto si rivolse a me chiamandomi Simone, il mio vecchio nome, e mi chiese se gli volessi bene più degli altri. Oh Dio, speravo che non sarebbe più tornato sull’argomento. Arrossii come un bambino: Certo Signore, tu lo sai, no?
Per tre volte me lo chiese... non ce la facevo più. Alla terza volta gli dissi: Ma Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene!
Finalmente il suo sguardo ritornò quello di sempre, mi comandò di pascere il suo gregge, mi disse che sarei diventato vecchio, che mi avrebbero condotto dove non volevo. Ma stavolta ero pronto: ormai potevo fare qualunque cosa per lui.
Alla fine mi disse di nuovo, come la prima volta: «Seguimi!».
Ecco, queste sono le mie tre chiamate: all’inizio, quando con entusiasmo divenni discepolo; a metà del percorso, quando volevo diventare maestro del mio Maestro, e invece dovevo ritornare dietro, come un discepolo; e alla fine quando, pur comandandomi di guidare il suo gregge, mi disse che dovevo rimanere sempre discepolo.
Ti dicevo che questi avvenimenti della mia vita li vivo sempre in simultanea, e non come se fossero degli episodi passati: perché sempre, anche ora che sono vecchio e minacciano di uccidermi da un giorno all’altro, ho l’entusiasmo di quel primo giorno sulle rive del mare di Tiberiade, quando cominciai a seguire Gesù e lui mi chiamò a diventare suo amico.
Ma sempre anche mi ribolle il sangue quando talvolta il Vangelo non mi piace, quando faccio fatica a capire il perchè della croce, e allora mi ribello... e sento Gesù che mi dice: Vai dietro a me, Nemico!
E ancora sovente mi ritrovo a dire: Non ti conosco. E incrocio di nuovo il suo sguardo, e piango, piango, piango... ed egli mi si avvicina e mi chiede soltanto se lo amo... Dio se lo amo! Ma sono anche così fragile. E lui che fa?
Mi chiama di nuovo a pascere le sue pecore...
Ecco, la mia vita ruota continuamente in questo vortice mai risolto: sento di essere una frana, un peccatore, eppure sono sempre perdonato, e rimesso in piedi. Lui si fida di me.
Cosa potrei desiderare di più?

Ti saluto con affetto,
Pietro,
il pescatore di uomini, la roccia, il clavigero,
ma sempre e comunque discepolo

sabato 7 ottobre 2017

Omelia per la Madonna del Rosario - Collinas

Madonna del Rosario - Paliotto altare Collinas

La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi. (Sal 118,22-23)

Mi colpisce sempre questa affermazione che i vangeli riportano diverse volte nella bocca di Gesù, e anche nella prima lettera di Pietro. Mi colpisce perché sempre mi chiedo per quale motivo i costruttori, persone esperte, non abbiano riconosciuto che quella pietra faceva la caso loro, che era adattissima, che era da sempre predestinata a reggere il mondo, ad essere la chiave di volta del tempio, o la pietra angolare di fondamento, comunque la si voglia interpretare, il risultato non cambia: è una pietra che serve a tenere insieme, è forse l’immagine più “plastica” dell’identità del Figlio di Dio come “Logos”.
Perché i vignaioli non hanno riconosciuto gli inviati del proprietario, non hanno riconosciuto il figlio suo, anzi, avendo capito che era lui l’erede, lo hanno fatto fuori...?
Perché questa smania di potere, questa smania di possedere la vigna, questo desiderio di reggersi da soli, di non volere intralci nella propria vita?
C’è certamente il senso di cupidigia, che san Paolo afferma essere la radice di tutti i mali.
Però sembra assurdo che persone pie e devote, persone che avevano ricevuto una istruzione circa il Messia, che conoscevano bene la Parola di Dio, ecco, sembra assurdo che tutti costoro abbiano rifiutato Gesù.
Poi però faccio un piccolo viaggio dentro di me, non mi costa molto, perché è molto vicino, e noto che in fondo anche io sono così. Anche se prete, nella mia vita spesso prevale la voglia di cavarmela da solo, di dire: sono io il padrone di me stesso, sono io che voglio essere l’erede di tutto ciò che mi circonda.
In fondo che me ne faccio di un erede che non è capace di farsi rispettare? Che si fa uccidere? Che non sa avanzare i propri diritti e quelli del padre?
E allora mi sembra che non sia tanto la cupidigia, il male centrale, ma la paura della debolezza, la paura di essere affidati a un amore debole. Non debole quanto all’intensità, perché l’amore di Dio è amore senza aggettivi, ma debole perché ha deciso di non imporsi con la forza.
Ha deciso di mostrarsi con la persuasione della parola e dei gesti. Quante volte Gesù invita ad ascoltare (anche oggi: “Ascoltate un’altra parabola”), a farsi un’idea personale delle cose (anche oggi chiede loro: “Quando verrà il padrone cosa farà?”), a guardare ai pubblicani e alle prostitute che si convertono e credono alla misericordia, a osservare i gigli dei campi e gli uccelli del cielo.
Crocifisso di Collinas
E mi rendo conto che solo questa azione di Gesù per me è convincente. La forza e l’onnipotenza mi spaventano, mi tolgono il fiato, sono spesso lotte muscolari come quelle che vediamo nelle cronache: Trump-Kim Jong Un, Occidente-Isis, Destra-Sinistra, Potere economico-Potere politico. E poi nel nostro piccolo: lotte muscolari nelle nostre famiglie, per un pezzo di terra (come ci somigliano paurosamente questi vignaioli assassini!), lotte muscolari nella società, anche nei nostri piccoli paesi con invidie, ricatti, attentati.
Lotte muscolari nella chiesa per far prevalere questa o quella corrente più o meno clericale.



