lunedì 24 ottobre 2022

Tra istruzione e merito: segnalo un pericolo


Alle Scuole Elementari (allora si chiamavano così) ero bravo, diciamo pure molto bravo.

Così bravo che non c'era bisogno che la mia carissima Maestra Sandra Dessì mi seguisse troppo. Alle domande che rivolgeva alla classe io alzavo sempre la mano, ma ero normalmente l'ultimo a cui faceva dare la risposta, dopo aver sentito tutti gli altri. Raramente mi chiamava alla lavagna per risolvere un problema, perché io già lo risolvevo al posto. In genere cercava le risposte dai meno svegli e chiamava alla lavagna i meno preparati. Ricordo che una volta mi misi a piangere perché anche io volevo essere gratificato (questo lo dico col senno di poi, allora piangevo solo perché ero trattato diversamente e non capivo perché).

Portavo sempre a casa degli ottimi voti, pagella eccellente, grandi complimenti a mia mamma ai colloqui.

Eppure la Maestra si ostinava a farmi rispondere per ultimo e a non chiamarmi alla lavagna.

Solo dopo ho capito che la Maestra privilegiava quelli che bravi non erano per aiutarli a diventare più bravi, per stimolarli e incoraggiarli, non certo per demolirli.

La mia Maestra non ci ha insegnato la meritocrazia, ma che i più deboli si aiutano a diventare forti, e che quelli che partono svantaggiati (qualunque sia il motivo: soggettivo, individuale, sociale, familiare) si aiutano a diventare migliori.

venerdì 7 ottobre 2022

Tra sogni ed estreme unzioni: quale speranza per la Chiesa di oggi?

Qualche notte fa ho fatto un sogno, un incubo che al risveglio ho ricordato lucidamente, a differenza di quanto mi capita di solito.

Mi chiamano per un’estrema unzione (sì, estrema, mi dicono che la nonna sta morendo), vado e trovo su una poltrona davanti al camino acceso un uomo grosso seduto sopra la mamma, “per scaldarla” perché ha freddo (ma io tra me e me penso che così la soffoca). 

Scambiamo due parole poi dico: “Vado in macchina a prendere l’olio”. Quando torno comincia ad affluire gente, bambini che gridano, persone che cantano e passeggiano in questo immenso salone nel quale ci troviamo. 

A un certo punto il tipo si alza da sopra la mamma e vedo la mamma col viso nero, tra il tumefatto e il bruciato, per me era morta.

Comunque, comincio la preghiera e nel frattempo arriva gente che si siede a tavola, rimprovero un ragazzino che passeggiava con un monopattino cantando a squarciagola… Continuo sempre più sommerso dal caos attorno a me. Nel frattempo sulla tavola comincia ad arrivare da mangiare e tutti si servono e continuano a parlare, mentre io sollevo la voce per far sentire la preghiera. Ma nessuno mi ascolta. Mi volto e non vedo più da nessuna parte la moribonda. Così, sconfortato dalla totale disattenzione di tutti, grido che lì non ci faccio nulla, che sono irrispettosi, e che non capisco perché mi abbiano chiamato, e me ne vado.

È l'immagine della Chiesa.

Di quello che facciamo noi: la gente ci chiede cose (servizi, sacramenti) a cui non è vitalmente interessata.

Era l’estrema unzione della Chiesa.

Vado persuadendomi che bisogna fare il percorso inverso rispetto a ciò che stiamo facendo in questo tempo, ricominciando catechismo, oratorio, attività varie con l’illusione così di coinvolgere le persone e “creare” comunità.

Occorre prima costruire un tessuto di comunità, e allora si possono proporre delle cose, anche catechesi e quant’altro.

Come fare? Non ho ricette, ma la Tradizione continua della Chiesa dice una cosa: “L’Eucaristia fa la Chiesa” (e viceversa): non ci sono alternative. 

Se non si riparte dalla Messa si fa un buco nell’acqua. 

Una Messa ben celebrata, ben cantata, preparata, con lettori che proclamano bene la Parola di Dio, con una buona omelia, con spazi di silenzio, con un tempo successivo per le relazioni personali, qualche saluto, uno scambio di parole tra tutti... 

