C’è
un momento della vita, forse a causa di una grande gioia, o di un
grande dolore, di una nascita o della morte di chi ci è caro, della
perdita di tutto, o di una grande conquista personale, in cui forse
per la prima volta in modo serio ci chiediamo: Che
cos’è la morte? Che cos’è la vita? Che cos’è la fede?
E
allora occorre rimanere fedeli a questa domanda, abitarla, non andare
subito alla risposta preconfezionata, non accontentarci di quello che
abbia sempre sentito, o di una definizione letta su qualche libro,
fosse anche il catechismo o la Sacra Scrittura...
Se
siamo fedeli alla potenza e alla durezza di domande simili, la
liturgia di stanotte interviene proprio allora, perché ci apre uno
spiraglio per tentare di dare la nostra personale risposta: Che cos’è
la mia
vita? Che cos’è la mia
morte? Che cos’è la mia
fede?
Stanotte,
il buio è stato squarciato non da un sole accecante, ma da una luce
fioca: la
fiammella di un cero.
Il
silenzio è stato rotto non da un fiume di parole, ma da una parola
per certi versi incredibile: Non
abbiate paura, Gesù, il crocifisso, è risorto, non è qui!
Eppure
quella luce fioca, quella parola incredibile hanno trapassato il
tremendo confine della morte, della distanza tra Dio e uomo, e ci
aiutano a dare una risposta a quelle domande che facevamo all’inizio.
Non però una risposta fatta di parole, ma con l’aprire la bocca,
esclamando: «Oh!»
Sì,
carissimi fratelli e sorelle: stanotte non si tratta di imparare
dottrine, di conoscere definizioni, ma di aprirci
allo stupore di una realtà sulla quale noi non abbiamo nessun
controllo: la nostra vita e la nostra morte.
Si
tratta, stanotte, di lasciarci guidare, di lasciar vincere la nostra
superstizione, la nostra chiusura, il nostro razionalismo da ciò che
non possiamo neppure immaginare: che quell’uomo che abbiamo
contemplato morto, appeso a un patibolo, è risorto, è vivo, vuole
incontrarci, vuole parlarci, vuole darci speranza e fiducia nella
vita.
Noi
siamo abituati a pensare alla nostra fede attraverso le categorie di
pena e di premio, costruiamo tutta la vita in base alla meritocrazia,
vorremmo tenere tutto sotto controllo, e poi non ci rendiamo conto
che la morte è dietro l’angolo. L’indescrivibile e
incontrollabile provoca in noi terrore, come nelle donne che vanno al
sepolcro e poi tornano a casa e non dicono nulla.
Perché
chi va a dirlo ora ai discepoli e a Pietro che Gesù
si è alzato?
Una parola così semplice, persino banale, alzarsi,
proprio come si fa ogni mattina: questa parola ci consegnano i
vangeli! Così banale da doverne coniare una un po’ più elevata,
risorgere.
Cos’è
dunque, questo alzarsi di Gesù dalla tomba? Cos’è la
risurrezione?
È
Dio che pone fine per sempre al pensiero che bisogna
meritarsi Dio,
che bisogna guadagnarselo, ingraziarselo in qualche modo, facendo
sacrifici (Abramo / Isacco; Padre / Figlio), che bisogna calmare la
sua presunta ira nei confronti dell’uomo.
È
Dio che dice a ciascuno di noi: Lo
capisci o no che io voglio semplicemente che tu viva?
Che te l’ho dimostrato attraverso mio Figlio, rialzando lui, ma
voglio dimostrarlo anche in te, in voi, perché da oggi possiate
camminare in una vita nuova?
Cosa
rende allora la vita degna di essere vissuta?
I
soldi? La salute? Un buon lavoro? Una persona da amare?
Ma
che me ne faccio di tutte queste cose se non so perché ce le ho, se
non ho scoperto il senso della vita? Niente potrà darmi la felicità,
se non so per cosa essere felice, che scopo ha la mia esistenza.
Questa
notte ci apre uno squarcio di luce proprio su questa domanda. Ci
spinge a chiederci che senso ha la nostra vita, a partire da una
piccola fiamma, da un semplice invito a non aver paura, da un invito
a seguirLo, a seguire Colui che si è rialzato della morte, perché
egli ci aprirà quel senso, ci darà una famiglia, la sua Chiesa,
povera e peccatrice, perché fatta di uomini e non di angeli, di
persone in cammino non di gente perfetta, in cui cercare il senso di
chi siamo e di cosa ci facciamo su questa terra.
E ci
darà la forza e la perseveranza per
dare senso a ogni cosa che facciamo,
per dare senso a ogni croce che dobbiamo portare sulle spalle, per
illuminare tutte quelle situazioni che sono ancora nel sepolcro, le
guerre, le violenze di uomini contro altri uomini, le sopraffazioni,
perché ci mostrerà che ognuno di noi può fare la sua parte, e
quando abbiamo scoperto il senso della nostra vita, ognuno di noi
farà la sua parte, da prete, da laico, da padre, da moglie, da
figlio, da vedova, non importa che sia piccola come una candelina
come quelle che abbiamo stasera.
Può
darsi che stanotte siamo venuti qui per soddisfare un precetto, per
toglierci un dente, perché in fondo a Pasqua bisogna pur andare a
Messa...
O
forse appunto per
tenere a bada Dio,
per dirgli: Ecco,
sono tornato dall’anno scorso, vedi di star buono ancora per tutto
l’anno prossimo.
In
fondo pensiamo di calmare la nostra angoscia controllando i nostri
affetti, controllando i nostri desideri, il tempo, la nostra salute,
programmando e organizzando tutto, affinché nulla ci sfugga.
Controllando anche Dio.
Ma
ci sbagliamo. La realtà è che noi ci illudiamo di controllare, ma
non abbiamo il controllo di niente, meno che mai della nostra vita.
Io posso morire stanotte stessa!
