domenica 8 dicembre 2019

Omelia per l'Immacolata - Ingresso come parroco a Sa Zeppara

È più facile obbedire o fare quel che ci pare, quel che “sentiamo”?
Ci vuole più forza a obbedire o a fare quel che vogliamo?
A volte sembrerebbe più facile obbedire, per esempio quando non vogliamo decidere, non vogliamo prenderci responsabilità.
Ma in fondo spesso si pensa che chi obbedisce sia un “debole” perché non agisce di propria iniziativa. E allora i veri forti nel mondo sono coloro che agiscono di loro iniziativa, che non ascoltano ciò che altri dicono, che sanno cosa vogliono e lo portano avanti senza farsi comandare da nessuno.
Oggi il mondo è pieno di paladini della libertà, ogni legame anche minimo è visto come una costrizione insopportabile che dobbiamo evitare come la peste.
Allora, se obbedire significa semplicemente eseguire degli ordini, certamente può essere facile, e in fondo può persino farci comodo: altri decidono per noi.
Ma l’obbedienza di cui parlano le sante scritture, non ha nulla a che fare con questo tipo di obbedienza.
Il “sì” che Maria pronuncia, “avvenga di me secondo la tua parola”, davanti alla proposta del Signore attraverso l’angelo, non indica un’obbedienza cieca, ma una grande responsabilità, una grande forza e una grande determinazione.
L’uomo e la donna nel giardino di Eden si nascondono, fanno lo scaricabarile: è colpa della donna che mi hai messo a fianco, è colpa del serpente...
Sembrerebbe che se la vogliano cavare deresponsabilizzandosi.
Per Maria è l’esatto contrario: Maria è responsabile dicendo sì.
Io me la immagino questa ragazza, provate a immaginarla, forse quindicenne, che di fronte a qualcosa di così grande, dopo aver chiesto come avverrà tutto questo, perché è una ragazza intelligente, mica una stupida, Maria, ebbene: Maria dice “Sì”. Quanta forza ci vuole nella vita a dire sì di fronte a situazioni che ci sembrano impossibili? Che non significa rassegnarsi, accettare supinamente. Tutt’altro: significa prendere in mano la propria vita, prenderla sul serio, comprenderne la serietà e accoglierla. Perché lì passa la strada che porta a Dio.
Responsabilità e obbedienza sono in fondo la stessa cosa.
Pensiamo alla nostra vita: cosa significa per una mamma, per un padre, per un amico, un figlio, essere obbedienti? Non semplicemente “fare quel che altri ci dicono”, ma essere responsabile: è quando io sono responsabile dell’impegno che prendo, della parola che do, che posso anche diventare obbediente al mio essere genitore, figlio, fratello, amico.
Tutto sta allora nel capire che senso hanno le nostre parole, che peso diamo alle nostre parole.
Oggi probabilmente la parola data conta molto poco, e forse è anche per questo che ci fidiamo poco della parola che Dio ci rivolge.
Chiesa Beata Vergine delle Grazie
Allora io penso che oggi, nella festa dell’Immacolata Concezione di Maria, la nostra Madre voglia dirci ed indicarci questo atteggiamento essenziale nella vita: imparare a essere responsabili del bene che riceviamo, dei doni che riceviamo, di qualunque tipo essi siano. Non parlo ovviamente delle cose materiali, certo anche di quelle, ma soprattutto nelle relazioni, nei doni interiori, nella vita quotidiana. Responsabili di ciò che ci precede, di ciò che non ci siamo fatti da noi stessi.
Allora saremo anche obbedienti alla nostra missione nel mondo, la vivremo con responsabilità e con amore.
Un inizio è sempre qualcosa di incognito: anche oggi, proprio nella liturgia in cui si parla di un cominciamento, di una vita che nasce, io inizio tra voi a condividere un po’ di strada. Sarà a volte faticosa, a volte un po’ fangosa, a volte stretta. A volte serena. Non lo sappiamo.
Quel che sappiamo è che Dio benedice gli inizi, che ci ha benedetto fin dall’inizio, prima ancora che fossimo presenti materialmente su questa terra.
Noi crediamo a questa benedizione primordiale da parte di Dio, benedizione che si è manifestata in Gesù. Più lo accoglieremo e più comprenderemo che essere benedetti non significa che ci vada tutto liscio nella vita, ma che la meta di ogni nostra esperienza è la risurrezione.
Ecco perché ci è lecito sperare che ogni nuovo inizio possa essere per noi un’occasione per vivere e sperimentare la risurrezione.
Abbiamo bisogno di riprendere questa fiducia semplice, come Maria, colei che si è fidata della Parola di Dio.
Abbiamo bisogno di diventare responsabili e obbedienti.
Perché ci vuole più forza e più coraggio ad obbedire alla vita, che non a condurre una vita libera o forse libertina.
Ci vuole più coraggio a obbedire ai nostri affetti veri, che vivere distaccati da ogni legame duraturo.
Obbedire alla vita, con autenticità, è un modo per cominciare a credere un po’ di più in Dio. È un modo per permettergli di plasmarci, di plasmare il nostro cuore perché possa nascere in noi il desiderio di crescere nella responsabilità, crescere nel dire sì. 
La vita inizia sempre da un sì: nel sì di Maria possiamo incastonare i nostri sì, a volte più convinti, a volte più titubanti, perché lei ci aiuti a portarli a compimento.
Aiutiamoci a vicenda a dire “sì” a Dio nella nostra vita.
Forse sarà umile e poco appariscente, non importa. Il Signore ama agire nel nascondimento e nel silenzio.
Ma solo così la nostra vita sarà feconda, sarà portatrice di vita e di speranza per il mondo. 
Amen



Chi sale verso Dio non si ferma mai, perché riprende di inizi in inizi, verso inizi che non hanno mai fine.



sabato 12 ottobre 2019

Ciao, signora Emilia! (Le mamme dei preti sono esseri mitologici)



La mamma di un prete è un essere mitologico, sanamente invidiata da tutte quelle che avrebbero voluto un figlio prete e “invece” hanno avuto “solamente” figli sposati, bravi ragazzi per carità, “bisogna accontentarsi".
Sanamente invidiata perché si pensa che la mamma di un prete sia un essere speciale, una donna che ha generato un uomo che è stato conformato a Cristo, per renderlo presente tra i fratelli.
La mamma di un prete custodisce spesso la vocazione del figlio, ne conosce il segreto, ne rivela la fonte.
E noi giù a demitizzare tutto, perché in fondo la mamma di un prete è “soltanto” la mamma di un semplice uomo.
Tutto vero.
Ma signora Emilia, che oggi ci ha lasciato a 89 anni, e che era mamma di ben due preti, don Franco e don Elvio, e altri tre figli, e anche nonna, era davvero una donna speciale. Piccoletta, ma con un sorriso accogliente che non ti permetteva di andare via senza prima esserti rifocillato, senza le immancabili caramelle o un dolcettino.
È stata premurosa mamma non solo dei due figli preti, ma di molti seminaristi e preti, compreso me, che l'ho conosciuta quando avevo tredici anni.
Donna semplice, umile, visitava gli ammalati e non mancava di chiedere come stessero i familiari. Sempre presente, a ogni celebrazione, ma con discrezione, con fede. Buona, come è buono il pane appena fatto.
Aveva una memoria infallibile per i compleanni (il mio se lo ricordava sempre), fino a quando almeno la memoria non l’aveva abbandonata.
Eppure almeno una volta in questi anni mi ha chiamato “Marco” senza suggerimenti, e ancora due giorni fa mi ha abbracciato, baciato, e offerto, per l’ultima volta le sue caramelle.
Ci mancherà, signora Emilia: a dda connosci in su celu!