La lotta per il potere è l’altra faccia della medaglia della paura della debolezza, di essere considerati deboli.
Brescello
Sapete che durante la guerra fredda i missili della Nato erano puntati contro i missili del Patto di Versavia, Occidente contro Unione Sovietica, e che se uno avesse sparato per primo, l’altro era pronto con un armamentario doppio... proprio qualche settimana fa è morto un quasi sconosciuto ufficiale, si chiamava Stanislav Petrov, il quale evitò per un soffio un conflitto nucleare, perché i radar avevano avvertito che gli Usa stavano iniziando un attacco, mentre invece egli riconobbe che era un errore del sistema e diede l’ordine di non rispondere.
Ecco, mi pare che questa debolezza spaventa, la debolezza del Figlio che si consegna nelle mani degli uomini, debolezza che lo stesso evangelista contraddice, facendoci immaginare che la distruzione di Gerusalemme, la dispersione del popolo giudaico sia stata la giusta paga per il non riconoscimento del Messia.
E noi attribuiamo a Dio un gesto di crudeltà efferata!
No, fratelli e sorelle: Dio ci si è mostrato e continua a mostrarsi a noi, come il Crocifisso (e voi ne avete una bellissima rappresentazione in questa chiesa).
Egli è colui che ci ha redenti attraverso la morte, la debolezza e la povertà di un uomo, il Figlio di Dio, messo a morte fuori dalla città, come i bestemmiatori.
Questa è l’unica proposta che noi facciamo. Questo è il Vangelo, e se la nostra vita non passa dal confronto con questo Dio Crocifisso, rischiamo che anche per noi quella pietra diventi sasso d’inciampo.
Persino la festa che stiamo celebrando, la Madonna del Rosario, ha origine da un avvenimento di Guerra, la Battaglia di Lepanto, nella quale l’esercito della Lega santa sbaragliò l’esercito ottomano: questa vittoria, attribuita all’intercessione di Maria, divenne una festa, Nostra Signora della Vittoria, che poi fu trasformata in Nostra Signora del Rosario, e da questa vittoria in guerra deriva per esempio l’uso di suonare le campane a distesa a mezzogiorno.
La mitissima Maria diventa dunque patrona di un esercito!
Vedete la paura della debolezza cosa fa!
Ora certo, se gli Ottomani avessero vinto a Lepanto, forse la storia del mondo, la nostra stessa storia sarebbe andata in modo diverso.
Ma noi non possiamo arruolare Maria, tanto meno Gesù, dietro le insegne di nessuna battaglia, perché egli ci ha mostrato un Padre disarmato, che ha fiducia negli uomini, che continua ad aver fiducia nonostante tutto, che è il Dio della pace, come si legge nella seconda lettura.
Allora celebrare oggi la festa della Madonna del Rosario significa per noi entrare in una nuova mentalità, quella della mitezza e della pazienza di Dio, che vuol fare bella la sua vigna, che vuol godere dei frutti che noi produciamo, che vuol essere felice quando noi siamo felici.
Esiste tanto male nel mondo, tante malattie, tanti problemi, tante difficoltà, e quotidianamente noi e le nostre famiglie lottiamo con grandi difficoltà.
Ma possiamo almeno, da cristiani, deporre le armi tra di noi, fidarci un po’ di più della fragilità, di quelle ferite che come avviene in Cristo, portano redenzione al mondo.
Scultura a New York
Per testimoniare questo Dio, Gesù si è fatto crocifiggere. Un volto di Dio inedito e certamente non facile da accettare, ma questo è.

Maria, madre della Chiesa, custodisca in noi il volto di Dio che ci ha donato il Figlio suo, perché la nostra vita sia trasformata e portiamo frutto e diamo gioia al mondo.          

giovedì 5 ottobre 2017

TOMBOLA

A Natale
buscare sempre
la solita cartella,
quella che al massimo
fai un ambo
quando tutti stan chiamando
eccitati
la quaterna.
Certe vittorie
vado rimandando
anno dopo anno.