No,
non siamo venuti a tenere sotto controllo Dio, e neppure a fargli un
favore, facendo un piccolo sacrificio a lui nell’offrirgli due ore
del nostro preziosissimo tempo: siamo venuti qui a ricevere nel
nostro buio, nella nostra paura, nel nostro silenzio incapace di
esprimersi, forse anche nel nostro odio e risentimento verso
qualcuno, una piccola luce, una piccola parola: Non
temere! Io ho fiducia in te, voglio donarti l’ebbrezza della
libertà di amare senza controllo, di smetterla di misurare.
Smettila
di voler tenere tutto sotto controllo: ti sfuggirà di mano!
Accetta
invece la logica del morire per vivere, del donarti per risorgere a
vita nuova.
Lascia
che quel sepolcro si svuoti, che Gesù si alzi anche nella tua tomba,
perché tu possa seguirlo, non solo in queste due ore, ma in ogni
istante della vita.
Perché
anche tu possa diventare un suo discepolo!
Stanotte
torneremo a casa con questa domanda: Che
senso ha la mia vita, Signore Gesù?
E se questo ci spaventa, riprendiamo in mano quella candela, ogni
notte, domani, dopodomani, accendiamola e lasciamoci illuminare da
quella parola che abbiamo appena ascoltato: Non
temete, andate, egli vi precede!
Perché
egli sta sempre davanti a noi. Il crocifisso si è rialzato. Non è
qui. Andate!
Conosciamo
tutti la gravità di una sera come questa: penso che tutti abbiamo
avuto nella vita almeno una volta un lutto grave, di un parente, di
un genitore, di un figlio, di un fratello, di un amico. Conosciamo
tutti lo schianto e l’annientamento di situazioni simili, il
pianto, l’incapacità di parlare, il rivivere quegli ultimi istanti
e raccontarli solo con tante lacrime anche dopo molti anni... Tutto
questo non è lontano dalla nostra esperienza.
Così,
quando il Vangelo ci parla di perdono, possiamo essere un po’
scettici perché spesso facciamo difficoltà a perdonare; quando ci
parla di preghiera non capiamo bene perché neanche noi sappiamo
pregare; ma quando ci parla del dolore stiamo ad ascoltare, perché
conosciamo bene questa realtà. (Eb
4-5)
In
tutte le chiese del mondo oggi e domani si fa memoria della morte e
della sepoltura di Nostro Signore Gesù Cristo: non è un semplice
anniversario, come quello per ricordare i nostri morti. Noi ne
facciamo memoria attraverso alcuni elementi:
il racconto di ciò che avvenne, l’adorazione della croce e
l’eucaristia condivisa.
Il
racconto di ciò che avvenne.
Gli esperti ci dicono che i
vangeli sono come una grande introduzione al racconto della Passione
di Gesù, che occupa una parte consistente di ognuno di essi: da un
punto di vista quantitativo, la maggior parte del testo di ogni
singolo vangelo racconta la Passione di Gesù: una
settimana su trent’anni.
Perché? Certamente perché i discepoli e le prime comunità
cristiane hanno riconosciuto che in quelle poche ore, tutta la vita
di Gesù trovava come il suo senso e la sua consacrazione: come se
tutto ciò che egli aveva fatto, passando facendo del bene e
guarendo, trovasse compimento nella sua morte. E questa è una cosa
un po’ strana, perché in effetti la morte pone fine alle nostre
azioni, e noi diciamo con il buon senso, che la nostra vita si gioca
quando siamo vivi, non quando stiamo morendo.
Con
Gesù però è accaduta una cosa non trascurabile: i discepoli hanno
visto nel suo arresto, nel suo processo, nella sua condanna, nella
sua morte così ingiusta, un
segno definitivo.
Raccontandoci con tanta attenzione la Passione ci dicono: Ecco
per cosa è venuto Gesù: non
solo per predicare il regno di Dio con parole e con segni e miracoli,
ma finalmente per predicarlo
con la sua stessa vita, con il suo stesso corpo.
Non più parole o azioni, ma sé
stesso. Egli
è diventato in qualche modo la spiegazione
di ciò che ha predicato e dei miracoli che ha compiuto nella sua
vita. E lo è diventato nel momento in cui la parola gli veniva
difficile da pronunciare, e le azioni impossibili perché inchiodato
sulla croce.
Il
paradosso di Gesù di Nazaret sta qui: egli
è Dio nel momento in cui appare come un semplice uomo condannato a
morte tra malfattori, debole e sfortunato, inguardabile e
riprovevole. (Is
52-53)
Così
comprendiamo il senso delle sue parole, quando aveva detto che è
necessario che il chicco di grano sia gettato a terra e muoia per
fare frutto, o quando aveva
detto: beati i perseguitati a
causa della giustizia, o
quando ancora disse: Non c’è
amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici.
Le
parole dell’evangelista Giovanni relative alla sua venuta nel
mondo, «Il verbo si fece
carne» possiamo applicarle
anche all’evento della croce nei vangeli: «Il
racconto si è fatto persona»,
e quella persona è appesa alla croce. San Paolo, rivolgendosi ai
Corinzi dirà: «Quando venni
tra voi io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù
Cristo, e Cristo crocifisso».
E
questo è ciò che vorremmo anche per noi stessi: che la nostra vita
a un certo punto, arrivasse a maturazione non attraverso delle belle
parole che siamo capaci di dire, o dei bei gesti di bontà che siamo
capaci di fare, ma in tutto noi
stessi, nelle nostre fibre più
profonde e intime, persino in quelle cose che non siamo capaci di
esprimere con parole o con fatti.
Arriva
un momento in cui vorremmo non
solo fare delle cose buone, ma
essereamore,
essere completamente inondati dalla bontà, dall’amicizia, essere
trasparenti, con tutto noi stessi: fiorire!
Ecco
dunque perché il racconto: perché quell’evento parli anche
a noi oggi, perché quelle parole testimoniano un evento compiuto
nella vita di Gesù che è in grado di illuminare il nostro presente,
la nostra vita, di trasformarla persino!
[Amico,
basta oramai. Se vuoi leggere ancora,
Va’
e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza.