venerdì 27 settembre 2019

De “s’accabbadora” e altre leggende


Vi do una brutta notizia: s’accabadora non è mai esistita!
Eh già, avete letto bene: non è mai esistita. So che fior fiore di lettori di Michela Murgia ignorano questo particolare che lei stessa rivela candidamente in alcune interviste che è facile trovare sul web. Per esempio alla domanda: «Accabadora si nasce o si diventa?», la vincitrice del Premio Campiello risponde: «Si diventa, ma insieme, nel senso che non è una vocazione individuale, è una funzione che si sviluppa grazie a una comunità che richiede quel servizio e ne protegge l’impunibilità. In Sardegna non esiste l’accabadora, né è mai esistita. È una figura indimostrabile dal punto di vista storiografico e smentibile da quello antropologico. Ciò che davvero è esistito è l’azione che lei compiva, non il mestiere. È più probabile che qualunque donna, all’occorrenza, fosse addestrata a svolgere quel compito. Mai, però, per i propri genitori, perché il vantaggio tratto sarebbe stato eccessivo, dall’eredità alla sollevazione da una cura gravosa. Poteva essere una vicina di casa a chiederti di fare un gesto simile verso suo padre. Lei l’avrebbe fatto per te e tu, a suo tempo, l’avresti fatto per lei. È un gioco di colpe che passano di mano in mano. Fino agli anni ’50, la comunità sarda ricorreva a quella figura leggendaria, che sintetizzava in sé tutte le colpe». (https://www.settesere.it/it/notizie-romagna-il-castoro-la-scrittrice-michela-murgia-a-colloquio-con-gli-studenti-a-faenza-n20092.php).
E ancora, alla domanda «Ha mai conosciuto un’accabadora?», la scrittrice di Cabras conferma: «L’accabadora è una figura leggendaria. Usata specialmente dai vecchi come spauracchio per i bambini troppo vivaci: “Guarda che viene l’accabadora”. Io ho voluto, in questo mio romanzo, farla donna, darle carne e sangue. Mentre era solo una figura non probabile perché non fissata da documenti scritti, ma tramandata oralmente» (https://www.larena.it/home/altri/interviste/leggenda-di-eutanasia-laquo-l-accabadora-sarda-dava-la-morte-e-la-vita-raquo-1.2725046).
Poi certo è difficile comprendere come coniugare la non esistenza dell’accabbadora con l’esistenza del gesto dell’accabbare (sarebbe come dire che non esistono assassini, ma esiste l’omicidio), ma questa domanda la lasciamo ad altre interviste della Murgia.
Ma la cosa che mi lascia sconcertato è leggere che un prelato dalla sua Cattedrale web dà invece per pacifica l’esistenza di questa figura tradizionale e mitologica (https://www.giuseppemani.it/la-lettera-della-settimana/femina-agabbadora.html), parlando di eutanasia, fine vita e tutti i temi collegati e mostrandoci come dei selvaggi che fino a non molti decenni fa avevano dentro il loro tessuto sociale una simile figura.
Ora non mi addentrerò nell’argomento, perché è un tema complesso che richiede di deporre le armi e provare a parlarsi. Tema che per noi cristiani è della massima importanza: derogare al prendersi cura della persona malata fino al naturale compimento della vita pone in discussione il cardine stesso della nostra religione, che fa del Crocifisso il segno della propria speranza.
Ma proprio per questo il tema andrebbe affrontato senza preconcetti ideologici, comprendendo bene il valore della posta in gioco, con competenze mediche, spirituali, antropologiche, perché oggi le situazioni sono sempre più complesse.
Qui mi premeva dirvi che non potete usare s’accabbadora per giustificare idee che sono tutte vostre, e che non appartengono alla nostra tradizione. Sarebbe come dire che usiamo Superman per giustificare chi salta da un palazzo all’altro.
In quell’immenso capolavoro che è Il giorno del giudizio, Salvatore Satta racconta che Donna Vincenza custodiva i fiammiferi spenti che il figlio più piccolo raccoglieva quando il lampionaio accendeva i fanali a petrolio che illuminavano le strade di Nuoro. E dice Satta che «dietro quelle cose morte c’era una vita immensa, uno sconfinato mondo d’amore […]. C’era l’idea di una terra, della terra per noi arida e avara, piena di doni meravigliosi; c’era la fantasia del gratuito, che ha mosso il creatore alla sua creazione: la gioia di sentirsi partecipe di questa creazione e di questo dono. Il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l’elemento diabolico della vita».
Satta aveva ragione da vendere.


martedì 3 settembre 2019

Ringraziamento di don Giovanni Coni al termine della Messa di Anniversario



Il dieci luglio, nel 53° anniversario di Ordinazione presbiterale ho chiesto a don Giovanni Coni di presiedere l'Eucaristia, ma non ce la faceva e ha accettato comunque di concelebrare e di salutare e ringraziare al termine, dando poi la benedizione. Questo è il video.

«Prima di tutto un ringraziamento a Dio per il dono della vita, per il sacerdozio, ringraziamento anche per questo periodo, comunque vada: so che mi è vicino. Ricordo le parole di San Paolo: "Tutto concorre al bene per quelli che Dio ama: la vita, la morte, la malattia, la salute, l'essere apprezzato o disprezzato". Di tutto grazie Signore, aiutami a compiere la tua volontà. Qualche volta pesantemente, ma sapendo che mi sostieni».


Questo era don Coni.

(Video di Gianfranco Massa)

giovedì 29 agosto 2019

L’amico dello sposo esulta di gioia alla sua voce: ora la mia gioia è perfetta.

Foto Gianfranco Massa

Molte volte in questi ultimi quindici anni don Coni mi ha chiamato a predicare per le feste principali di Morgongiori, manifestandomi un affetto e una stima sinceri e totalmente disinteressati.
foto Federica Spano
Ho avuto il privilegio di poter collaborare con lui in questi ultimi tre mesi, e poi di sostituirlo totalmente, perché dal 10 luglio, giorno del suo 53° anniversario di ordinazione, non ha più avuto la forza di celebrare o concelebrare.
Ho potuto vedere – come chiunque sia venuto a visitarlo – che progressivamente la malattia minava il suo fisico ma non il suo spirito.
Foto Gianfranco Massa
Ha vissuto con amore questi mesi di sofferenza, senza ostentazione, senza prediche né moralismi, ma con il sorriso, l’accoglienza e l’ironia che hanno ben conosciuto tutti coloro che hanno avuto a che fare con lui, ricevendo la Comunione eucaristica e due volte l’Unzione degli Infermi, l’ultima dal Vescovo, sabato.
Sabato sera, dopo aver ricevuto la Comunione, quando già la sua situazione precipitava e lui se ne rendeva conto, gli ho chiesto se la croce fosse pesante e mi ha risposto: “La croce è un po’ pesante, ma aspettiamo, perché le croci che sembrano enormi il Signore le rimpicciolisce, a volte sono piccole e si ingrandiscono”. 
E lunedì, dopo aver fatto la preghiera di preparazione alla morte, gli ho chiesto di dare la benedizione ai suoi familiari, ai presenti nella sua camera e a tutti i parrocchiani: ha sollevato la mano e ha pronunciato, a fatica ma chiaramente, la formula di benedizione.
Ha amato molto le persone a lui affidate, con vero affetto sacerdotale, di chi è interessato cioè non solo al benessere materiale, ma alla salvezza spirituale. Ha voluto bene a grandi e piccoli, privilegiando i malati, i chierichetti e i bambini e ragazzi del catechismo, che nel suo cuore avevano un posto speciale.
Ha amato molto il presbiterio, la chiesa diocesana, le famigliari del clero e il suo vescovo: mai l’ho sentito, e credo neanche gli altri confratelli sacerdoti, criticare o usare parole scortesi nei confronti di qualcuno, anzi semmai cercava sempre di sdrammatizzare. Così faceva anche quando si presentavano gli inevitabili attriti e contrasti nella comunità parrocchiale: cercava la pace e l’unità di intenti.
Ha sofferto con amore, prendendo la croce, non subendola, accettando di mostrarsi “debole” di fronte a chi veniva a trovarlo, e sono stati tantissimi, laici e preti. Si è mostrato nella debolezza della malattia e del dolore fisico, e questa è stata la sua più grande omelia: non parole, non esortazioni, non consigli, ma la sua personale partecipazione alle sofferenze di Cristo.
È vissuto in povertà quasi monastica, quasi sconcertante. 
Penso che da oggi in poi tutti abbiamo un debito nei suoi confronti, oltre che per il bene seminato: che questa sua ultima omelia durata tre mesi non vada sprecata, ma che ci aiuti a vivere bene, ad apprezzare quello che davvero conta nella vita, che non sono i beni materiali, ma la carità, la fede e la speranza, doni di Dio.
Grazie don Giovanni, a nome di tutti i presenti, e di tanti a cui hai fatto del bene. 
Davanti al tuo e nostro Signore Gesù Cristo ora prega per tua sorella Nanda, per tutte le tue sorelle e i nipoti, per la tua diocesi e per il vescovo, per le comunità in cui hai servito e per noi preti.
foto Omar Manias

giovedì 27 giugno 2019

Quel papà affogato potevo essere io

Non riesco a smettere di piangere dopo aver visto il papà salvadoregno morto annegato sul Rio Grande con la sua bambina di due anni mentre cercava di varcare la frontiera americana.

