domenica 22 marzo 2020

Il Signore ci ha bloccati per un paio di mesi per farci lavorare per i prossimi 25 anni...

E mentre oggi è arrivata la notizia del primo prete morto in Sardegna a causa del virus (e sembrerebbe che sia una categoria persino più colpita dei medici), io ho fatto questo pensiero proprio stamattina con un fratello prete: il Signore ci ha bloccati per un paio di mesi per farci lavorare per i prossimi 25 anni...
In effetti penso che nei prossimi mesi e anni ci sarà molto da ricostruire, non solo economicamente, ma anche politicamente e moralmente.
Persone rovinate dalla crisi che è cominciata e seguirà a questa pandemia, perché non è solo un problema dell’Italia... 
Certo, sarà anche una grande opportunità.

Ma tutti avremo bisogno di riprenderci psicologicamente da questo choc, non solo di andare liberamente al Centro Commerciale a fare la spesa, non solo di andare dal parrucchiere, non solo di andare in ufficio, ma di incontrarci, e di incontrarci per motivi che non hanno a che fare con la sopravvivenza, ma con la vita.

Incontrarci per pregare, per condividere un gioco, una lettura, un canto, una poesia, per parlare tra noi.
Perché non di solo pane vive l’uomo, mai parola fu più vera.
Perché oltre al negotium l’uomo ha bisogno di otium. Non di questo ozio forzato al quale siamo costretti e che speriamo termini presto, ma di quel tempo attivo perché non facciamo nulla che ci serva alla sopravvivenza, bensì facciamo qualcosa che ci serve a vivere.
E le due cose vanno di pari passo, perché se noi cureremo soltanto l’aspetto economico-finanziario e non quello psicologico-spirituale, faremo un buco nell’acqua.
Chi può dire quale danno stia creando oggi l'interruzione forzata delle nostre relazioni? I bambini che non vanno a scuola, i genitori che non vedono i figli, i figli lontani dai genitori, gli amici che non abbracciano gli amici, i fidanzati che non possono incontrarsi... i nipoti che non possono far visita ai nonni, e chi più ne ha più ne metta... Danni incalcolabili al tessuto vitale di questo mondo.

E allora mi fermo a guardare la terra sconvolta e rivoltata, il solco profondo che fa l’aratore tirando su le zolle, e penso che non c’è altro modo per generare vita. E poi spargeranno il letame, che è fonte di vita anch’esso. E mi dico: che strano, che la vita passi attraverso queste due operazioni così tragiche e apparentemente devastanti.
E tutta la Terra ora è rivoltata, in una immensa aratura che attende una nuova semina, e noi ne siamo sconvolti perché noi siamo la terra e l’aratro neppure lo vediamo, mentre siamo sepolti e soffocati dal letame.
E tutto ci sembra così tragico, e lo è perfino.

E poi ancora, il grano che cresce con la zizzania, e capisco cosa intendeva dire Gesù quando impedì ai suoi discepoli di strappare la zizzania di mezzo al grano per evitare di perdere anch’esso.
Anche noi oggi vediamo grano e zizzania, poveri cristi che faticano dietro l’immane tragedia stando al loro posto e facendo il loro lavoro, e sciacalli, delatori, gente che venderebbe la madre se gli offrissero un buon prezzo, ma è pronta a puntare il dito sull’altro che esce, che fa, che si avvicina troppo, in una riedizione aggiornata di alcuni capitoli del Manzoni.
E capisco che questi ci saranno sempre, anche quando tutto tornerà normale, fino alla fine del mondo, aratura e concimazione, grano e zizzania, perché la vita non è mai solo bianco o solo nero.



Sì, qualche mese di pausa, ma poi, cari fratelli preti, avremo davvero tanto da lavorare, dovremo passare di fiore in fiore, per portare nuovo polline, e così far fiorire nuovamente questo Paese e questo mondo. Se ne avremo il coraggio.