Non vedo altre strade. Altrimenti continuiamo a sprecare energie in cose per le quali la gente ha soltanto un residuo di interesse estetico o culturale, quando va bene, e presto o tardi arriveremo a dare l’estrema unzione alla Chiesa.

domenica 14 agosto 2022

Si allarghino per te gli spazi dell'amore - In morte di Antonino Orrù, vescovo emerito di Ales-Terralba

Ho ancora il vivido ricordo di un giorno che venne per la festa patronale a Terralba, avrò avuto dodici o tredici anni e facevo il chierichetto. Appena mi vide alla porta di chiesa mi disse: «Allora Marchisceddu (Marcolino), ci stai pensando?? Guarda che io ti penso eh»… La mia reazione fu della serie «E si domandava che senso avessero queste parole per lui»… In realtà io sapevo bene cosa significassero. 

Era così mons. Orrù, molto diretto, sorridente, ci conosceva per nome, faceva delle battute e intanto seminava il germe della vocazione. Il suo motto, sullo stemma e nella vita, era “Dilatentur spatia Charitatis” (Si allarghino gli spazi dell'amore), una frase di Sant’Agostino che ho sempre amato.

Ricordo ancora quando agli inizi di agosto del 1998 andai a parlargli nel suo studio ad Ales per chiedergli di entrare in seminario: era contento, mi accolse con gioia e chiamò subito il rettore per comunicarglielo. 

E così ogni anno, al rientro per le vacanze natalizie, facevamo tappa in episcopio per il pranzo con i seminaristi: prima una chiacchierata nel suo studio per sapere come andava e poi ci faceva preparare un vero pranzo natalizio.

Non mancarono negli anni anche alcune incomprensioni, dovute a piccolezze e subito ricomposte. 

Celebrando il rito di ammissione nel 2002 mi disse tra le altre cose: «Questo si attende il popolo, che il presbitero sia un uomo di Dio, come la Chiesa oggi intende, e sempre immerso nel gran mare delle vicende umane, senza dimenticare nessuna persona affidatagli, specialmente i più poveri e bisognosi. C’è necessità ancora oggi, di uomini scelti tra il popolo per mettersi al suo servizio, perché Dio vuole aver bisogno degli uomini per evangelizzare e incontrare il suo Israele; ha bisogno ancora di profeti che siano testimoni dell’amore di Dio e della Nuova Alleanza sigillata nella Croce di Cristo, di uomini che siano scelti e mandati da Lui, segno che Dio non si è ancora stancato del suo popolo e che è fedele alle sue promesse. […] Il cammino e la strada del presbitero non è per nulla facile, né tantomeno votato al borghesismo di una vita tranquilla, che nulla ha a che fare col mandato che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli, tantomeno ci è promessa la riuscita. Il cammino è certamente in salita e questo tuo primo “eccomi”, Marco, è appunto il primo di tanti “eccomi” che sarai chiamato a dire al Signore».

Poi nel 2003 decise di mandarmi a studiare a Roma… non convintissimo e dopo mille rassicurazioni sul mio “ritorno” appena terminati gli studi, anche perché lui oramai era in scadenza, avendo compiuto i 75 anni canonici e non voleva ipotecare il suo successore.

E quindi la mia ordinazione diaconale il 5 gennaio 2004, con qualche nostalgia, perché era la sua ultima ordinazione da vescovo titolare: fu contento, anche se già provato dalla salute precaria.

Esattamente un mese dopo, con l’elezione di mons. Dettori, divenne emerito, ma volle comunque essere presente anche alla mia ordinazione presbiterale, e fu per me una grande gioia.

Mons. Antonino è stato il vescovo della mia infanzia, adolescenza e giovinezza: un uomo del suo tempo, certamente, ma umano, cordiale, rigido su certe cose, ma apertissimo su altre.


Vorrei ricordarlo soprattutto per aver recuperato un sacerdote diocesano, mio predecessore a Sa Zeppara, don Cabiddu: questi era un prete un po’ “particolare” che a un certo punto verso metà degli anni ’70 andò via e interruppe qualunque contatto con la diocesi, senza che nessuno sapesse dove fosse finito.

Mons. Orrù, che era stato suo compagno di seminario a Cuglieri, negli anni lo cercò senza risultati, fino a quando sfogliando il giornale lesse di un incidente accaduto in un condominio nell’hinterland di Cagliari: un uomo, di cui il giornale riportava le iniziali, era caduto nel vano dell’ascensore, riportando diverse fratture. Il vescovo capì che era lui e andò a trovarlo in ospedale. La leggenda narra che entrando nella sua camera gli disse in sardo: «Giuseppi, seu Antoninu Orrù» (Giuseppe, sono Antonino Orrù). 