(Angelus Silesius)]
L’adorazione
della croce. Per lunghi secoli
i cristiani, che pure dipingevano le tombe, non rappresentarono la
croce, se non sporadicamente. Essa era un simbolo troppo cruento,
perché ancora per molto tempo veniva usata come patibolo: gli
storici affermano che la croce era una forma di condanna a morte
infamante, riservata agli schiavi e agli stranieri, non ai cittadini
romani. Negli occhi e nel cuore di tante persone, l’impressione
della croce richiamava la macabra usanza romana, la loro violenza, il
sangue e il dolore, la persecuzione.
George Roualt - Pierrot (immagine di Cristo umiliato)
Il
Venerdì Santo noi adoriamo la croce, cioè le riserviamo un gesto di
tenerezza, un bacio o una carezza. Perché
diamo un bacio a uno strumento di morte?
È come se il figlio di un condannato alla fucilazione baciasse la
pistola del soldato che ha dato il colpo di grazia: è
contraddittorio.
Sì,
in un certo senso lo è. La croce ci mostra l’uomo che decreta
l’inutilità dell’uomo, dell’innocente soprattutto, tanto da
ucciderlo. Dio aveva detto vedendo la sua creatura: «è
cosa molto buona». Ma l’uomo vedendo il suo simile dice:
Uccidiamolo! Il
mondo è pieno di croci!
La
croce ci dice che Dio resiste alla violenza dell’uomo sull’uomo,
accettando di assumerla in prima persona:
la croce è l’unica vera resistenza possibile al male.
Ecco perché occorre prenderla e portarla, dietro di lui: per essere
più umani! Da strumento di morte, essa è diventata quello che
nessuno avrebbe potuto immaginare: il modo per ricondurre gli uomini
a Dio dando la propria vita, consegnandosi in totale affidamento al
Padre alla desolazione della morte.
Così
noi possiamo adorarla senza essere masochisti, e senza adorare la
sofferenza che quella croce ha causato: in essa ci è dato di vedere
quanto Dio ha amato il mondo, fino a donarci il suo unico Figlio.
Perché quella croce,
e a partire da essa ogni croce,
ci ricorda che essa non è l’ultima parola sulla nostra vita, ma la
penultima. Che l’ultima parola sulla nostra vita ce l’ha Dio, ed
è una parola di risurrezione.
Cattedrale di Ales
L’eucaristia
condivisa. Il terzo segno che
faremo questa sera è ricevere l’eucaristia che è stata consacrata
ieri, Giovedì Santo. In quella sera nella quale Gesù fu tradito
egli non volle lasciare soltanto un souvenir di sé stesso, come una
fotografia o un testamento, ma un
rito attraverso il quale poter
entrare in comunione con lui non solo con la nostra memoria, ma
spiritualmente e materialmente. E questo rito è l’Eucaristia, la
celebrazione del suo dono d’amore attraverso un cibo, del pane e
del vino, che ci permettono di partecipare alla sua morte e
risurrezione.
L’eucaristia
è il modo che Egli ci ha donato, che egli ha voluto e desiderato,
per personalizzarci il suo amore: amore sproporzionato e non
necessariamente reciproco.
Pensiamo
alle nostre relazioni: quando abbiamo amato qualcuno senza esserne
ricambiati, quanta frustrazione abbiamo sperimentato? Quanto
imbarazzo? Come per gli adolescenti, quando si fidanzano “ma lei
non lo sa”...
Eppure
Dio è così: in lui c’è il desiderio estremo di incontrare questa
sua umanità, di incontrare noi, ciascuno di noi... e noi il massimo
che ci sentiamo di fare, sovente, è dire: «Ma sì, dai, oggi è
domenica, dedichiamogli un’oretta, ma sbrighiamoci! Ho cinque
minuti: preghiamo un po’, che poi ho altro da fare».
Potrebbe
darsi che noi non abbiamo desiderio di Dio, fame di Dio, ma soltanto
di cose molto ordinarie: un lavoro, la salute, una famiglia, degli
amici.
Se
proviamo a essere autentici nei nostri desideri, pian piano
sperimenteremo una sete più grande, un desiderio più forte: di
senso, di significato anche per quei nostri piccoli desideri
ordinari. Perché, come dicevamo prima, non solo qualcosa di noi, ma
tutta la nostra vita fiorisca!
Stasera
siamo qui allora, perchè tutto questo, tutta la vita, tutto il male,
tutto il dolore del mondo, trovi senso a partire da questo
racconto che si rende presente in mezzo a noi in Gesù Cristo,
attraverso questa croce che ci pone davanti la misura
dell’amore, e ricevendo l’eucaristia, che ci alimenta per
dirci il desiderio che Dio ha di noi, perché anche noi possiamo
desiderare lui nella nostra vita.
Solo
un amore così, l’amore di Gesù crocifisso, amore sino alla fine,
può dare speranza anche alle nostre disperazioni, alle nostre
delusioni, alla nostra croce. E così sia.
Entriamo
con questa celebrazione nel mistero di quei giorni che cambiarono la
storia.
Lo
dico senza troppa enfasi, perchè non si tratta di fare affermazioni
di trionfo: Cesare che varca il Rubicone, Napoleone che invade
l’Europa, la Marcia su Roma... ci sono stati degli eventi storici
molto appariscenti, molto “forti”, che hanno mutato
effettivamente il corso degli eventi da quel momento in poi...
Ciò
che accadde a Gerusalemme nella Pasqua degli anni 30 del primo
millennio non fu niente di così eclatante: agli occhi degli storici
poteva sembrare al massimo una sommossa sventata e la condanna di un
uomo per sedizione, con l’immediata dispersione dei suoi discepoli.
Eppure
in quella notte, che noi oggi ripetiamo nei gesti, e nella successiva
liturgia del Triduo, noi crediamo che sia accaduto qualcosa di così
speciale che ha portato una luce nuova sul senso della storia e della
nostra vita.
Se
vi sembrano parole strane, chiedetevi e chiediamoci: perchè
siamo qui oggi?
Cosa
ci ha attratto, cosa ci spinge a partecipare alle celebrazioni di
questi santi giorni?
Forse
per qualcuno può essere l’abitudine, il ricordare un’atmosfera
antica di famiglia, una certa commozione che ci prende nel vedere i
nostri bambini sui quali tra poco, come Gesù allora, ripeterò il
gesto della lavanda dei piedi.