"Siamo le api dell'invisibile. Raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare dell'Invisibile" (Rainer Maria Rilke).

mercoledì 18 marzo 2020

Tra resistenza e resa. Vivere e sopravvivere ai tempi della pandemia

Qualche giorno fa ho letto un post di padre Tonino Melis, nostro condiocesano, missionario saveriano in Cameroun: «Tanti amici chiedono come va qui: come sempre, si muore di malaria, di colera, di diarrea, di bronchite, di tifo... ma questo non fa rumore, qui siamo abituati e soprattutto i morti sono neri».
Esagerato? Lugubre? Cinico? A voi giudicare.
Io l’ho trovato semplicemente vero.
Oggi comprendiamo come mai forse era accaduto alla maggioranza di noi italiani, europei, occidentali, la precarietà della vita, dei sacrifici fatti, delle nostre acquisizioni, delle nostre abitudini, lo comprendiamo sulla nostra pelle, e non solo per sentito dire. Lo comprendiamo in modo tragico e inaspettato, tanto da provocare lo choc in molti di noi.
Comprendiamo per esempio cosa significa fuggire dalla propria patria per cercare salvezza (come hanno fatto moltissime persone che possiedono una seconda casa in Sardegna o nel Sud Italia). Comprendiamo cosa significa improvvisamente guardare in cagnesco i nostri colleghi o il passante sconosciuto che ogni giorno incrociamo sul marciapiede, come se fossero membri di un esercito nemico.
Comprendiamo cosa significa cercare di accaparrarsi quanti più generi alimentari possibile per paura che chiudano i negozi (che poi non chiudono, ma il panico ormai era partito) o non poter vedere per un tempo imprecisato i membri della nostra famiglia.
Cosa significa in misura esponenziale perdere la sicurezza del lavoro, i sacrifici di una vita, la propria impresa chiusa e a rischio fallimento. 
Siamo diventati persone che cercano di sopravvivere, perché abbiamo improvvisamente realizzato in tutta la crudezza di un decreto legge, che vivere è altro. Vivere è toccarsi, baciarsi, uscire di casa, andare a lavorare, a scuola, a divertirsi, andare al cinema, a Messa, in spiaggia, al bar. Vedere gli amici e trascorrere del tempo in biblioteca, fermarsi alla macchinetta del caffè a chiacchierare col collega di lavoro.
Vita è più che sopravvivenza, e questo, soprattutto nella nostra società occidentale, noi l’avevamo dimenticato, dopo la catastrofe bellica di metà secolo scorso e il successivo periodo di ripresa.
E ora che l’obiettivo principale è sopravvivere, e che perseguiamo tale obiettivo interrompendo tutte quelle normalissime pratiche che ci facevano sembrare (ed essere) vivi, ci ritroviamo sepolti dentro casa, in un irreale coprifuoco che non sappiamo quanto durerà.
Preferiamo sopravvivere e ci diciamo che andrà tutto bene, immaginando e sperando che in futuro potremo riprendere le nostre normali attività e consuetudini.
La paura (reale) di ammalarci e di morire ci ha fatto passare da persone che vivono a persone che sopravvivono.
Come tutti anche io cerco un senso a tutto questo, e in questo momento mi sembra di poter dire così: dobbiamo vivere questo tempo di sopravvivenza alimentando affetti veri, anche se vivibili senza un contatto fisico, ma almeno telefonico. Manteniamo l’umanità.
Dobbiamo vivere questo tempo facendo sì fiducia nel futuro, ma anche non sprecando i giorni. 
La tentazione infatti è quella di abbandonarci al fatalismo e di trascurare noi stessi.
Invece dobbiamo stare in equilibrio tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa alle cose che non possiamo cambiare, per citare Bonhoeffer.
E quindi suggerisco di staccare la televisione e il cellulare per qualche mezz’ora al giorno, fare un po’ di esercizio fisico, riappropriarci della nostra interiorità, del silenzio e della solitudine, dell’intimità di noi stessi che spesso viviamo troppo in superficie. Prendere in mano un libro o un salmo o una poesia, pregare (non troppo a lungo, ma magari a intervalli regolari durante la giornata), studiare, approfondire una passione, se è possibile farlo senza uscire di casa. E poi vestirci, lavarci, cucinare, coltivare un fiore, chiamare un figlio, un fratello, un genitore, un amico, un vicino. Continuare ad interessarci di noi stessi e degli altri. Solo così la sopravvivenza imposta potrà essere fruttuosa e potrà diventare vita, vita nuova e sicuramente trasformata.
Ma questa trasformazione per ora non sono in grado di descriverla.
In alto i cuori!

