giovedì 13 luglio 2017

Qui plantat non est aliquid



Son venuti fuori
durante la mia assenza
traditori
i fiori che avevo seminato
con queste mie mani
nella terra che avevo dissodato
con queste mie mani
innaffiato
con queste mie mani.
Per ricordarmi con uno scherzo
che non
queste mie mani
li han fatti venir fuori.


mercoledì 12 luglio 2017

Il Dio che ho incontrato. Di Massimiliano Bardotti


Poche poesie come quelle che raccoglie (o semina? Son sempre indeciso su quale verbo usare quando leggo parole che sbocciano e fioriscono a vita) Massimiliano Bardotti nel suo nuovo libro Il Dio che ho incontrato (Nerbini, Firenze 2016) hanno il raro pregio di essere non già naif, ma di una semplicità mistica ed evocativa dell’Oltre e dell’Altro.
A cominciare dal ritornello, motivo, refrain che è il primo verso di numerosi componimenti, Il Dio che ho incontrato, appunto: espressione a un tempo vera ma paradossale, perchè Dio nessuno lo ha mai visto.
Eppure anche se non sintatticamente, il soggetto è sempre Lui, non l’io dell’autore, che così può esclamare: Se la legge è io, disobbedisci (32).
Si odono in queste poesie gli echi di Marguerite Yourcenar, e dei suoi Trentatré nomi di Dio, come anche la potenza di certi versi di Withman, ma come purificati dalla luce, o di altri versi visionari di Emily Dickinson.
E persino mi ricordano, nella loro musicalità, le parole della Mannoia ne Il cielo d’Irlanda.
Sì, perché se di visione si tratta, è una visione speciale quella di Massimiliano, aperta verso qualcosa (Qualcuno) che non si può mai descrivere se non per approssimazione. E così quella copula accanto al verso introduttivo, quell’“è” così assertivo e definitivo, in realtà viene trasformato dalla reiterazione in un non est dionisiano, come nella poesia:

Il Dio che ho incontrato è quell’attimo eterno
chiamato imbrunire, né notte né giorno (55).
Eppure è dato scorgere al poeta la presenza di Dio nella realtà, anche se deve
la meraviglia eludere gli occhi
fermarsi alle palpebre (91).


Poesie tutte da leggere!

martedì 11 luglio 2017

Il perdono come gioia di Dio. Una lettura di Luca 15

Care amiche e cari amici, ecco a voi la registrazione del mio intervento a Fonte Avellana, per chi ha la pazienza di ascoltare sino alla fine!


Qui trovate le foto dell'evento

sabato 8 luglio 2017

Meditazione sul Vangelo della XIV domenica del Tempo Ordinario

Le Scritture sono piene di esempi di “piccoli”: Giuseppe, Mosè, Davide, secondi, terzi o addirittura ultimi figli, che Dio chiama per compiere le sue imprese di salvezza. E poi nel Nuovo Testamento: Zaccaria, Elisabetta, Maria, Giuseppe, i pastori, zoppi, storpi, ciechi. Il discendente del Leone di Giuda diventa nientemeno che un... agnello!
È quantomeno strano che la Sapienza incarnata e l’unico Maestro abbia lodato il Padre perché non ai sapienti e agli intelligenti ha rivelato i misteri del Regno, ma ai piccoli.
Nietzsche ne ha fatto addirittura un motivo per disprezzare il cristianesimo, giudicandolo una religione dei deboli e degli sconfitti della storia che con il loro risentimento nei confronti dei forti cercano di dominarla...
In una società e in una cultura dove il privilegio è sempre del più forte, del primo, del più grande, in una natura che pare abbia come base costitutiva la legge del più forte (pesce grande mangia pesce piccolo), il Vangelo fa una distinzione: l’accesso al Regno ha una porta piccola e una strada stretta: per accedervi bisogna farsi piccoli. Della stessa misura di Cristo.
Betlemme - Basilica della Natività, porta d'ingresso molto piccola (Foto Marco Cioni)

Nel 1942 Dietrich Bonhoeffer ha scritto un testo intitolato “Lo sguardo dal basso”:

«Resta un’esperienza di eccezionale valore l’avere imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale. Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’alto».