Ma,
o cerchiamo di entrare nel senso profondo del Giovedì Santo, oppure
anche oggi usciremo da qui come ci siamo entrati.
Allora
chiediamoci: cosa
stiamo facendo?
Stiamo
facendo memoria della cena pasquale nella quale Gesù ha offerto sé
stesso ai suoi discepoli, e alla moltitudine, per mostrare loro
quello che sarebbe accaduto il giorno successivo.
In
quella notte nella quale Gesù venne consegnato, egli volle lasciare
ai suoi discepoli, fino al suo ritorno, un segno della sua presenza.
Perché
noi abbiamo bisogno di segni: non ci bastano i sentimenti, non ci
bastano le parole. Spesso i sentimenti sono fugaci, e le parole
rischiano di essere un’esperienza soltanto intellettuale.
Perciò
Gesù ci lascia un segno:
un pasto, un evento così normale per noi, ma diventato speciale da
quel momento in poi.
Un
segno che trova origine nella volontà di Gesù:
l’evangelista Luca ci ha tramandato la sua parola iniziando la
cena: «Ho desiderato
con tutto me stesso di mangiare questa pasqua con voi prima che io
soffra»:
èstato
un esplicito desiderio di Gesù. E il vangelo di oggi ci ha ricordato
che in quella sera Gesù
ha amato i suoi fino alla fine,
cioè in una misura unica, totale e definitiva, e lo ha mostrato loro
attraverso la lavanda dei piedi, gesto riservato allo schiavo nei
confronti del proprio padrone.
Dunque
la cena pasquale, quella che per noi è diventata l’eucaristia,
è un desiderio ardente di Gesù ed è un segno del suo amore totale
per noi suoi discepoli.
Non
è qualcosa che facciamo noi, che confezioniamo noi con la nostra
buona volontà, con le nostre azioni: è qualcosa di totalmente e
intimamente suo
che egli offre a noi.
Tant’è
vero che i discepoli non capiscono, sono recalcitranti, non si
spiegano come mai uno di loro lo tradirà, visto che sono tutti uniti
a mangiare dallo stesso piatto.
Non
comprendono come un gesto di così intima unione e amicizia da parte
di Gesù, sia fatto con persone, loro, noi, che lo tradiranno, lo
rinnegheranno, lo abbandoneranno e si disperderanno. Si rifiutano di
credere che lo lasceranno solo, promettono anzi di dare la vita per
lui! Si sentono soggettivamente suoi amici, ma ancora solo a livello
psicologico, come dimostreranno i fatti.
Perché
proprio questo non è comprensibile: noi non invitiamo a cena una
persona che sappiamo parla male di noi, o che peggio ci fa lo
sgambetto, ci imbroglia, ci abbandona nel momento della necessità.
Stiamo ben alla larga da chi ci ferisce e contribuisce alla nostra
tristezza. Ci circondiamo di persone che ci rendono felici, e che
vogliamo far felici a nostra volta. Non siamo disposti a stare a
tavola con una persona che sappiamo ci tradirà appena uscita.
Il
mistero pasquale invece diventa per noi discepoli quell’occasione
che il Signore ci offre sempre di riscoprire quanto ama gli uomini,
quanto è disposto a fare pur di non perderci, anche se noi ci
perdiamo.
Qualcuno
talvolta afferma: «In
fondo a me basta Cristo dentro di me, mi basta sentirlo quando prego
in casa mia», e
pensa di essere comunque a posto, in pace, di essere cristiano, di
essere meglio di
quelli che vanno in chiesa, che sono i peggiori...
Un po’ come Pietro: Se
anche tutti ti rinnegassero, io no!
Ovviamente
non si tratta di giudicare le intenzioni o il cuore di chi dice
così... però io mi chiedo: Se Gesù ha avuto questo desiderio, così
forte, così impellente, se ha fatto questi gesti verso i suoi
discepoli, comandando a noi di ripeterli per fare così una memoria
viva e attuale di lui, non solo un ricordo del passato, se ha amato
così fino alla fine... e noi non lo accogliamo per quello che è, mi
chiedo: che tipo di
cristianesimo ci costruiamo?
Stiamo semplicemente confezionando una religione a nostra misura, non
stiamo facendo quello che Gesù ha voluto fare ai suoi discepoli... e
quindi in sostanza possiamo
dirci cristiani?
Essere
cristiani non è celebrare riti, liturgie e cose simili, e poi
dimenticarsi del prossimo, del fratello, dello straniero: su questo
siamo d’accordo. Ma essere cristiani non significa neppure fare del
bene al prossimo dimenticando quei segni, che sono i sacramenti, che
Gesù ci ha lasciato, e che troviamo nella Chiesa, la comunità dei
discepoli.
Un
discepolo sa che per seguire Gesù è necessario alimentare
continuamente il nostro rapporto con lui, così come lui l’ha
pensato per noi e come ci è stato trasmesso: ha detto: «Fate questo
in memoria di me», questo, prima che altro... (Paolo)
Per
non cadere nell’illusione che basta
avere Gesù nel cuore per essere cristiani.
Gesù
nel cuore lo possiamo avere se viviamo come lui ci ha insegnato e
come lui ci dà di vivere con la sua forza che nasce in quella ultima
sera, che nasce il venerdì santo, che nasce la domenica di Pasqua:
allora la nostra fede diventa autentica, perché si misura sul metro
non del nostro cuore, ma del Suo cuore, del suo amore.
Così
ritorno alle due domande iniziali: Perché
siamo venuti qui stasera? Cosa facciamo stasera?
Ognuno
di noi, ora, in un momento di silenzio, prima di ripetere la lavanda
dei piedi, si ponga questa domanda, e si lasci interrogare dalla
passione di Gesù, dal desiderio di Gesù per noi, dal suo amore per
noi fino a chinarsi davanti a noi per lavarci i piedi.
E
con questa autenticità stiamo davanti a lui,
a costo di sentirci rispondere qualcosa che non ci piace:
che uno di noi lo tradirà, che stanotte stessa non sapremo vegliare
un’ora con lui, che tutti ci disperderemo per paura delle
conseguenze.