In aeroporto vedo un marcantonio di due metri di altezza per forse 130 kg rovistare dentro il cestino della spazzatura dell’umido e, tirando fuori due bustine con arance e mele, tastarle per capire se sono ancora buone. Trascina un carrello con tante borse, una coperta, altri oggetti. Capisco che è un senzatetto. Porta al collo un rosario in evidenza.
E poi leggo parole di ministri che sventolano rosari e irridono chi affronta lunghi viaggi della disperazione; leggo di politici i quali, per distrarre gli italiani dai veri problemi che essi sono incapaci di affrontare e risolvere, parlano di “sacri confini di patria” neanche fossimo nel 1914 alla vigilia della inutile strage (non sono parole mie, ovviamente). E ricordo che le statistiche mostrano inesorabilmente che la questione migratoria è mondiale, e che le nazioni più povere accolgono il numero più alto di migranti. E sono numeri, non idee o ideologie.
Andando a prendere l’aereo sento una musica: c’è un pianoforte davanti al gate, e un signore che suona magistralmente il Tema d’amore, musica di Ennio Morricone per il film Nuovo cinema Paradiso, storia di amore, di guerra, di abbandono della propria terra. Mi fermo ad ascoltarlo, commosso ancora una volta.
E nulla è un caso e tutto è misteriosamente legato. E penso che un po’ di cultura e di bellezza in più, sparsa nei nostri paesi, nelle piazze, nei bar, nei ristoranti, ci farebbe davvero bene. Perché un uomo che ascolta e vede la bellezza può comprendere anche la bruttezza e la violenza, mentre chi vede solo bruttezza e violenza non riesce ad apprezzare altro.
E ricordo che mi hanno insegnato che Gesù per salvarci è morto in croce al posto dell’umanità, e questo tra le tante cose stupende e fantastiche che diciamo, forse significa anche che quel papà affogato con la bambina potevo essere io, quel barbone che rovistava nella spazzatura potevo essere io. Quel migrante sulla nave potevo essere io.
E allora mi assale il dubbio: un cristiano, un prete, un vescovo che annuncia e celebra ogni giorno il misterioso scambio che ci ha redenti, come può non mettersi almeno per una volta dentro questo scambio e sentire la desolazione di un’umanità dispersa, e sentire la vergogna e la rabbia per quel che accade?
E come potrà non dire al mondo, ai suoi amici, persino ai suoi nemici, e via via, fino al ministro sparlante, al giornalista, al vescovo incerto e titubante, che no, un mondo così non è possibile?
Che se una cosa il cristianesimo ha a cuore è la sacralità della vita umana, non dei confini. Che tu tratterai bene lo straniero, perché devi ricordarti che anche tu fosti straniero, e che tutti siamo pellegrini in questa valle di lacrime, e non abbiamo quaggiù una città stabile, e siamo in un continuo esodo.
Desidero lasciare ai miei posteri un mondo dove un padre non muore più annegato con sua figlia per scappare verso un futuro migliore.
Desidero cominciare a costruirlo io, dal mio cuore e dalla mia intelligenza, ed esprimerlo con le mie idee, con le mie azioni, con il mio impegno, con il mio voto.
Arrivando a destinazione l’hostess annuncia che stiamo per atterrare, e che in caso di abbandono dell’aereo ci invita a lasciare tutto a bordo. Appunto, in caso ce lo scordassimo: il nostro benessere, le nostre sicurezze, i nostri “sacri confini” non ce li portiamo appresso...
No, non voglio la lacrimuccia né l’applauso, cari amici. Non dò pagelle di cristianesimo a nessuno. Dico solo che un cristiano questi ragionamenti dovrebbe averceli nel DNA, perché stanno nel Vangelo, stanno nel Catechismo, stanno nel Magistero universale dei papi almeno da cento anni a questa parte.
Se non li ha, sarà capace di trarne da solo le conseguenze.


mercoledì 12 giugno 2019

Distinguere l'utile dall'affascinante. Contromanuale Ikea

Mi sorprende sempre trovare affermazioni folgoranti per la loro apparente ovvietà. Oggi è il turno di Cristina Campo, nel suo libro Gli imperdonabili: «Nessuna cosa che non possa leggersi in molti modi può affascinare per più di un tempo assai breve».
In effetti a pensarci bene è così per qualunque cosa sia viva.
Quand’è che una persona ci risulta affascinante? Quando non è a senso unico, quando non la si può incasellare in una definizione, quando la sua personalità ha mille sfaccettature, quando ci sorprende con un pensiero o un’azione sempre nuova.
Perché le Sacre Scritture affascinano il credente ed egli non si stanca mai di riprenderle continuamente? Proprio perché possono leggersi in molti modi. Non è difficile capirlo. Il libretto delle istruzioni del forno a microonde non è affascinante. Al massimo può essere utile. Ma una volta che ne conosciamo il funzionamento, esso non ci serve più.
Il foglietto illustrativo del montaggio della scrivania comprata da Ikea ha vita breve: dura finché non abbiamo eseguito perfettamente i passaggi degli incastri dei vari pezzi e non abbiamo avvitato l’ultimo bullone. Dopodiché finisce automaticamente nella pattumiera della carta. E certo anche nel suo breve spazio di esistenza non ha esercitato nessun fascino sul lettore: è stato semplicemente utile a uno scopo, quello di assemblare la nostra nuova scrivania.
Non è così invece per la parola delle Scritture, come per la liturgia: i suoi molti significati, le sue aperture su un mondo altro perché non immediatamente fruibile, la sua ricchezza e ampiezza di interpretazioni affascinano chi vi si avvicina.
Le Scritture non sono “utili” al modo di un libretto delle istruzioni: esse aprono sentieri, indicano vie, mettono tarli nella mente, stimolano a pensare, ci confrontano con la realtà. Non ci danno istruzioni, ma dipingono paesaggi.
Sono seduto a tavola con due persone che mi fanno domande sulla Bibbia, sulla Chiesa, sulla Messa: «Ma la Chiesa ha cambiato il senso delle parole della Bibbia, tale cosa non è scritta da nessuna parte, bisognerebbe trovare la vera Scrittura, ma perché andare a Messa?»... Davanti a questioni simili penso proprio che molta gente vorrebbe che la Scrittura fosse come un manuale di istruzioni: utile, preciso, adatto allo scopo prefisso.
E invece trova racconti, parabole, affermazioni discordanti, tutto e il contrario di tutto. Trova la realtà, insomma, ma vorrebbe il libretto per montare la scrivania di Ikea.
E allora penso a quanto ancora abbiamo da fare per mostrare, additare a chi ci ascolta, in un’omelia d’occasione, nella liturgia festiva, in una chiacchierata al bar, in un dialogo a cena, che di Dio non esistono libretti di istruzioni, ma semmai che è necessario un incontro, un coinvolgimento, che può partire soltanto dall’abbandonare la ricerca dell’utile e dell’immediato per me, per aprirmi allo stupore dell’impensato, del non conosciuto, persino dell’insperato. Di qualcosa, insomma, che non posso costruirmi io con le mie mani, come una scrivania Ikea.
Scambiare l’utile per l’affascinante è la grande trappola di ogni tempo, ma soprattutto del nostro.