sabato 7 marzo 2020

Gesù si fidava del Padre suo (ma conosceva la forza di gravità)


È passata soltanto una settimana dal Vangelo di domenica scorsa, eppure molti cristiani sembra non l’abbiano neppure sentito. Vi si accenna, se ben ricordate, alle tentazioni che Gesù subisce nel deserto, dove a un certo momento il diavolo lo porta sul punto più alto del Tempio di Gerusalemme (sul pinnacolo, si diceva ai miei tempi) e gli intima di gettarsi giù, ché tanto Dio darà ordine ai suoi angeli che lo sostengano perché non si sfracelli.
Botticelli, Le prove di Cristo
E cosa fa Gesù? Non si butta!

Avete sentito bene: NON SI BUTTA. Con la scusa bella e buona che non bisogna tentare Dio!
Oh perbacco: questo Gesù è ben strano! Dice che basta una fede grande come un granello di senape per spostare le montagne, e poi, quando tocca a lui, davanti a una prova così, ma che dico prova, a una bazzecola... non ha fede nel Padre?
Vuoi vedere che conosceva la forza di gravità?
Scusate se la butto in barzelletta, se non fosse che è una cosa seria: la fede non si oppone alle leggi della natura, né alla forza di gravità, né alle possibilità di contrarre una malattia molto contagiosa, soprattutto per gli immunodepressi, per le persone con patologie cardiache, respiratorie, polmonari, etc.
Quindi per favore, smettetela di improvvisarvi teologi, scienziati, tuttologi del web, ricevitori di messaggi della Madonna e seguite le regole che vi vengono chieste. Sono semplici: lavarsi bene le mani, non stare in luoghi affollati, non toccarsi, non baciarsi, non abbracciarsi, prendere la comunione sulle mani, evitare il più possibile di uscire...
Non vi si chiede tanto: un piccolo sforzo per alcune settimane. Possiamo farcela.

Sarà gustoso per tutti, ma sarebbe oltremodo utile a certi campioni dell'ortodossia che parlano a sproposito sul web rileggere con profitto il cap. XXII di quella miniera infinita di bellezza che sono I Promessi Sposi, dove il cattolicissimo Alessandro Manzoni, dopo aver tessuto per filo e per segno le lodi del cardinale Borromeo, afferma:
Cardinal Federigo Borromeo

«Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, nè allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perchè non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre». (Cap. XXII)

E poi anche quell’altro capitolo dove racconta della Processione che a tutti i costi i maggiorenti della Città di Milano vollero fare portando a spasso il taumaturgico corpo mortale di San Carlo Borromeo, processione alla quale il cardinal Federigo accondiscese dopo molta insistenza.

«Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, nè altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto,” dice uno scrittore contemporaneo, “l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sè.» 

E infine il giudizio che ne da lo stesso Manzoni raccontando i dubbi sul Cardinal Federigo, il quale credette veramente che la peste si propagasse per l’opera di untori non meglio determinati, fino alla sua lapidaria conclusione «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune»

Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. “Era opinion comune,” dice a un di presso, “che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate.” 
Alessandro Manzoni
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. “Ho trovato gente savia in Milano,” dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, “che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e [p. 623 modifica]non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.” Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. (Cap. XXXII)

Meditate, gente, meditate!