E
sentirci rispondere ancora e sempre:
«Se non ti laverò, non avrai parte con me».Se non ti lasci
avvicinare, non posso condividere la mia vita con te. Se non accetti
di fare pasqua con me, di ricevere il perdono, io ti lascio libero,
non ti costringo neppure a farti perdonare.
Ma
se accetti scoprirai la mia amicizia, la mia consolazione, scoprirai
una forza mai avuta prima. La forza dell’amore, di un amore capace
di andare fino alla fine.
O
uomo sconosciuto della brocca, che hai avuto l'unico "merito" di indicare ai discepoli la casa dove avrebbero preparato per fare Pasqua con il Maestro, insegnaci a servire nella comunità
senza fare conti, senza calcolare, senza voler essere sempre
ringraziati, sempre ricompensati, sempre importanti.
Il
vangelo di oggi ci racconta di
gente che calcola:
un profumo di 300 denari; la vita del maestro che si può comprare
con dei soldi; le sue vesti, vinte da un soldato giocando a dadi...
O
uomo sconosciuto della brocca, insegnaci a non fare conti nella vita
e nella fede!
Gerusalemme - Orto degli Ulivi
Perché
alla tua mensa, Signore Gesù, nessuno è escluso.
Ce
lo hai confermato quando hai offerto il calice: Il
mio sangue versato per la moltitudine.
Versato
per Arnaud, gendarme francese, che da non molto aveva riscoperto la fede e si doveva sposare a
giugno col sacramento, che due giorni fa si è offerto al posto di
una donna ostaggio di un terrorista a Trèbes, in Francia.
Versato
per Beauty,
Bellezza, che ha incontrato invece la bruttezza di questo mondo nelle
sembianze dei gendarmi al confine francese, che l’hanno respinta.
Beauty era nigeriana, portava un bambino in grembo, era gravemente
malata ed è morta dopo aver dato alla luce una creatura di 700
grammi, che hanno voluto chiamare profeticamente Israel, che speriamo
vinca la battaglia della vita. Suo marito era sans
papier,
senza documenti, come dicono loro, e lei non l’ha voluto
abbandonare. Perché in questo mondo se non hai i documenti tu non
sei nessuno, non basta più guardarci in faccia, temiamo alzare lo
sguardo per incontrare quello del fratello.
Sangue
versato
persino per i gendarmi che
li hanno respinti.
Versato,
ed è qui che ho i brividi a dirlo, anche
per me,
che sono tuo prete, e che spesso rifiuto questa tua carezza sulla mia
vita, Signore.
Prendete,
è per voi! È gratis.
Non
una palma io vi offro per sanare la vostra sete, per guarire la
vostra infermità, ma
la mia stessa amicizia, che non chiede nulla in cambio.
Avrete il coraggio di accettarla?
O
donna di Betania, anche tu senza nome. Insegnaci a
far spreco del nostro amore al Signore,
nonostante le critiche dei benpensanti, di coloro che si riempiono la
bocca di parole come “poveri”, “carità”, “solidarietà”,
e che poi però la carità vorrebbero farla con i soldi degli altri,
che non sono disposti a metterci del proprio, a giocarsi la vita.
Sì,
Signore, forse esagero e non dovrei giudicare, ma l’hai detto tu:
“Lasciatela in pace, perché la infastidite? Ella ha compiuto una
buona azione verso di me”.
Insegnaci,
donna di Betania, a non separare mai l’amore a Gesù dall’amore
al prossimo, soprattutto se povero. A non fare della nostra carità
una bandiera da mostrare orgogliosi agli altri, ma semplicemente la
naturale prosecuzione di un amore che inizia nella tua croce,
anzi, nel tuo sepolcro, quando l’amore sembra definitivamente
chiuso nella tomba.
Fa’
che nella nostra comunità non ci giudichiamo per vedere chi fa di
più e come lo fa, ma che sappiamo
riconoscere i gesti di bontà di chiunque,
ed apprezzarli, come fatti a Te, Signore Gesù.
Insegnaci
tu, Simone di Cirene, oggi e sempre, a portare la croce insieme a
coloro per i quali essa è troppo pesante. Sappiamo che anche noi
abbiamo un Alessandro e un Rufo che ci attendono a casa, che forse
hanno già pronto il pranzo per noi, ma tu ricordaci che fermarsi
a soccorrere un disgraziato è un atto di carità, non solo una
costrizione impellente fatta con la punta della spada di un soldato
romano.
Facci
scoprire, al di là delle nostre comodità, che portare la croce con
qualcuno che non ce la fa è ancora un gesto noto alle nostre
famiglie, alle nostre amicizie, alla nostra comunità cristiana.
Che
è più importante sollevare il legno della croce dalle spalle di un
povero cristo, che portarsi un ramo di ulivo a casa e non guardare in
faccia mio fratello.
Facci
sentire, Signore, che ancor prima che il gallo canti, ricordandoci i nostri
tradimenti, tu ci hai amato di amore eterno, ci conservi pietà a
causa della nostra disgraziata paura. Che il nostro pianto nel
ricordare il tuo annuncio di tradimento imminente, non può e non
deve mai essere di disperazione, ma sempre di rinnovamento e di
gratitudine.
George de la Tour - Tradimento di Pietro
O
Signore, noi sappiamo che ti dimentichiamo troppo spesso, che ti
rinneghiamo, ti misconosciamo, ma tu ricordi anche a noi ciò che
dicesti ai tuoi discepoli quella notte: Vi
scandalizzerete, sì, cadrete tutti, nessuno escluso. Ma dopo che
sarò risorto, io camminerò di nuovo davanti a voi, e voi dietro di
me: cioè
io non vi
rifiuto mai!
Vi ho chiamati a seguirmi, e anche quando cadete, io continuo a
invitarvi a seguirmi.
Perché
questo è il senso del tuo morire: un prendere su di te la nostra
sofferenza, persino la nostra incomprensione verso di te, persino il
nostro tradimento.
Non
da supereroe, ma da uomo, da amante, da amico, da padre.
E
dirci che ci ami. E che vuoi che anche noi ripartiamo da qui, a
vivere la nostra vita come te.
Facile?
Difficile? Che
importa tutto questo, se tu sei con noi, se tu hai promesso che ci
precedi, se tu sei il nostro pastore mite, che cavalca un puledro
d’asina?