mercoledì 15 maggio 2019

Morgongiori - Omelia per Sant'Isidoro Agricoltore

Sono molte le suggestioni che ci consegna la figura di sant’Isidoro e ritengo che abbiamo molto da ringraziare perché la Chiesa ci fa celebrare le feste dei santi, che sono i nostri amici presso Dio, ma senza mai dimenticare che sono state persone mortali come noi.
Isidoro non era né prete, né frate, né monaco, ma un laico, uno sposo, un padre di famiglia, un lavoratore della campagna, una persona che a un certo punto della vita ha dovuto abbandonare il suo paese, la sua città a causa della guerra, per cercare lavoro e fortuna altrove, noi diremmo oggi un emigrato. 
Inoltre sua moglie è associata a lui nella santità, anche lei santa, Maria Toribia.
Vedete che già da questi pochi tratti praticamente tutti noi che siamo qui possiamo cominciare a immedesimarci: d’altronde celebrare una festa non significa dimenticare il quotidiano, i giorni ordinari, dove appunto i nostri rapporti, il nostro lavoro, la nostra famiglia sono un po’ il luogo dove ci viene chiesto di vivere il vangelo, di seguire il Signore come ha fatto sant’Isidoro. Anzi, noi oggi portiamo qui proprio il nostro fardello, il nostro carico di preoccupazioni e di gioie, di richieste e di ringraziamenti e lo deponiamo sul carro di Isidoro perché lo presenti al Signore: questo fanno i santi.
Ma se poi proviamo a scendere un po’ più in profondità nella figura di questo grande santo, la cui fama subito dopo la morte si era diffusa in tutto il Regno di Spagna, ci rendiamo conto che ha molto da dirci.
Perché, ci chiediamo, se lui è diventato santo, io non posso diventarlo? Cosa ci vuole per diventare santi?
Innanzitutto smontiamo subito qualche idea: noi abbiamo sentito dei miracoli di sant’Isidoro: il miracolo degli angeli che portano avanti il lavoro mentre lui prega, o dell’acqua del pozzo che si solleva per permettere al bambino caduto dentro di salvarsi. Ma i miracoli non sono la causa della santità, sono semmai la conseguenza della fede di Isidoro.
A noi vengono raccontati in modo un po’ ingenuo, ma ci dicono una cosa importante su Isidoro: che egli era uno che si fidava di Dio, che prendeva molto sul serio la sua parola, che attribuiva a Dio un vero valore di realtà (Teilhard), che credeva nell’importanza della preghiera. E che tutto questo non lo allontanava dai suoi impegni quotidiani, dal suo lavoro dalla sua famiglia. Anzi! La vicinanza con Dio lo faceva sentire anche più vicino ai poveri, più attento a quelli che lo circondavano.
Noi potremmo pensare che il santo è uno che si mostra tale, è uno che fa qualcosa di particolarmente forte, eclatante. In Sant’Isidoro vediamo l’esatto contrario. Egli è una persona normale, è insignificante agli occhi della società del tempo (e anche della nostra, forse): è un bracciante agricolo.
E a noi la normalità e l’insignificanza ci spaventano. Basta vedere i social: conta chi totalizza più “mi piace”, conta chi appare sempre bello/a, con la pelle liscia, con l’abbronzatura, con gli abiti firmati: questi sono i modelli a cui aspiriamo e a cui aspirano i nostri ragazzi.
È un mondo un po’ malato dove gli e le influencer, coloro che influenzano gli stili di vita, sono normalmente persone che pontificano su tutto senza aver mai studiato o approfondito nulla, e guadagno pacchi di soldi praticamente senza lavorare.
Se chiedete ai ragazzi e ai bambini quali sono i loro “idoli”, vi risponderanno in fretta.
Sant’Isidoro è un po’ il contrario di tutto questo: non è un grande condottiero, non è un soldato, non combatte, non appare. Non sa di essere santo. È un povero laico che non sa leggere né scrivere. Si sposta per cercare pace dove pace non c’è, in una Spagna mezzo conquistata dai musulmani.
Non fa la guerra, fa il suo lavoro, ama sua moglie, soffre la perdita di un figlio, condivide i suoi guadagni con i più poveri, sfama gli uccellini affamati durante l’inverno.
Si può essere santi per così poco?
Evidentemente sì, si può.
E allora possiamo domandarci forse come può essere la santità oggi? In cosa deve consistere?
Sicuramente in una vita nascosta, poco appariscente, in un lavoro duro, anche manuale, un lavoro che dà soddisfazioni quando vien bene, ma che è ricco di incognite, proprio come l’agricoltura, che è soggetta alle stagioni, ai cambi meteorologici improvvisi, alle malattie...
La santità oggi poi dovrà certamente consistere nell’amare sinceramente e con forza le persone che ci sono affidate, nel far fiducia nella possibilità di perdonare. Nell’amare i poveri e aiutarli.
Stiamo assistendo oggi a un imbarbarimento delle relazioni, a prediche di odio contro chiunque sembri minacciare la nostra presunta tranquillità, a parole cariche di odio verso chi è diverso, chi è malato. C’è un ragazzo a Oristano, Paolo, che lotta contro la SLA e cerca di entrare in un programma sperimentale di cura che costa molti soldi raccogliendo dei fondi, e ci sono delle persone che gli vanno contro e gli augurano di morire prima di provare la cura.
Noi vediamo oggi sdoganata una violenza fisica e verbale che non si ferma neanche davanti a una donna che tiene in braccio un bambino, persone che tradizionalmente anche il senso comune metteva tra i “deboli” da preservare a tutti i costi.
In questi giorni noi sperimentiamo fortemente che coloro che dovrebbero costruire il bene comune attaccano chi per questo bene comune lavora spesso gratuitamente e senza strombazzare la propria azione.
La santità oggi dovrà consistere nel lottare nel proprio piccolo contro ogni ingiustizia, sapendo che la prima e necessaria conversione avviene dentro di noi, quando rifiutiamo il male e impariamo a fare il bene.
Il santo, oggi come ieri, sarà una persona che noi diremmo normale, una persona che può sbagliare ma che si fa illuminare dall’azione dello Spirito e così sarà per noi un pungolo alla nostra mediocrità.

Noi possiamo essere santi e la nostra santità non apparirà mai sui giornali, non si prenderà i flash delle macchine fotografiche, avrà piuttosto il sapore dello sconosciuto e misconosciuto. Qualcuno potrà pensare che siamo strani: e chi non giudicherebbe strane persone che sono disposte a farsi ammazzare per il semplice fatto di partecipare alla Messa domenicale?
Questa è però la serietà del Vangelo, la verità del Vangelo. Che anche sant’Isidoro ha sperimentato: l’accusa ingiusta, il giudizio. Ma questo, se vissuto nella fede, significa anche partecipare alla passione di Cristo, e quindi in modo misterioso ma reale, essere più vicini a lui, portare un pochino con lui il peso della sofferenza del mondo.
Questa è la forza che ci imprime il battesimo, e questa è la modalità con la quale anche in questo mondo può risplendere il volto di Dio: attraverso la nostra povertà e semplicità. I santi sono fatti di questa stoffa, come sant’Isidoro e come tutti gli altri.
Il Signore ci aiuti a fidarci di lui, perché ci conduca sulla via della santità. Amen 