Dopo un po’ di tempo riuscì a riabilitarlo completamente facendogli celebrare anche il 50° anniversario di ordinazione, e alla sua morte gli fece un bel funerale da prete con tutti i crismi.

Era il pastore che fino alla fine era andato in cerca della pecora smarrita. 

Il Pastore grande delle pecore ti accolga nel suo regno, caro mons. Antonino!

domenica 17 aprile 2022

Omelia nel giorno di Pasqua


 

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.


oooOooo

E ritorniamo anche noi come Maria di Magdala a chiederci «Dove hanno messo Gesù?». Dov’è Gesù, perché ce lo hanno rubato? Perché il mondo è senza Gesù, perché lo ha crocifisso, perché continuiamo a crocifiggerci a vicenda? E non troviamo spiegazioni, e nessuna spiegazione ci soddisfa, perché sembra che le tenebre sempre avvolgano questo mondo. Le notizie di guerra, di malattia, qualche volta ci fanno persino pensare che sia giunta la fine del mondo: un pazzo schiaccia un tasto e manda una bomba atomica. Che cosa potrà accadere?

Sì, hanno davvero portato via il Signore, e non sappiamo dove l’hanno posto.

Noi d’altronde crediamo soltanto a ciò che vediamo, ci fidiamo di quel che sappiamo e che ci hanno trasmesso. I morti sono morti, e basta. Nessuno ritorna. I poeti antichi cantavano il mito di Orfeo innamorato di Euridice, che ottiene col suo canto dagli dei di poter scendere agli inferi a riprendere l’amata morta con l’obbligo però di non voltarsi indietro mentre risale, ma di aspettare di arrivare fuori. E invece Orfeo, preso dal dubbio si volta, e in quel momento Euridice, la donna bellissima e amata, sprofonda per sempre nelle tenebre.

No, la risurrezione la troviamo tra i misteri della fede quello davvero più difficile da credere.

Siamo disposti a credere alla parola di Gesù che ci invita ad amare, a perdonare. Siamo disposti persino a credere nei miracoli, crediamo che sia meglio vivere in pace che vivere in guerra, ma alla risurrezione… no… non è per persone ragionevoli.

È così che ragioniamo, da persone ragionevoli.

Ma se una volta nella vita, forse anche oggi, forse anche durante questa eucaristia, ci abbandoniamo alla fiducia nel Padre, allora possiamo scoprire che solo la risurrezione di Gesù, la sua fedeltà fino all’ultimo sangue può dare senso al nostro amore, allo sforzo di costruire la pace, ai miracoli, piccoli e grandi, che chiediamo. Solo la risurrezione di Gesù apre noi esseri umani poveri e limitati a dire: ti amo, a dire “per sempre”, a dire e fare parole e gesti nuovi, che profumano di vita e non di morte. 

Perché il segreto di una vita vera nasce da lì, da quel sepolcro vuoto, da quell’uomo rialzato dal Padre dalla morte. In lui trova senso il nostro desiderio di pace, la nostra ricerca del bene, perché sappiamo che l’ultima parola definitiva sulla nostra vita è una parola di vita, e non di morte. Noi non siamo come Orfeo ed Euridice, intrappolati in un mondo di morti. Noi siamo figli della risurrezione, rinati dall’acqua e dal fuoco che stanotte abbiamo rinnovato e alimentato. 

E allora la nostra speranza si fa infinita, infinita per tutti i sofferenti, i morti, i morenti, per tutti i delusi della vita, per i malati, per i poveri. Non c’è morte troppo forte che non possa essere vinta dalla luce della risurrezione del Signore.

Aggràppati a lui nella tua croce, per essere anche tu risollevato. Cerca il perdono del Signore, confessa la tua colpa e ascolta nel profondo del tuo cuore la sua parola di vita: «Io ho perdonato l’universo intero, perché non ho mai conosciuto il peccato. Io sono misericordia nella misericordia, io riapro la tua tomba e ti do vita».

E allora anche tu, anche io, possiamo sperare di essere creature nuove, con le nostre fragilità, con le ferite della sofferenza, con il peso del peccato, ma soprattutto con la certezza che nulla è mai perso di ciò che è fatto e vissuto per amore, perché il Padre lo risuscita e lo fa diventare vita per sempre.