Torino - Cappella del Sermig
Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
sono
una caricatura d’uomo
disprezzato
dal popolo
Si
burlano di me su tutti i giornali
Mi
circondano i mezzi blindati
le
mitragliatrici sono puntate su di me
ho
intorno il filo spinato
filo
spinato elettrico.
Tutto
il giorno mi chiamano all’appello.
Mi
hanno tatuato un numero
mi
hanno fotografato tra il filo spinato
e
come in una radiografia
si
possono contare tutte le mie ossa.
Mi
hanno strappato la mia identità
Mi
hanno condotto nudo alla camera a gas
e
si sono divise le mie vesti e le mie scarpe
Grido
chiedendo morfina
e
nessuno mi ascolta
grido
con la mia camicia di forza
grido
tutta la notte
nell’ospedale
dei malati mentali
nel
reparto dei malati incurabili
nell’ala
dei malati contagiosi
nel
ricovero degli anziani
agonizzo
bagnato di sudore
nella
clinica dello psichiatra
soffoco
nella camera d’ossigeno
piango
nel posto di polizia
nel
cortile della prigione
nella
camera di tortura
nell’orfanotrofio
sono
contaminato dalla radioattività
e
nessuno mi si avvicina per timore di contagio
Ma
io potrò parlare di te ai miei fratelli
Ti
esalterò nella riunione del nostro popolo
Risuoneranno
i miei inni
in
mezzo a una gran folla
I
poveri prepareranno un banchetto
Il
nostro popolo celebrerà una gran festa
il
popolo nuovo che sta per nascere (Ernesto Cardenal)
Lectio
Adorazione quaresimale con gli operatori pastorali dell’Unità
Pastorale
Villacidro
– 20 marzo 2018
Dal
vangelo secondo Marco
(14,1-31)
1.
Che senso ha tutto questo?
14
1Mancavano
due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli
scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo
morire. 2Dicevano
infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del
popolo».
Mancano
pochi giorni alla festa di Pasqua, festa della liberazione dalla
schiavitù d’Egitto, ma anche attesa del Messia, del liberatore
ultimo e definitivo. E i capi hanno anch’essi qualcuno di cui
liberarsi, qualcuno da catturare di nascosto, perché la gente si
fida di lui, lo segue, lo osanna. Essi pensano di essere più liberi,
liberandosi di lui, di far rispettare la Legge, di glorificare il
nome di Dio. Pensano che questo maestro in fondo sia soltanto un
bugiardo, un impostore.
La
festa degli Azzimi, del pane non lievitato, del pane cotto in fretta,
perché in fretta bisognava partire dall’Egitto, il giorno in cui
si eliminava dalla casa il lievito, diventa il giorno in cui il
lievito del male aumenta a dismisura fino a raggiungere proporzioni
catastrofiche, fino a toccare la misura stessa di Dio. Il lievito del
male cresce e sembra che nulla possa arginarlo, meno che mai un
Maestro che a breve si farà consegnare, tradire, arrestare e
crocifiggere.
La
domanda che il Vangelo di Marco si pone, raccontandoci la passione, è
dunque: che senso ha una vicenda così assurda?
Che
senso hanno le nostre vicende così assurde, le vicende del mondo,
della storia, così maledettamente feroci, così disgraziatamente
lievitate da aver preso anche lo spazio della buona pasta?
Che
senso dobbiamo aspettarci dal male?
Mettiamo
questa domanda davanti a questo Pane azzimo, la presenza di Gesù
Cristo in mezzo a noi, perché Egli ristabilisca la giusta
proporzione, e ci aiuti a percepire la sua silenziosa vittoria sul
lievito del male.
2. Ha fatto qualcosa di
buono per me
3Gesù
si trovava a Betània,
nella casa di Simone
il lebbroso.
Mentre era a tavola, giunse
una donna
che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di
grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo
sul suo capo. 4Ci
furono alcuni,
fra loro,
che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si
poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed
erano infuriati contro di lei.
6Allora
Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto
un’azione buona verso di me. 7I
poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene
quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella
ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo
per la sepoltura. 9In
verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il
mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Ci
sono sempre delle donne attorno a Gesù. Fateci caso: nessuna donna
nei Vangeli è dipinta a tinte fosche, nessuna che faccia qualcosa di
equivoco, che da Gesù non sia ricondotto a un pensiero più grande,
nessuna che si comporti male nei suoi confronti... A differenza dei
giornali scandalistici, i Vangeli ci riportano azioni di maschi
contro Gesù, sotterfugi, tradimenti, gelosie, accuse false... Non
che le donne non ne siano capaci, ma è come se i Vangeli
custodissero e alimentassero una visione positiva della donna che non
ammette repliche. E non diciamo questo per far contente le donne, ma
perchè questo è il dato delle Scritture.
Così
questa donna che a Betania, in casa di un personaggio famoso, forse
un fariseo, Simone il Lebbroso, unge il capo di Gesù con nardo
profumatissimo, sarà ricordata per sempre come colei che “ha fatto
qualcosa di buono” a Gesù, che ha compiuto un gesto di amore e di
tenerezza nei suoi confronti.
All’epoca
di Gesù le donne non erano ammesse ai banchetti se non per servire,
e già qui la prima stranezza: questa donna si avvicina a Gesù da
dietro, mentre tutti sono sdraiati per consumare il pasto, portando
un vaso di alabastro pieno di profumo di nardo, costosissimo e glielo
versa sui capelli. Ci ricorda la sposa del Cantico dei Cantici quando
afferma: «Mentre
il re è sul suo divano, il mio nardo effonde il suo profumo»
(Ct 1,12).
Questa
donna dunque agisce da amante, da persona che ama, da persona che
vuol bene a Gesù.
Il
suo gesto di confidente e intima tenerezza verso il maestro produce
irritazione tra i convitati: una quantità così grande di nardo,
corrispondente alla paga di un intero anno a un contadino, non poteva
essere venduta per darne il ricavato ai poveri?
Si
pensano sempre paladini dei poveri, coloro che non comprendono la
delicatezza verso il Cristo.