domenica 21 aprile 2019

Omelia nel giorno di Pasqua

A. Soressi Trasporto di Gesù al sepolcro 
L’altro giorno mi è arrivato un messaggio sul cellulare. Diceva: «Corri come me ad attivare una nuova offerta». E mi è venuto in mente che nel giorno di Pasqua si parla di corse nel Vangelo, è tutto un correre, dal sepolcro a casa e da casa al sepolcro. Maria di Magdala corre, Pietro corre, il discepolo amato corre... più lenti, più veloci...
È la corsa frenetica davanti a un annuncio sconvolgente: la tomba è aperta, il sepolcro è vuoto!
E mi sono chiesto: per cosa corro io? Per cosa corriamo noi? Cos’è che ci muove veramente, ci fa uscire dal nostro immobilismo, dalla nostra comodità? «S’abbisongiu bogada su becciu a curri», diciamo.
Qual è il nostro bisogno? Di cosa abbiamo bisogno? Di serenità, di pace, di tranquillità... Ci sembra di aver bisogno di queste cose.
Ma più di tutto, penso che abbiamo bisogno di senso, di recuperare un senso per il nostro correre, un senso che ci faccia comprendere dove andare, una direzione verso dove tendere, verso dove condurre la nostra vita.
Che ce ne facciamo della serenità se non sappiamo a cosa ci serve? Che ce ne facciamo della pace se non sappiamo a che scopo vivere in pace?
Siamo perennemente scontenti perché spesso non troviamo un senso alla nostra vita.
Alcune persone, non vedendo i risultati che si aspettavano nella loro esistenza, si chiedono: Avrò sbagliato tutto nella vita?
Altre invece, che si ritengono fortunate, pensano: Dio mi ha benedetto.
Noi spesso facciamo ragionamenti di questo tipo.
Domande come queste forse se le sono poste anche i discepoli, davanti al fallimento del loro maestro, davanti a una tomba vuota, davanti a una donna che vaneggiava: «Forse abbiamo sbagliato tutto, abbiamo sbagliato a seguirlo. Avevano ragione i capi, lui non era il Messia. Che senso ha avuto seguirlo?». 
Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Ripeto la domanda: verso dove corriamo? Quale vera offerta irrinunciabile ci viene fatta nella vita?
Oggi, nel giorno di Pasqua, ci viene offerta una tomba vuota, ci viene offerta una scena che lascia senza parole. 
Eppure da quella tomba vuota tutto è partito. Quando Pietro rilegge la sua esperienza di discepolo a partire da quella tomba si rende conto che tutto aveva un senso, anche la morte di Gesù, che tutto era misteriosamente ma realmente guidato da Dio, anche quelle situazioni che apparentemente sembravano dimenticate da Dio.
E qual era il senso di tutto?
Che la vita del Figlio di Dio, e per chi si fida di lui, anche la nostra vita, è avvolta da un amore più grande della morte.
So che siamo allergici alla parola “amore”, soprattutto attribuita a Dio.
Ci sembra quasi esagerata. Dio ci ama, sì... ma poi abbiamo problemi, dobbiamo affrontare malattie, litigi, guerre... Che amore è questo?
No, certamente non è l’amore da vetrina, non è l’amore truccato delle trasmissioni televisive. È un amore a caro prezzo, è un amore che è costato la vita al Figlio.
Usciamo da questa celebrazione con la convinzione che l’amore di Dio non è una dose di tranquillante, ma è il senso della vita, è la direzione da dare alla vita. Non è qualcosa da esibire, ma qualcosa da scambiare.
Io ho paura di dire “risurrezione” perché so quante morti dobbiamo affrontare, quante mortificazioni, privazioni, problemi e sofferenze. Ho paura a dirvi che risorgeremo, perché ho paura che fraintendiate. Risurrezione non è bacchetta magica, risurrezione è l’esito di una vita di amore. Risurrezione non è soluzione dei problemi, risurrezione è attraversare la croce, il venerdì santo.
Noi non possiamo parlare di risurrezione come parliamo del finale di una favola: e vissero tutti felici e contenti. La risurrezione è l’anima della vita al centro della sofferenza più grande, è la speranza per noi al centro di ogni nostra disperazione, è l’amore più grande in mezzo all’odio più profondo. 
No, non vi sembrino dei giochi di parole, fratelli e sorelle.
Banalizziamo la risurrezione di Gesù, quando non comprendiamo da quale dramma è arrivata. Solo guardando a colui che hanno trafitto possiamo comprendere il senso della risurrezione.
Ecco perché i discepoli dovranno vedere le sue ferite, sentire le sue parole, rinnovare il pasto con lui. Che è quello che noi facciamo in ogni eucaristia: perché il destino di chi si fa ponte, permettendo il passaggio, è quello di essere calpestato. Per questo ai ponti preferiamo i muri! (P.Pegoraro)
Noi abbiamo perso spesso la comprensione di ciò che facciamo, celebriamo in modo meccanico anche la Messa. Ma se per un momento noi proviamo a entrare dentro il mistero di amore sino alla fine che Gesù ci ha lasciato e proviamo a liberarci di tante incrostazioni che gli abbiamo appiccicato, forse capiamo che davvero solo lì, nelle sue parole e nel suo pane di vita, nella sua croce, troviamo senso per la nostra vita.
E allora ritorno alla domanda iniziale: Verso dove corriamo? Cos’è che ci muove?
Pasqua non è la festa della tranquillità, è la festa del movimento, è la festa di un Dio che non ci lascia marcire, che non ci lascia nel peccato. Accorgerci di questo, e imparare a vivere così. Dire come Pietro: di questo siamo testimoni!
Gesù è risorto veramente, è risorto anche per te, per dare un senso alla tua vita e alla tua morte. Vorrai accoglierlo oggi? Vorrai accettare anche tu questo annuncio?
Oppure farai come se nulla fosse, aggrappato a una religione di circostanza?
Questa è la domanda seria per noi. 
Ha un senso la mia vita? O è solo un caso e un errore della natura?
Burnard, Pietro e Giovanni
In Gesù risorto noi crediamo che la nostra vita abbia un senso, che maturi, che cresca che raggiunga la sua pienezza di amore.
Sì, ci fideremo di te Signore, perché solo tu sei fedele, solo tu mantieni la parola data.
Ci fidiamo di te e con te camminiamo, anzi corriamo, incontro ai nostri fratelli, per dire loro con le parole, e soprattutto con le opere, che Gesù è risorto, e che ci precede e ci accompagna.