 

sabato 16 aprile 2022

Omelia nella notte di Pasqua



Dal Vangelo secondo Luca

(Lc 24,1-12)

Il primo giorno della settimana, al mattino presto [le donne] si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.
Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”».
Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli.

Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto.


oooOooo

 «Perché cercate il vivente tra i morti?» Con queste parole i due uomini misteriosi apparsi nel sepolcro si rivolgono alle donne, incerte e impaurite.

Ma dove cercarti, Signore, se non tra i morti?

Dove cercarti se non nella nostra tomba chiusa, nel nostro buio, nelle tenebre di questo mondo, nelle donne stuprate, nei bambini violentati, nelle fosse comuni di Bucha e in quelle di tanti angoli della terra. Dove cercarti se non nelle situazioni di morte di tante persone che hanno ricevuto una brutta notizia, che soffrono negli ospedali; nelle lacrime di madri che piangono i propri figli, nelle angosce dei moribondi e nelle tristezze dei disprezzati. Dove cercarti se non nelle baraccopoli indiane e nelle favelas brasiliane? Dove, dove cercarti se non in queste nostre case senza luce, nelle famiglie spezzate, nei tradimenti e nelle inimicizie? 

Ed ecco che essi dicono anche a noi: «È risorto, non è qui».

E forse sta proprio qui l’incomprensione, perché davanti a queste parole noi pensiamo a un morto che si risveglia, come noi che ci risvegliamo dal sonno la mattina. Ma questo significa non prendere seriamente la morte. Perché la morte è davvero la fine della vita, l’interruzione di tutto. E nessuno può svegliarsi da sé dalla morte, come nessuno è capace di guarirsi da sé.

No, nessuno ne è capace se non il Padre di Gesù Cristo, colui che lo ha mandato, il Messia inviato a salvare chi era perduto. «È risorto» significa è stato risuscitato, è stato risvegliato dalla morte dal Padre.

E allora tutto comincia ad assumere un senso diverso: chi consolerà le donne e i bambini violentati, chi asciugherà le lacrime dei piangenti, chi lenirà le sofferenze dei malati? Se prendiamo sul serio la sofferenza umana, allora dobbiamo riconoscere che noi non ne siamo capaci, che anzi spesso contribuiamo a intensificare la violenza, ad aumentare la sofferenza. Siamo capaci di fare il male, sì, tanto male.

Non da noi possiamo ribaltare la morte, non da noi possiamo trovare senso alla sofferenza, ma solo se entriamo nel ricordo delle parole di Gesù: «Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato e fosse crocifisso». In quella consegna, in quel tradimento, in quella violenza della crocifissione trovano spazio i tradimenti e le violenze che noi esseri umani ci facciamo tra di noi. Sono l’abisso del male che è arrivato a toccare finanche il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, perché con noi uomini le condivide.

E allora succede che il Padre vede tutto questo, vede questa associazione tremenda alle sofferenze del Suo Figlio, e dice una parola di risurrezione su ciascun uomo e su ciascuna donna. Solo lui può risollevare dal male, solo lui ha il potere di ridare senso a ciò che un senso non ce l’ha.

E ti risuscita, ti prende per mano dalla tua tomba, perché ti ha a cuore, perché nessun figlio è abbandonato nella tomba, neppure quelli che sono stati bruciati nei forni crematori ambulanti, o seppelliti frettolosamente nelle fosse comuni per cancellarne il ricordo.

No, Dio si ricorda e invita anche noi a ricordare, a fare memoria, a diventare messaggeri e testimoni di risurrezione, a ridire parole di vita, a riprendere speranza e a offrirla a chi l’ha persa.

La fortuna per noi questa notte consiste nell’ascoltare nuovamente questo racconto che ha dell’assurdo, che sembra un vaneggiamento e a farci colpire da esse, farle battere all’unisono nel cuore e avere il desiderio di una comunione umana, di una pace tra noi, di una misericordia e di una bontà che superano le divisioni, le malefatte, che superano persino i nostri peccati per aprirci alla vita.

Cristo è veramente stato risollevato dalla morte, e ci porta nella vita, sempre. Non lasciamoci strappare questa fede e celebriamola a partire dalle nostre tombe e dalle nostre desolazioni. E sarà Pasqua anche per noi!