Vorrebbero
far sentire in colpa la donna, fremendo contro di lei e accusandola.
Ma è Gesù che accusano in fondo, accusando lei: pensano di essere
nel giusto perché hanno sempre in bocca i poveri.
Ma
è facile fare l’elemosina coi soldi altrui: del loro però non
rischiano nulla!
Permalosi
perché superati in tenerezza da una donna, incapaci di provare
sentimenti, pronti soltanto a sputare sentenze.
E
Gesù con pazienza a dir loro che non c’è opposizione tra l’onore
a lui tributato, anticipazione di una sepoltura fatta troppo in
fretta e senza alcun unguento profumato, e il servizio ai poveri, che
abbiamo sempre vicino.
Non
esiste una Chiesa della liturgia e una Chiesa dei poveri: esiste una
sola Chiesa, la Chiesa di coloro che sono ricchi soltanto di Gesù, e
che lui solo adorano, lui solo annunciano, lui solo amano anche nella
carne sofferente dei poveri.
L’Eucaristia
è qui a farci memoria del mistero di una presenza che non si scorge
a uno sguardo superficiale, davanti al quale in fondo quello è solo
un pezzo di pane. Così come lo sguardo superficiale vede nei poveri
soltanto delle persone da aiutare, e non il Signore da amare. Il
povero è il sacramento di Cristo: non c’è distanza tra
l’adorazione del suo corpo eucaristico e il servizio del suo corpo
fisico nei poveri.
Ah,
se davvero capissimo questo, eviteremmo tante inutili beghe, tanti
inutili distinguo, tante sterili opposizioni tra vita attiva e vita
contemplativa.
Allora
comincia a svelarsi il senso di una storia così assurda: Gesù,
profumato dalla donna, Gesù povero anche lui, bisognoso di una
carezza amica, trova in questo gesto il senso del suo imminente
destino di Messia abbandonato, crocifisso, sepolto in fretta e furia,
senza neppure gli onori dovuti ai morti: «Ella ha fatto ciò che era
in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura».
Davanti
all’Eucaristia sostiamo allora chiedendo perdono per tutte le volte
che abbiamo contrapposto l’amore a Dio e l’amore ai poveri, per
tutte le volte nelle quali ci siamo scandalizzati perché la tal
persona offriva del suo meglio a Gesù, e ci siamo nascosti dietro il
paravento dell’amore ai poveri per giustificare la nostra
tiepidezza.
3. Giuda, il mistero del
male
10Allora
Giuda
Iscariota,
uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro
Gesù. 11Quelli,
all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed
egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
Irrompe
così violento il male, davanti a un gesto di tenerezza femminile, di
estrema devozione a Gesù.
Sempre
così il male: nasce dalla visione del bene che viene considerato
pericoloso, sovversivo, troppo limpido, troppo buono. Il male nasce
dalla contemplazione del bene, a dirci che non basta essere presenti
nella cerchia di Gesù, essere uno dei Dodici, contemplare la sua
presenza in mezzo a noi, per garantirci che il male non abiti in noi.
Se
non si accetta di condividere quel destino di morte e sepoltura, se
non si accetta la logica del chicco di grano che se non cade in terra
e muore non porta frutto, non si può capire neanche Gesù.
Giuda
diventa il capo degli eterni delusi e scontenti, che ciclicamente
“vendono Gesù”. La sua delusione non lo porta a trovare una
strada per crescere e migliorare, a raddrizzare nuovamente la strada
verso il Regno, ma ad abbandonarla.
Qui
la logica del mondo, cinica e desiderosa di far fuori Dio,
rappresentata dai capi, si incontra tristemente con la logica ferita
del Regno, di chi non vuole accettare un Regno non influente alla
maniera mondana, rappresentata da Giuda. E tristemente queste due
logiche si incontrano in un accordo economico, perché quando
spariscono gli ideali entrano in gioco sempre i denari, entra in
gioco l’utilitarismo e la domanda non è più: «Questa
azione è giusta o è sbagliata?», ma piuttosto, «Questa azione mi
torna utile oppure no?».
È
la logica di un’umanità al ribasso, dove tutto diventa utile
possibile, guadagno possibile, fruizione istantanea.
E
i delusi sono sempre in agguato, perché spesso diventano animali
feroci. In fondo lo vediamo anche nella storia della Chiesa di oggi:
i delusi contro papa Benedetto, i delusi contro papa Francesco...
dividere la
Chiesa
in tifoserie: io sono a favore, io sono contro... io sono a favore di
quel prete, io sono contro... qui non si tratta del giusto diritto di
critica che ciascuno ha e deve esercitare, ma di una logica di base
che è fuori, chiunque sia a propugnarla, perché pensa che servire
sia in realtà comandare.
Bartolomeo Schedoni - Ultima Cena (Pinacoteca di Parma)
4.
Il maestro dice: Dov’è la mia stanza?
12Il
primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i
suoi discepoli
gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa
mangiare la Pasqua?». 13Allora
mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi
verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là
dove entrerà, dite
al padrone di casa:
“Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare
la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli
vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già
pronta; lì preparate la cena per noi». 16I
discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto
loro e prepararono la Pasqua.
E
così quella sera Gesù volle fare pasqua con i suoi discepoli, volle
celebrare la cena più importante dell’anno con coloro che erano
diventati la sua famiglia.
Ancora
il Signore manda i suoi discepoli davanti a noi, e ci chiede di
preparargli una bella sala, al piano di sopra, con divani e cuscini,
ben arredata e confortevole, per fare pasqua con noi.
Il
Maestro dice: «Dov’è la mia stanza perché io possa mangiare la
Pasqua con i miei discepoli?».
A
noi che siamo saturi di impegni, di incontri, di riunioni, di
attenzioni, il Signore chiede di preparare una stanza per lui,
accogliente e ben disposta, silenziosa. Preparare una stanza
interiore alla presenza di Dio in noi.
Mi
tornano sempre alla mente le parole di Etty Hillesum, che morì in un
campo di concentramento nazista:
L’unica cosa che
possiamo salvare di questi tempi e anche l’unica che veramente
conti è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse
possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di
altri uomini. Sì mio Dio sembra che Tu non possa far molto per
modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di
questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più
tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito
del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca
a noi aiutare Te, difendere fino all'ultimo la Tua casa in noi.