Omelia per la Veglia Pasquale

Abbiamo vissuto i giorni della passione, della sofferenza del Crocifisso. Siamo entrati non solo nella notte fisica, quella che viene quando tramonta il sole, ma nella notte del mondo, la notte che tutto avvolge e ogni cosa rende uguale. Siamo entrati nella notte che impedisce di comprendere il senso, la direzione, impedisce di orientarsi.
Anche i discepoli e le discepole di Gesù hanno attraversato questa notte. 
La notte in cui ogni speranza è perduta, la notte in cui il ricordo ha il sapore amaro del rimpianto e non quello appagante del ringraziamento.
La notte che confonde, che agita il sonno, la notte che non vediamo l’ora che finisca...
Tutti siamo entrati in questi santi giorni nella notte del mondo, la notte dell’assenza di Dio, che spesso sentiamo palpabile intorno a noi, lamentandocene, ma non facendo nulla per favorirne la presenza.
E cosa potremmo fare del resto?
Noi che sprechiamo il dolore, cercando di abbreviarlo, noi che ci imbottiamo di anestetici dell’anima per non soffrire. Abbiamo dimenticato che “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”.
Ci sembra assurda questa necessità, eppure è più necessaria dell’aria, perché non c’era altro modo per offrirci la speranza, non c’era altro modo per offrirci l’amore se non quello di consegnarsi a noi. Perché l’amore è così: è consegnarsi all’amato, senza calcoli, anzi mettendo in conto che l’amato possa tradirmi.
Che altezze vertiginose abbiamo toccato in questi giorni fratelli e sorelle, cose da farci rabbrividire. Che amare sia donarsi, lo capiamo e in fondo ci stiamo. Ma che amare sia donarsi anche a chi non ti vuole... questo no, questo onestamente è troppo.
Non lo diciamo, in fondo anche noi, sperimentando le nostre relazioni che falliscono: “Se non mi vuole, che posso farci?”?
E allora come si fa ad amare così, donandosi anche a chi non ci ama? Diventando oggetto della rabbia, della rivalsa, dell’odio dei nemici, e diventando anche sconosciuto ai tuoi stessi amici? Annientandoti sino alla morte?
Colonne di psicologi ci dicono che l’amore vero non può essere un autoannientamento. E forse hanno ragione in parte.
Però noi oggi siamo qui a contemplare una tomba vuota, siamo qui a riascoltare quell’annuncio che ci chiede di non cercare tra i morti colui che è vivo! Che ci chiede di ricordare le sue parole.
E per ricordare bisogna ascoltare: non si può ricordare ciò che non si è mai sentito.
Stanno vaneggiando le donne? Stiamo vaneggiando noi stanotte a dire queste cose a compiere questi gesti che sanno di vita, di luce, di bellezza?
O abbiamo fatto solo una bella recita? Ci siamo commossi giovedì e venerdì santo, perché conosciamo il dolore e sappiamo riconoscerlo nel Figlio di Dio, ma in fondo ci fermiamo lì, quasi ancora seguaci di un culto dei morti senza speranza?
Spesso vedendo i cristiani, questa è la sensazione!
Perché questa è la domanda seria che possiamo farci a Pasqua: Che ne sarà della mia vita? Che ne è stato di quell’amore di Gesù dato persino a chi lo ha tradito e crocifisso?
Perché se tutto finisce nella tomba e in cimitero, se la nostra speranza è tutta qui, in queste poche lune di vita terrena, se tutto si esaurisce in un “Mangiamo e beviamo, ché domani moriremo”, siamo davvero dei disperati.
Ma se per grazia di Dio stanotte ci si è fatto incontro un pensiero, una piccola luce come quella della candela che abbiamo portato, un piccolo segno come un po’ d’acqua fresca. Se stanotte noi abbiamo pensato che questi piccoli e poveri segni, come quelli di un amore che non cessa di amare anche se l’altro non corrisponde, che questi piccoli e poveri segni ci dicono qual è il nostro desiderio più profondo: che ogni nostro amore, cioè, ogni nostra amicizia sia davvero per sempre, che cresca semmai, ma non diminuisca.
Perché sappiamo che
Amore non è amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza. 
(Shakespeare)
Ecco, se tutto questo è vero nella nostra vita, allora oggi ci viene donato Colui che ci dà la capacità di amare così, che toglie da noi il peccato, cioè la forza terribile dell’allontanamento da Dio e dai fratelli. Perché questo è il peccato, e noi non lo riconosciamo, ci confessiamo di aver mangiato una ciambella, di aver detto una bugia, di aver trasgredito un impegno. Ma solo su questo dovremmo interrogarci: quanto il nostro cuore si allontana da Dio e dai fratelli, quante cautele poniamo, quanti muri, quante pause di riflessione.
E sapere che questa lontananza, questo allontanamento volontario del Figlio prodigo lui lo rispetta, eppure lo annulla, perché basta soltanto che ci voltiamo a guardarlo e già lui si è catapultato ad abbracciarci, a confortarci, che mai più ci allontaneremo, e questo infinite volte.
Se abbiamo provato una volta cosa significa perdersi in un luogo sconosciuto, senza punti di riferimento, senza capacità di orientarci, sapete di cosa sto parlando. Solo qualcuno che venga da fuori, da quello che per noi è al di là, perché noi siamo nella morte e lui nella vita, solo qualcuno che venga a salvarci può restituirci la gioia e la vita.
Carissimi fratelli e sorelle, Pasqua è questo: è il passaggio dalla nostra presunta autosufficienza all’incontro con Dio. Se la nostra esistenza riparte oggi da questa nuova consapevolezza, se domani, la settimana prossima, ogni domenica, noi ritorniamo a questa fonte, state certi che la nostra vita ne sarà trasformata, che anche la nostra croce potrà diventare luminosa, che anche i nostri rapporti si fonderanno su gesti nuovi e stili nuovi.
Il Signore risorto accompagni i nostri passi di risurrezione e di vita, oggi e sempre.

venerdì 19 aprile 2019

Omelia per il Venerdì Santo - Su scravamentu

«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».

Certo, tu l’avevi detto... e noi immaginiamo la felicità come un eterno salire. Noi pensiamo che la strada del successo sia un’ascesa, appunto, una scalata fino al gradino più alto. E su questo basiamo la nostra vita. Non desideriamo più essere quel che siamo. Ammantiamo i nostri desideri insani di progresso, lo chiamiamo miglioramento delle condizioni, perché, certo, diciamo che vorremmo che i nostri figli vivessero meglio di noi. E così le vecchie generazioni che non poterono andare a scuola fecero sacrifici enormi perché almeno alcuni dei figli potessero diplomarsi o laurearsi. E va bene.
Ma ora quale sarà il prossimo passo? Quale sarà il prossimo scalino che vogliamo far salire ai nostri figli?
Vedete come è diversa la promessa di Cristo: il suo innalzamento non è glorioso, non è un miglioramento. È piuttosto una ostensione, cioè un metterci davanti la realtà: la sua morte, la morte del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo.
Quell’innalzamento lui lo chiama “gloria” e noi non possiamo sopportarlo, perché per noi la gloria è ricevere un premio, una medaglia, un aumento di stipendio, o fosse anche un encomio o un minimo ringraziamento. Per noi la gloria è costruire pinnacoli e torri altissime, e dare il nome a invenzioni che migliorano e semplificano la vita, e dare il nostro nome alle strade del paese. 
Ma che gloria c’è sulla croce?
Noi non sospettiamo minimamente che la tua gloria sia stata quella di scendere Tu al nostro livello, quella di posarti e camminare sulla nostra stessa terra, di amare con cuore d’uomo, di accarezzare i bambini, di donare speranza agli ammalati, di mostrarci il volto del Padre nel tuo abbraccio perdonante.
Noi ne abbiamo paura di un Dio così semplice, di un Dio così terra terra. Di un Dio che muore noi abbiamo tremendamente paura, perché in lui vediamo la nostra stessa impotenza davanti alla morte.

Soprattutto in lui vediamo un uomo che continua ad amare, e noi ci spaventiamo davanti a chi ama gratis, a chi salva gratis, a chi non vuole dimostrare nulla, ma ama fino alla fine. Lo guardiamo quasi come un extraterrestre. Noi ci spaventiamo davanti alla semplicità, all’ingenuità, alla purezza. 
Noi soprattutto non possiamo sopportare il dolore. Noi sprechiamo il dolore e la sofferenza, cercando il modo di abbreviarli. Non riusciamo a trapassarli. Ecco perché ci spaventiamo davanti a questo “spettacolo”, a questo dolore, a questa passione, a questa morte: perché in esso vediamo tremendamente realizzati e amplificati tutti i nostri dolori, tutti i dolori di questa umanità che non smette mai di soffrire.
E ci chiediamo: A che serve soffrire? Perché soffrire? Da stolti quali siamo abbiamo persino sviluppato teorie sulla sofferenza, dicendo che la sofferenza salva, purifica, redime.
Ma davanti a te, Signore crocifisso e benedetto, ci rendiamo conto che i nostri vaneggiamenti si annullano. Tu non hai fatto teorie sulla sofferenza. Tu hai sofferto. Tu sei stato lì, nella sofferenza, a occuparti di chi ti crocifiggeva, di chi era crocifisso insieme a te, di chi ti vedeva crocifisso. Tu hai patito rimanendo uomo, ed è per questo che noi guardiamo a te con speranza. Perché non sei fuggito, e ci insegni a non fuggire, a non sfuggire alla vita, ma a viverla, perché alla fin fine questo soltanto conta: l’intensità della nostra vita. E allora scopriamo, non come una teoria, ma sulla nostra pelle, che esistono dolori che guariscono, come esistono gioie che ammalano.

E allora anche il nostro dolore ci appare più sopportabile, perché unito al tuo, unito a quello di tanti fratelli e sorelle che soffrono nelle nostre case, che soffrono per la mancanza di amore, di speranza, che soffrono per la guerra, la persecuzione, la privazione dei loro diritti. 
Tutto è già qui, sulla croce, nel tuo dolore, Signore Gesù. Non farci fuggire dal dolore.
(Giuseppe nel mentre si pone davanti alla croce, insieme al suo servo)
Vengono avanti due uomini. Sono tra i più paurosi di tutti. Sono persone importanti. Giuseppe è ricco, è un membro del sinedrio, è una persona che conta. L’evangelista Giovanni ci dice che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per paura dei Giudei. Eppure ancora san Luca ci dice che non aveva aderito all’operato del Sinedrio. Lui non ti ha giudicato stanotte, Signore!
Ecco qui la differenza, davanti a te, Signore. Noi abbiamo paura molte volte nella vita, abbiamo paura di essere messi in discussione, abbiamo paura di dire qualcosa che scontenta gli altri perché temiamo le conseguenze. Siamo pusillanimi quando temiamo di perderci la faccia, di perdere il buon nome, di perdere la considerazione dei più.
È la differenza che facciamo anche quando ci confessiamo: noi diciamo, un po’ come i bambini: Non lo faccio più. Ma dovremmo dire: mi oppongo!
Questa è la vera lotta contro il male.
Piangiamo qui oggi perché vediamo uno, il Figlio di Dio, che ha detto: io mi oppongo al male. E mi oppongo con la forza irresistibile dell’amore. Perché questo è il vero pentimento. Il vero pentimento non è indossare il cilicio, il vero pentimento non è fare penitenze. Il vero e perfetto pentimento è amare di più, amare ancora una volta!

O Gesù, ma quant’è che abbiamo disatteso questo tuo comandamento dell’amore! Forse tu, Giuseppe di Arimatea lo hai capito, sei andato coraggiosamente da Pilato a chiedere il corpo del tuo maestro e gli hai dato la tua tomba, una tomba bella larga, spaziosa, scolpita sotto un giardino. (Nicodemo e il servo vanno di fronte alla croce)
E poi ci sei tu, Nicodemo, discreto amico delle nostre notti di domande che non trovano risposta, condiscepolo del nostro desiderio di uscire allo scoperto e della nostra impossibilità di elevarci da soli, caro compagno dei nostri dubbi di fede, delle nostre incapacità di comprendere cosa significhi rinascere, mesto sodale del nostro tarparci le ali da soli, di noi che siamo così attaccati al si è sempre fatto così, che temiamo la novità di vita perché pensiamo sia una fregatura, che pensiamo che sia meglio prendersi il sicuro e ci evitiamo la fatica di esplorare terre sconosciute.
Oh Nicodemo, come ti sentiamo vicino, fratello nostro, amico nostro, compagno nostro.
Eppure, eppure... anche tu sei lì questa sera, al Golgota a schiodare Gesù, a toglierlo da quella fissità dove stai tu stesso. Non ti rendi ancora conto che schiodando lui, finalmente stai schiodando te stesso, ti stai dando la possibilità di lasciar fare a Dio, ora che gli uomini hanno già fatto tutto: hanno accusato, hanno giudicato, hanno condannato e crocifisso, hanno ucciso.
Ora compi quest’ultimo atto di uomini e chiudi Gesù nel sepolcro, perché attenda l’azione di Dio, perché sia risollevato dal sonno della morte, perché rinasca dall’alto, e trascini a vita nuova, finalmente, anche te e anche noi.
Nessuno è mai salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo: questa verità ora la comprendi, la schiodi dal legno, la prendi sulle tue spalle, la adagi su una lettiga e la porti al sepolcro.

Vengono in loro aiuto due giudei.
Prima di iniziare il pietoso compito si inginocchiano in preghiera ai piedi della croce. “Solo con mani innocenti e cuore puro oseranno toccare il corpo del Signore.”
(Silenzio di preghiera, breve pausa di silenzio)
Silenzio. Perché solo nel silenzio parla Dio. Anche qui, che illusi siamo! Pensiamo che Dio parli nelle parole, spesso nelle nostre parole maldestre e insufficienti. Ma ogni partenza si fa da fermi, ogni fuoco è acceso da qualcosa che fuoco non è. Ogni parola nasce da qualcosa che parola non è: dal silenzio, appunto.
Noi, uomini scientifici del XXI secolo, del terzo millennio, homo tecnologicus ci siamo autobattezzati, self made man, uomini che si fanno da soli, pensiamo che il silenzio sia un lusso che non ci possiamo permettere, un lusso da monache di clausura, pensiamo che sia necessario andare, parlare, fare, muoversi. Che solo chi parla più forte vince.
Non sospettiamo minimamente l’illusione che si nasconde dietro questo nostro agitarci. Ma oggi siamo costretti a fermarci, come ci fermiamo quando ci muore una persona cara, e abbassiamo le serrande, e ci assentiamo da lavoro. Oggi siamo costretti a fermarci, davanti all’Uomo che muore. Tu ci raccontasti una volta di un Samaritano che si fermò anche lui davanti all’uomo lasciato moribondo sulla strada verso Gerico...
Siamo costretti dall’insuperabile carica di patimento a fare silenzio, cioè a fare i conti con la voce di Dio che parla in quest’Uomo, maledetto, contato tra i malfattori, fatto peccato, sputato, deriso, flagellato.
Siamo costretti a fare i conti con la potenza tremenda del male. Ammutoliamo fratelli e sorelle, perché davanti al male non abbiamo parole. Ma questo silenzio, dicevo, è l’occasione che Dio ha di parlarci, di parlarci nel suo Figlio, non attraverso miracoli o segni, non attraverso discorsi, ma attraverso il suo corpo benedetto. Il suo corpo umano!
E allora ci rendiamo conto di come noi stessi abbiamo rinunciato a questo linguaggio. Non sappiamo toccare con castità, non sappiamo accarezzare con purezza, non sappiamo baciare con tenerezza, non sappiamo guardare con amore. Talvolta sembriamo lupi rapaci, assetati di possedere gli altri, le loro idee, le loro cose, i loro corpi.
Il silenzio ristabilisce la distanza giusta dove riconsiderare i nostri rapporti. Solo davanti a te, Signore crocifisso, noi possiamo confrontarci con il profondo abisso del male e con l’abisso ancor più profondo della misericordia che si incunea in esso, sfondandolo.
Ora Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, salite a deporre dalla croce il corpo Santo del Salvatore del mondo. (Salgono i gradini della scala)

Dicono che la tua corona di spine sia custodita nella Cattedrale di Notre Dame e che si sia salvata dall’incendio che ne ha devastato il tetto. Noi ne abbiamo fatto una reliquia, per aumentare la nostra devozione alle tue piaghe. Qualcuno che si sia preoccupato dell’eucaristia conservata nel tabernacolo? Certo, un’opera d’arte è un’opera d’arte, una reliquia è una reliquia...
Ma il tuo corpo! Dio fatto uomo, tre volte santo, il Tuo Corpo benedetto!
E noi facciamo sempre così, scambiamo l’involucro per il contenuto.
Togliamo la corona di spine dalla tua statua, e la mettiamo in capo ai nostri fratelli.
Che grandi ipocriti siamo! Oh Signore, perdonaci, non disgustarti ancora se abbiamo scambiato la fede in te con dei gesti teatrali. Facci comprendere la forza misteriosa dell’amore che accetta di farsi scambiare per un Dio ridicolo, da farsa, che accetta di essere il protagonista di uno spettacolo per far ridere i soldati, ma non torna indietro dall’amore.
Ricordaci, con la tua corona di spine, che non ci è mai lecito scambiare qualcosa per qualcuno. Che nessun possesso è più grande di un rapporto tra persone, che nessuna apparente religiosità ci immunizza dalla freddezza e dalla cattiveria nei confronti degli altri.
Giuseppe d’Arimatea togli dal capo di Gesù la corona di spine e mostrala a tutti noi. (Toglie e mostra la corona di spine) (la consegna al servo e il servo la consegna alla Maddalena)
Giuseppe consegna la corona di spine al giudeo, perché la consegni alla Maddalena che la presenta alla Madre addolorata. (prende e presenta a Maria)
Nicodemo toglierà il chiodo della mano destra, la tua mano inerte penzolerà dalla croce. Che scena, Signore, la morte. Un corpo inerte, le braccia inerti, movimenti che non affrontano più la forza di gravità. È incredibile pensare come solo i vivi stanno in piedi: combattiamo ogni giorno contro la forza più misteriosa di cui siamo fatti: quella che ci attrae verso il basso. Ma da morti, improvvisamente cadiamo, ci afflosciamo, la forza ci abbandona. Così è della tua mano inchiodata: la forza l’ha abbandonata. La forza taumaturgica, la forza risanatrice, la forza dirompente della tua santa mano non c’è più. Dio è improvvisamente debole ora. Se la mano è l’organo del “fare”, ora dobbiamo dire che Dio in te non può più fare nulla. La forza di Dio è stata trapassata da un chiodo.
Nicodemo togli il chiodo dalla mano destra e mostralo a tutti noi.
(Batte con il martello e toglie il chiodo e lo mostra)
Nicodemo consegna il chiodo al giudeo perché lo deponga ai piedi di Maria nostra Madre Santa. (La Maddalena porta il chiodo ai piedi di Maria)

Ora anche l’altra mano viene schiodata e ricomposta. Noi usiamo congiungere le mani dei nostri cari defunti e intrecciarle con la corona del rosario, con un fiore, in un gesto estremo di preghiera. Le componiamodiciamo.
Ed ecco, anche con te facciamo lo stesso, schiodiamo le tue sante mani, le tue mani venerabili che hanno fatto passare il pane e il calice ai discepoli, che hanno offerto il perdono, che hanno risanato.
Tutto ci suona sinistro oggi, sinistro come un presagio. Quelle mani torneranno a benedire? Torneranno a guarire, a salvare, a offrire? O resteranno ormai immobili per sempre?
Noi sappiamo come va a finire la storia, certo... in conclusione ci sembra una favola a lieto fine. Ma avere il coraggio di stare su quelle mani, avere il coraggio di stare davanti a Dio crocifisso. Avere il coraggio di stare nell’inazione, nell’incapacità di agire. Fermarsi un momento per cercare in quelle mani trafitte il senso del nostro agire e il senso della nostra impossibilità a farlo. Spesso vorremmo fare di più, diciamo. Ma il confronto è sempre molto ristretto: ci confrontiamo con uno standard religioso che è tutto nella nostra testa. Tu ci salvi nel momento della tua massima debolezza, tu ci guarisci quando le tue mani non possono più guarire. Lo capiamo questo? E soprattutto, accettiamo di dire e di credere, con San Paolo che il Signore dice anche a noi: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.


Giuseppe d’Arimatea togli il chiodo dalla mano sinistra e mostralo a questo popolo. (Batte il martello e mostra il chiodo)
Giuseppe consegna il chiodo al discepolo che lo passa alla Maddalena, perché lo deponga ai piedi della Santa Madre Addolorata. (Porta il chiodo)
Aveva ragione Maria di Betania, profumandoti i piedi con trecento libbre di nardo prezioso e asciugandoli con i suoi capelli: sapeva misteriosamente che dopo le sarebbe stato impedito, e ha voluto anticipare la tua sepoltura. Ora quei piedi sono sporchi, hanno camminato sulla via del Calvario, sono incrostati di sangue rappreso, sono forati. Il gesto dello schiavo che tu hai fatto ai tuoi discepoli, non hai voluto che loro lo facessero a te: degli uomini che rischiano di pensare che leccare i piedi al potente sia un modo per ottenere il potere a loro volta. Hai voluto che te lo facesse una donna, quel gesto, con tutta l’ambiguità che uomini dall’occhio malato ci hanno visto, che te lo facesse una donna, per scialacquare amore, non per dimostrare sottomissione.
Stasera noi ti ringraziamo per tutte le persone, donne e uomini, che rifiutano i segni del potere e offrono il dono di un amore senza misura.
E ti chiediamo di aiutarci a essere così, discepoli tuoi che ci chiedi ancora una volta non di lavarti i piedi, ma di lavarceli noi, gli uni gli altri. E ci dici che questo è il vero modo di schiodarti dalla croce: schiodando i piedi degli altri, lavando i piedi degli altri, servendoli fino alla fine, con scialacquio di forze e di beni, con scialacquio di amore.

E ora Nicodemo togli il chiodo che ha trapassato i piedi di Gesù e mostralo al popolo. (Batte sul chiodo, lo toglie e lo mostra)
Ed ecco il corpo del reato! In ogni crimine che si rispetti c’è sempre un corpo del reato. Qual è stato il tuo crimine? Per cosa sei stato condannato? Perché – dicevano – ti sei fatto Dio, hai detto di essere Dio. Ed ecco allora quel corpo, ecce homo, ecco l’uomo, ogni uomo, nel quale si riverbera una scintilla di Dio. Fatti a tua immagine!
La prova del tuo reato, per il quale sei stato condannato, sei tu stesso. L’evidenza del tuo amore è qui davanti a noi, è il tuo corpo.
Perché tu non hai fatto qualcosa, ma piuttosto sei stato qualcuno: questo era insopportabile per loro, e talvolta anche per noi, che scambiamo il mezzo con il fine, il fare con l’essere. È insopportabile che tu non ci doni cose, ma ci offri te stesso. La natura di Dio è quella di uscire continuamente da sé stesso, come se non gli bastasse il suo amore che pure basta a sé stesso, se non può parteciparlo alle sue creature deboli e fragili.
Noi vogliamo te, vogliamo seguire te, non vogliamo qualcosa, non vogliamo dei doni, non vogliamo dei miracoli. O forse sì, vogliamo anche questi. E tu aiutaci allora, Signore, aiutaci a fare quel piccolo passo che supera la cornice dei doni e delle cose, per vedere il datore di questi doni. Aiutaci a fare sempre quel movimento del cuore che sa riconoscere dietro ogni dono, quello che tu sei per noi.
Mistero grande della fede!

Discepoli del Signore calate ora dalla croce il corpo privo di vita di Gesù e mostratelo all’assemblea. (calano il corpo)

ANIMA CHRISTI, SANTIFICA ME
CORPUS CHRISTI, SALVA ME.
SANGUIS CHRISTI, INEBRIA ME
AQUA LATERIS CHRISTI, LAVA ME.


Passio Christi, conforta me.
O bone Iesu, exaudi me.
Intra vulnera tua absconde me.RIT.

Ne permittas a te me separari.
Ab hoste maligno defende me.
In hora mortis meæ voca me.RIT.

Et iube me venire ad te,
ut cum sanctis tuis laudem te
per infinita sæcula sæculorum. Amen

Ed ecco ancora una volta svelato a noi corporalmente che per entrare nel Regno bisogna diventare bambini. Vieni messo sul lettino, come un tempo fosti adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce che già prefiguravano le bende del sudario di morte. Ora, nuovamente, sono altri che ti adagiano, è tua madre che compone un attittidu,come allora ti cantava la ninna nanna. E chi meglio di una donna, può conoscere il dolore del parto e il dolore della morte? E chi meglio di lei può cantare con tenera pietà la grandezza enorme del male, e la segreta speranza che non tutto è stato vano, che la tua morte vera attende una parola risolutrice dal Padre, che non vuole la morte del giusto, che non ha voluto neanche la tua morte, ma ha voluto che si trovasse qualcuno fedele sino alla fine, qualcuno amante sino alla fine, qualcuno che potesse mostrare a ogni uomo e a ogni donna, come si è figli amati, come si ama davvero fino alla fine.
Vieni, dolorosa,
Mater Dolorosa delle angosce dei timidi,

Turris Eburnea delle tristezze dei disprezzati,
fresca mano sulla fronte febbricitante degli umili,
sapore d’acqua di fonte sulle labbra riarse degli stanchi. (Pessoa)
Ricevi ora anche tu i segni della passione, quelli che già hanno trafitto il tuo cuore di Madre.
Ricevi il tuo stesso Figlio amato.

Contemplalo, perché certo tu più di tutti conosci il suo patimento. E tu più di tutti hai speranza anche per noi, crocifissi nel peccato, per noi violenti, per noi calunniatori, omicidi del nostro fratello. Tu più di tutti hai speranza per noi, o Madre di speranza.
Sei disteso su un letto di morte. Ma noi attendiamo; nel pianto, certo. Ma noi attendiamo che ancora il Padre compia la sua volontà.
(Gesù viene portato nel lettino, pronto per la processione)

(Scena della Maddalena e Giovanni)