Esistono persone che
all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri,
forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio Dio. E
altre persone che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di
innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il
proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che
non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle Tue
braccia.
5. Uno di voi mi tradirà
17Venuta
la sera, egli arrivò con i
Dodici.
18Ora,
mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi
dico: uno
di voi,
colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono
a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
20Egli
disse loro: «Uno
dei Dodici,
colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il
Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a
quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio
per quell’uomo se non fosse mai nato!».
22E,
mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò
e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi
prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E
disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato
per molti. 25In
verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino
al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
I
Dodici sono i testimoni di questa cena. Noi non abbiamo avuto questa
possibilità, non vediamo Gesù risorto, ma conosciamo i fatti e gli
effetti della risurrezione, effetti comprensibili e visibili però
soltanto a chi crede. Altrimenti resta un bell’evento del passato,
una ultima e definitiva cena dove Gesù ha comunicato un ricordo di
sé e tutto finisce lì.
Raccontandoci
l’ultima cena invece, Marco e tutti gli evangelisti, hanno voluto
consegnarci il senso più profondo della nostra fede e della Chiesa:
la Chiesa non è la comunità dei perfetti, dove tutti sono in gamba,
bravi, buoni e belli.
È
«Uno di voi», «Uno dei Dodici» (l’unica volta che Marco
utilizza questa definizione per parlare di un apostolo, la usa per
Giuda! Che grande mistero!) a consegnare Gesù ai suoi assassini.
Ritorna
prepotente la presenza del male attraverso «colui che mangia con me,
che intinge il suo pane nel mio stesso piatto»: mistero del male,
mysterium
iniquitatis.
Il
male è compiuto da chi sta vicino a Gesù, da chi gli sta più
vicino. Quante volte abbiamo accusato chi sta fuori di fare il male,
di allontanarsi da Dio... Il Vangelo ci invita a guardare dentro il
Cenacolo, non per cercare colpevoli, ma per trovare senso al male.
Che senso ha tutto questo?
In
questa scena Marco ci dice che se anche il male allontana da Dio, Dio
non si allontana dal malvagio, anzi, accetta che egli stia a tavola
con lui!
Per
Gesù non c’è nessuno di veramente perduto: tutti sono figli e
fratelli invitati al banchetto preparato; c’è spazio per tutti. Se
te ne vai, qualunque sia la giustificazione che ti dai per ammantarla
di buoni sentimenti, te ne vai sempre coi tuoi piedi.
Comprendere
questo atto di totale fiducia nell’uomo che Gesù compie
nell’Ultima Cena, intingendo allo stesso piatto del suo traditore,
intingendo nel piatto insieme a coloro che lo abbandoneranno quella
stessa notte, lavando loro i piedi come vedremo Giovedì Santo!
Questo significa entrare nell’Eucaristia!
Questa
è l’Eucaristia: il suo corpo donato e il suo sangue versato per la
moltitudine, cioè per tutti. Perché nel cuore di Gesù non ci sono
distinzioni.
Entrare
in quella stanza, farlo entrare nella nostra stanza interiore
preparata per lui, senza questa disposizione massima di apertura,
significa tradire il senso dell’Eucaristia.
Altri
possono avercela con me, altri possono accusarmi e tradirmi, ma io,
per parte mia non voglio avercela con nessuno, non voglio accusare
nessuno, non voglio tradire nessuno.
6. Anche se tutti, io no!
26Dopo
aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù
disse loro: «Tutti
rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:
Percuoterò
il pastore e le pecore saranno disperse.
28Ma,
dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».29Pietro
gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». 30Gesù
gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte,
prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». 31Ma
egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con
te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti
gli altri.
Bartolomeo Schedoni - Tradimento di Pietro (Pinacoteca di Parma)
Quante
volte abbiamo detto le stesse parole di Pietro. Quante volte ci è
facile accusare il Giuda che vediamo fuori, e non ci accorgiamo del
Pietro che ci abita!
Nella
sua sapienza il Vangelo ci mette in guardia dalla presunzione di
essere migliori. Anche se tutti cadranno, io no! Il male sono sempre
gli
altri,
a farlo.
Io
no, Signore. Io sono tuo fedele discepolo, sono disposto a morire con
te pur di non rinnegarti. Povero Pietro, e poveri tutti gli altri.
Fino
alla fine, sulla strada che li porta al Getsemani, Gesù li terrà in
guardia sui loro sentimenti, sulle loro paure irrazionali, sulle loro
fughe.
A
volte prendiamo il Vangelo come un ricettario in cui cercare un modo
di comportarci, e i comandamenti come la formula della serenità.
Ma
dimentichiamo facilmente che anzitutto il Vangelo ci racconta di una
strada fatta di inciampi, di cadute, di rinnegamenti, di
allontanamenti. Cioè ci racconta la nostra vita, dicendo che quegli
inciampi, quelle cadute, quegli allontanamenti Lui li ha messi in
conto, e ci ama così, strafottenti, boriosi, presuntuosi.
Sempre
dirò che dopo la sua risurrezione Gesù non si è rivolto ad altri
discepoli, non ha cercato altri e buttato fuori questi dal
cenacolo... è andato a trovarli proprio in quella stanza dove tutto
era gioia, seppure mescolata a un presentimento, a una tristezza
incombente.
È
andato a trovarli lì, per mostrar loro le sue ferite, per dire loro
«Pace a voi!».
Ancora
sta in mezzo a noi, non si allontana disgustato da noi, ci accoglie,
ci conosce. Vuole ancora fare pasqua con noi.
Solo
ci chiede di stare con lui, e di imparare a vivere da persone
eucaristiche, capaci cioè di diventare un dono per gli altri, una
benedizione, di essere pane spezzato e vino versato sul mondo, su
tutti e per tutti, perchè l’Eucaristia trasformi ogni relazione,
ogni gesto, ogni persona, persino le pietre e gli alberi, perché
anche da noi, povere creature, salga l’inno di benedizione e di
lode: