sabato 31 marzo 2018

Omelia per la Veglia Pasquale - Arbus


C’è un momento della vita, forse a causa di una grande gioia, o di un grande dolore, di una nascita o della morte di chi ci è caro, della perdita di tutto, o di una grande conquista personale, in cui forse per la prima volta in modo serio ci chiediamo: Che cos’è la morte? Che cos’è la vita? Che cos’è la fede?
E allora occorre rimanere fedeli a questa domanda, abitarla, non andare subito alla risposta preconfezionata, non accontentarci di quello che abbia sempre sentito, o di una definizione letta su qualche libro, fosse anche il catechismo o la Sacra Scrittura...
Se siamo fedeli alla potenza e alla durezza di domande simili, la liturgia di stanotte interviene proprio allora, perché ci apre uno spiraglio per tentare di dare la nostra personale risposta: Che cos’è la mia vita? Che cos’è la mia morte? Che cos’è la mia fede?
Stanotte, il buio è stato squarciato non da un sole accecante, ma da una luce fioca: la fiammella di un cero.
Il silenzio è stato rotto non da un fiume di parole, ma da una parola per certi versi incredibile: Non abbiate paura, Gesù, il crocifisso, è risorto, non è qui!
Eppure quella luce fioca, quella parola incredibile hanno trapassato il tremendo confine della morte, della distanza tra Dio e uomo, e ci aiutano a dare una risposta a quelle domande che facevamo all’inizio. Non però una risposta fatta di parole, ma con l’aprire la bocca, esclamando: «Oh!»
Sì, carissimi fratelli e sorelle: stanotte non si tratta di imparare dottrine, di conoscere definizioni, ma di aprirci allo stupore di una realtà sulla quale noi non abbiamo nessun controllo: la nostra vita e la nostra morte.
Si tratta, stanotte, di lasciarci guidare, di lasciar vincere la nostra superstizione, la nostra chiusura, il nostro razionalismo da ciò che non possiamo neppure immaginare: che quell’uomo che abbiamo contemplato morto, appeso a un patibolo, è risorto, è vivo, vuole incontrarci, vuole parlarci, vuole darci speranza e fiducia nella vita.
Noi siamo abituati a pensare alla nostra fede attraverso le categorie di pena e di premio, costruiamo tutta la vita in base alla meritocrazia, vorremmo tenere tutto sotto controllo, e poi non ci rendiamo conto che la morte è dietro l’angolo. L’indescrivibile e incontrollabile provoca in noi terrore, come nelle donne che vanno al sepolcro e poi tornano a casa e non dicono nulla.
Perché chi va a dirlo ora ai discepoli e a Pietro che Gesù si è alzato? Una parola così semplice, persino banale, alzarsi, proprio come si fa ogni mattina: questa parola ci consegnano i vangeli! Così banale da doverne coniare una un po’ più elevata, risorgere.
Cos’è dunque, questo alzarsi di Gesù dalla tomba? Cos’è la risurrezione?
È Dio che pone fine per sempre al pensiero che bisogna meritarsi Dio, che bisogna guadagnarselo, ingraziarselo in qualche modo, facendo sacrifici (Abramo / Isacco; Padre / Figlio), che bisogna calmare la sua presunta ira nei confronti dell’uomo.
È Dio che dice a ciascuno di noi: Lo capisci o no che io voglio semplicemente che tu viva? Che te l’ho dimostrato attraverso mio Figlio, rialzando lui, ma voglio dimostrarlo anche in te, in voi, perché da oggi possiate camminare in una vita nuova?
Cosa rende allora la vita degna di essere vissuta?
I soldi? La salute? Un buon lavoro? Una persona da amare?

Ma che me ne faccio di tutte queste cose se non so perché ce le ho, se non ho scoperto il senso della vita? Niente potrà darmi la felicità, se non so per cosa essere felice, che scopo ha la mia esistenza.
Questa notte ci apre uno squarcio di luce proprio su questa domanda. Ci spinge a chiederci che senso ha la nostra vita, a partire da una piccola fiamma, da un semplice invito a non aver paura, da un invito a seguirLo, a seguire Colui che si è rialzato della morte, perché egli ci aprirà quel senso, ci darà una famiglia, la sua Chiesa, povera e peccatrice, perché fatta di uomini e non di angeli, di persone in cammino non di gente perfetta, in cui cercare il senso di chi siamo e di cosa ci facciamo su questa terra.
E ci darà la forza e la perseveranza per dare senso a ogni cosa che facciamo, per dare senso a ogni croce che dobbiamo portare sulle spalle, per illuminare tutte quelle situazioni che sono ancora nel sepolcro, le guerre, le violenze di uomini contro altri uomini, le sopraffazioni, perché ci mostrerà che ognuno di noi può fare la sua parte, e quando abbiamo scoperto il senso della nostra vita, ognuno di noi farà la sua parte, da prete, da laico, da padre, da moglie, da figlio, da vedova, non importa che sia piccola come una candelina come quelle che abbiamo stasera.
Può darsi che stanotte siamo venuti qui per soddisfare un precetto, per toglierci un dente, perché in fondo a Pasqua bisogna pur andare a Messa...
O forse appunto per tenere a bada Dio, per dirgli: Ecco, sono tornato dall’anno scorso, vedi di star buono ancora per tutto l’anno prossimo.
In fondo pensiamo di calmare la nostra angoscia controllando i nostri affetti, controllando i nostri desideri, il tempo, la nostra salute, programmando e organizzando tutto, affinché nulla ci sfugga. Controllando anche Dio.
Ma ci sbagliamo. La realtà è che noi ci illudiamo di controllare, ma non abbiamo il controllo di niente, meno che mai della nostra vita. Io posso morire stanotte stessa!
No, non siamo venuti a tenere sotto controllo Dio, e neppure a fargli un favore, facendo un piccolo sacrificio a lui nell’offrirgli due ore del nostro preziosissimo tempo: siamo venuti qui a ricevere nel nostro buio, nella nostra paura, nel nostro silenzio incapace di esprimersi, forse anche nel nostro odio e risentimento verso qualcuno, una piccola luce, una piccola parola: Non temere! Io ho fiducia in te, voglio donarti l’ebbrezza della libertà di amare senza controllo, di smetterla di misurare.
Smettila di voler tenere tutto sotto controllo: ti sfuggirà di mano!
Accetta invece la logica del morire per vivere, del donarti per risorgere a vita nuova.
Lascia che quel sepolcro si svuoti, che Gesù si alzi anche nella tua tomba, perché tu possa seguirlo, non solo in queste due ore, ma in ogni istante della vita.
Perché anche tu possa diventare un suo discepolo!
Stanotte torneremo a casa con questa domanda: Che senso ha la mia vita, Signore Gesù? E se questo ci spaventa, riprendiamo in mano quella candela, ogni notte, domani, dopodomani, accendiamola e lasciamoci illuminare da quella parola che abbiamo appena ascoltato: Non temete, andate, egli vi precede!
Perché egli sta sempre davanti a noi. Il crocifisso si è rialzato. Non è qui. Andate!
Buona Pasqua!

venerdì 30 marzo 2018

Omelia per il Venerdì Santo - Cattedrale di Ales



Sieger Koder - Crocifissione - Cosa vide Gesù?
Conosciamo tutti la gravità di una sera come questa: penso che tutti abbiamo avuto nella vita almeno una volta un lutto grave, di un parente, di un genitore, di un figlio, di un fratello, di un amico. Conosciamo tutti lo schianto e l’annientamento di situazioni simili, il pianto, l’incapacità di parlare, il rivivere quegli ultimi istanti e raccontarli solo con tante lacrime anche dopo molti anni... Tutto questo non è lontano dalla nostra esperienza.
Così, quando il Vangelo ci parla di perdono, possiamo essere un po’ scettici perché spesso facciamo difficoltà a perdonare; quando ci parla di preghiera non capiamo bene perché neanche noi sappiamo pregare; ma quando ci parla del dolore stiamo ad ascoltare, perché conosciamo bene questa realtà. (Eb 4-5)
In tutte le chiese del mondo oggi e domani si fa memoria della morte e della sepoltura di Nostro Signore Gesù Cristo: non è un semplice anniversario, come quello per ricordare i nostri morti. Noi ne facciamo memoria attraverso alcuni elementi: il racconto di ciò che avvenne, l’adorazione della croce e l’eucaristia condivisa.
Il racconto di ciò che avvenne. Gli esperti ci dicono che i vangeli sono come una grande introduzione al racconto della Passione di Gesù, che occupa una parte consistente di ognuno di essi: da un punto di vista quantitativo, la maggior parte del testo di ogni singolo vangelo racconta la Passione di Gesù: una settimana su trent’anni. Perché? Certamente perché i discepoli e le prime comunità cristiane hanno riconosciuto che in quelle poche ore, tutta la vita di Gesù trovava come il suo senso e la sua consacrazione: come se tutto ciò che egli aveva fatto, passando facendo del bene e guarendo, trovasse compimento nella sua morte. E questa è una cosa un po’ strana, perché in effetti la morte pone fine alle nostre azioni, e noi diciamo con il buon senso, che la nostra vita si gioca quando siamo vivi, non quando stiamo morendo.
Con Gesù però è accaduta una cosa non trascurabile: i discepoli hanno visto nel suo arresto, nel suo processo, nella sua condanna, nella sua morte così ingiusta, un segno definitivo. Raccontandoci con tanta attenzione la Passione ci dicono: Ecco per cosa è venuto Gesù: non solo per predicare il regno di Dio con parole e con segni e miracoli, ma finalmente per predicarlo con la sua stessa vita, con il suo stesso corpo. Non più parole o azioni, ma sé stesso. Egli è diventato in qualche modo la spiegazione di ciò che ha predicato e dei miracoli che ha compiuto nella sua vita. E lo è diventato nel momento in cui la parola gli veniva difficile da pronunciare, e le azioni impossibili perché inchiodato sulla croce.
Il paradosso di Gesù di Nazaret sta qui: egli è Dio nel momento in cui appare come un semplice uomo condannato a morte tra malfattori, debole e sfortunato, inguardabile e riprovevole. (Is 52-53)
Così comprendiamo il senso delle sue parole, quando aveva detto che è necessario che il chicco di grano sia gettato a terra e muoia per fare frutto, o quando aveva detto: beati i perseguitati a causa della giustizia, o quando ancora disse: Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici.
Le parole dell’evangelista Giovanni relative alla sua venuta nel mondo, «Il verbo si fece carne» possiamo applicarle anche all’evento della croce nei vangeli: «Il racconto si è fatto persona», e quella persona è appesa alla croce. San Paolo, rivolgendosi ai Corinzi dirà: «Quando venni tra voi io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso».
E questo è ciò che vorremmo anche per noi stessi: che la nostra vita a un certo punto, arrivasse a maturazione non attraverso delle belle parole che siamo capaci di dire, o dei bei gesti di bontà che siamo capaci di fare, ma in tutto noi stessi, nelle nostre fibre più profonde e intime, persino in quelle cose che non siamo capaci di esprimere con parole o con fatti.
Arriva un momento in cui vorremmo non solo fare delle cose buone, ma essere amore, essere completamente inondati dalla bontà, dall’amicizia, essere trasparenti, con tutto noi stessi: fiorire!
Ecco dunque perché il racconto: perché quell’evento parli anche a noi oggi, perché quelle parole testimoniano un evento compiuto nella vita di Gesù che è in grado di illuminare il nostro presente, la nostra vita, di trasformarla persino!

[Amico, basta oramai. Se vuoi leggere ancora,
Va’ e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza. (Angelus Silesius)]
L’adorazione della croce. Per lunghi secoli i cristiani, che pure dipingevano le tombe, non rappresentarono la croce, se non sporadicamente. Essa era un simbolo troppo cruento, perché ancora per molto tempo veniva usata come patibolo: gli storici affermano che la croce era una forma di condanna a morte infamante, riservata agli schiavi e agli stranieri, non ai cittadini romani. Negli occhi e nel cuore di tante persone, l’impressione della croce richiamava la macabra usanza romana, la loro violenza, il sangue e il dolore, la persecuzione.
George Roualt - Pierrot (immagine di Cristo umiliato)
Il Venerdì Santo noi adoriamo la croce, cioè le riserviamo un gesto di tenerezza, un bacio o una carezza. Perché diamo un bacio a uno strumento di morte? È come se il figlio di un condannato alla fucilazione baciasse la pistola del soldato che ha dato il colpo di grazia: è contraddittorio.
Sì, in un certo senso lo è. La croce ci mostra l’uomo che decreta l’inutilità dell’uomo, dell’innocente soprattutto, tanto da ucciderlo. Dio aveva detto vedendo la sua creatura: «è cosa molto buona». Ma l’uomo vedendo il suo simile dice: Uccidiamolo! Il mondo è pieno di croci!
La croce ci dice che Dio resiste alla violenza dell’uomo sull’uomo, accettando di assumerla in prima persona: la croce è l’unica vera resistenza possibile al male. Ecco perché occorre prenderla e portarla, dietro di lui: per essere più umani! Da strumento di morte, essa è diventata quello che nessuno avrebbe potuto immaginare: il modo per ricondurre gli uomini a Dio dando la propria vita, consegnandosi in totale affidamento al Padre alla desolazione della morte.
Così noi possiamo adorarla senza essere masochisti, e senza adorare la sofferenza che quella croce ha causato: in essa ci è dato di vedere quanto Dio ha amato il mondo, fino a donarci il suo unico Figlio. Perché quella croce, e a partire da essa ogni croce, ci ricorda che essa non è l’ultima parola sulla nostra vita, ma la penultima. Che l’ultima parola sulla nostra vita ce l’ha Dio, ed è una parola di risurrezione.
Cattedrale di Ales
L’eucaristia condivisa. Il terzo segno che faremo questa sera è ricevere l’eucaristia che è stata consacrata ieri, Giovedì Santo. In quella sera nella quale Gesù fu tradito egli non volle lasciare soltanto un souvenir di sé stesso, come una fotografia o un testamento, ma un rito attraverso il quale poter entrare in comunione con lui non solo con la nostra memoria, ma spiritualmente e materialmente. E questo rito è l’Eucaristia, la celebrazione del suo dono d’amore attraverso un cibo, del pane e del vino, che ci permettono di partecipare alla sua morte e risurrezione.
L’eucaristia è il modo che Egli ci ha donato, che egli ha voluto e desiderato, per personalizzarci il suo amore: amore sproporzionato e non necessariamente reciproco.
Pensiamo alle nostre relazioni: quando abbiamo amato qualcuno senza esserne ricambiati, quanta frustrazione abbiamo sperimentato? Quanto imbarazzo? Come per gli adolescenti, quando si fidanzano “ma lei non lo sa”...
Eppure Dio è così: in lui c’è il desiderio estremo di incontrare questa sua umanità, di incontrare noi, ciascuno di noi... e noi il massimo che ci sentiamo di fare, sovente, è dire: «Ma sì, dai, oggi è domenica, dedichiamogli un’oretta, ma sbrighiamoci! Ho cinque minuti: preghiamo un po’, che poi ho altro da fare».
Potrebbe darsi che noi non abbiamo desiderio di Dio, fame di Dio, ma soltanto di cose molto ordinarie: un lavoro, la salute, una famiglia, degli amici.
Se proviamo a essere autentici nei nostri desideri, pian piano sperimenteremo una sete più grande, un desiderio più forte: di senso, di significato anche per quei nostri piccoli desideri ordinari. Perché, come dicevamo prima, non solo qualcosa di noi, ma tutta la nostra vita fiorisca!
Stasera siamo qui allora, perchè tutto questo, tutta la vita, tutto il male, tutto il dolore del mondo, trovi senso a partire da questo racconto che si rende presente in mezzo a noi in Gesù Cristo, attraverso questa croce che ci pone davanti la misura dell’amore, e ricevendo l’eucaristia, che ci alimenta per dirci il desiderio che Dio ha di noi, perché anche noi possiamo desiderare lui nella nostra vita.
Solo un amore così, l’amore di Gesù crocifisso, amore sino alla fine, può dare speranza anche alle nostre disperazioni, alle nostre delusioni, alla nostra croce. E così sia.

giovedì 29 marzo 2018

Giovedì Santo - Omelia per la Messa in Coena Domini

S. Koder - La lavanda dei piedi
Entriamo con questa celebrazione nel mistero di quei giorni che cambiarono la storia.
Lo dico senza troppa enfasi, perchè non si tratta di fare affermazioni di trionfo: Cesare che varca il Rubicone, Napoleone che invade l’Europa, la Marcia su Roma... ci sono stati degli eventi storici molto appariscenti, molto “forti”, che hanno mutato effettivamente il corso degli eventi da quel momento in poi...
Ciò che accadde a Gerusalemme nella Pasqua degli anni 30 del primo millennio non fu niente di così eclatante: agli occhi degli storici poteva sembrare al massimo una sommossa sventata e la condanna di un uomo per sedizione, con l’immediata dispersione dei suoi discepoli.
Eppure in quella notte, che noi oggi ripetiamo nei gesti, e nella successiva liturgia del Triduo, noi crediamo che sia accaduto qualcosa di così speciale che ha portato una luce nuova sul senso della storia e della nostra vita.
Se vi sembrano parole strane, chiedetevi e chiediamoci: perchè siamo qui oggi?
Cosa ci ha attratto, cosa ci spinge a partecipare alle celebrazioni di questi santi giorni?
Forse per qualcuno può essere l’abitudine, il ricordare un’atmosfera antica di famiglia, una certa commozione che ci prende nel vedere i nostri bambini sui quali tra poco, come Gesù allora, ripeterò il gesto della lavanda dei piedi.
Ma, o cerchiamo di entrare nel senso profondo del Giovedì Santo, oppure anche oggi usciremo da qui come ci siamo entrati.
Allora chiediamoci: cosa stiamo facendo?
Stiamo facendo memoria della cena pasquale nella quale Gesù ha offerto sé stesso ai suoi discepoli, e alla moltitudine, per mostrare loro quello che sarebbe accaduto il giorno successivo.
In quella notte nella quale Gesù venne consegnato, egli volle lasciare ai suoi discepoli, fino al suo ritorno, un segno della sua presenza.
Perché noi abbiamo bisogno di segni: non ci bastano i sentimenti, non ci bastano le parole. Spesso i sentimenti sono fugaci, e le parole rischiano di essere un’esperienza soltanto intellettuale.
Perciò Gesù ci lascia un segno: un pasto, un evento così normale per noi, ma diventato speciale da quel momento in poi.
Un segno che trova origine nella volontà di Gesù: l’evangelista Luca ci ha tramandato la sua parola iniziando la cena: «Ho desiderato con tutto me stesso di mangiare questa pasqua con voi prima che io soffra»: è stato un esplicito desiderio di Gesù. E il vangelo di oggi ci ha ricordato che in quella sera Gesù ha amato i suoi fino alla fine, cioè in una misura unica, totale e definitiva, e lo ha mostrato loro attraverso la lavanda dei piedi, gesto riservato allo schiavo nei confronti del proprio padrone.
Dunque la cena pasquale, quella che per noi è diventata l’eucaristia, è un desiderio ardente di Gesù ed è un segno del suo amore totale per noi suoi discepoli.
Non è qualcosa che facciamo noi, che confezioniamo noi con la nostra buona volontà, con le nostre azioni: è qualcosa di totalmente e intimamente suo che egli offre a noi.
Tant’è vero che i discepoli non capiscono, sono recalcitranti, non si spiegano come mai uno di loro lo tradirà, visto che sono tutti uniti a mangiare dallo stesso piatto.
Non comprendono come un gesto di così intima unione e amicizia da parte di Gesù, sia fatto con persone, loro, noi, che lo tradiranno, lo rinnegheranno, lo abbandoneranno e si disperderanno. Si rifiutano di credere che lo lasceranno solo, promettono anzi di dare la vita per lui! Si sentono soggettivamente suoi amici, ma ancora solo a livello psicologico, come dimostreranno i fatti.
Perché proprio questo non è comprensibile: noi non invitiamo a cena una persona che sappiamo parla male di noi, o che peggio ci fa lo sgambetto, ci imbroglia, ci abbandona nel momento della necessità. Stiamo ben alla larga da chi ci ferisce e contribuisce alla nostra tristezza. Ci circondiamo di persone che ci rendono felici, e che vogliamo far felici a nostra volta. Non siamo disposti a stare a tavola con una persona che sappiamo ci tradirà appena uscita.
Il mistero pasquale invece diventa per noi discepoli quell’occasione che il Signore ci offre sempre di riscoprire quanto ama gli uomini, quanto è disposto a fare pur di non perderci, anche se noi ci perdiamo.
Qualcuno talvolta afferma: «In fondo a me basta Cristo dentro di me, mi basta sentirlo quando prego in casa mia», e pensa di essere comunque a posto, in pace, di essere cristiano, di essere meglio di quelli che vanno in chiesa, che sono i peggiori... Un po’ come Pietro: Se anche tutti ti rinnegassero, io no!
Ovviamente non si tratta di giudicare le intenzioni o il cuore di chi dice così... però io mi chiedo: Se Gesù ha avuto questo desiderio, così forte, così impellente, se ha fatto questi gesti verso i suoi discepoli, comandando a noi di ripeterli per fare così una memoria viva e attuale di lui, non solo un ricordo del passato, se ha amato così fino alla fine... e noi non lo accogliamo per quello che è, mi chiedo: che tipo di cristianesimo ci costruiamo? Stiamo semplicemente confezionando una religione a nostra misura, non stiamo facendo quello che Gesù ha voluto fare ai suoi discepoli... e quindi in sostanza possiamo dirci cristiani?

Essere cristiani non è celebrare riti, liturgie e cose simili, e poi dimenticarsi del prossimo, del fratello, dello straniero: su questo siamo d’accordo. Ma essere cristiani non significa neppure fare del bene al prossimo dimenticando quei segni, che sono i sacramenti, che Gesù ci ha lasciato, e che troviamo nella Chiesa, la comunità dei discepoli.
Un discepolo sa che per seguire Gesù è necessario alimentare continuamente il nostro rapporto con lui, così come lui l’ha pensato per noi e come ci è stato trasmesso: ha detto: «Fate questo in memoria di me», questo, prima che altro... (Paolo)
Per non cadere nell’illusione che basta avere Gesù nel cuore per essere cristiani.
Gesù nel cuore lo possiamo avere se viviamo come lui ci ha insegnato e come lui ci dà di vivere con la sua forza che nasce in quella ultima sera, che nasce il venerdì santo, che nasce la domenica di Pasqua: allora la nostra fede diventa autentica, perché si misura sul metro non del nostro cuore, ma del Suo cuore, del suo amore.
Così ritorno alle due domande iniziali: Perché siamo venuti qui stasera? Cosa facciamo stasera?
Ognuno di noi, ora, in un momento di silenzio, prima di ripetere la lavanda dei piedi, si ponga questa domanda, e si lasci interrogare dalla passione di Gesù, dal desiderio di Gesù per noi, dal suo amore per noi fino a chinarsi davanti a noi per lavarci i piedi.
E con questa autenticità stiamo davanti a lui, a costo di sentirci rispondere qualcosa che non ci piace: che uno di noi lo tradirà, che stanotte stessa non sapremo vegliare un’ora con lui, che tutti ci disperderemo per paura delle conseguenze.
E sentirci rispondere ancora e sempre: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Se non ti lasci avvicinare, non posso condividere la mia vita con te. Se non accetti di fare pasqua con me, di ricevere il perdono, io ti lascio libero, non ti costringo neppure a farti perdonare.

Ma se accetti scoprirai la mia amicizia, la mia consolazione, scoprirai una forza mai avuta prima. La forza dell’amore, di un amore capace di andare fino alla fine.

domenica 25 marzo 2018

Omelia per la Domenica delle Palme "De Passione Domini"


O uomo sconosciuto della brocca, che hai avuto l'unico "merito" di indicare ai discepoli la casa dove avrebbero preparato per fare Pasqua con il Maestro, insegnaci a servire nella comunità senza fare conti, senza calcolare, senza voler essere sempre ringraziati, sempre ricompensati, sempre importanti.
Il vangelo di oggi ci racconta di gente che calcola: un profumo di 300 denari; la vita del maestro che si può comprare con dei soldi; le sue vesti, vinte da un soldato giocando a dadi...
O uomo sconosciuto della brocca, insegnaci a non fare conti nella vita e nella fede!
Gerusalemme - Orto degli Ulivi

Perché alla tua mensa, Signore Gesù, nessuno è escluso.
Ce lo hai confermato quando hai offerto il calice: Il mio sangue versato per la moltitudine.
Versato per Arnaud, gendarme francese, che da non molto aveva riscoperto la fede e si doveva sposare a giugno col sacramento, che due giorni fa si è offerto al posto di una donna ostaggio di un terrorista a Trèbes, in Francia.
Versato per Beauty, Bellezza, che ha incontrato invece la bruttezza di questo mondo nelle sembianze dei gendarmi al confine francese, che l’hanno respinta. Beauty era nigeriana, portava un bambino in grembo, era gravemente malata ed è morta dopo aver dato alla luce una creatura di 700 grammi, che hanno voluto chiamare profeticamente Israel, che speriamo vinca la battaglia della vita. Suo marito era sans papier, senza documenti, come dicono loro, e lei non l’ha voluto abbandonare. Perché in questo mondo se non hai i documenti tu non sei nessuno, non basta più guardarci in faccia, temiamo alzare lo sguardo per incontrare quello del fratello.
Sangue versato persino per i gendarmi che li hanno respinti.
Versato, ed è qui che ho i brividi a dirlo, anche per me, che sono tuo prete, e che spesso rifiuto questa tua carezza sulla mia vita, Signore.
Prendete, è per voi! È gratis.
Non una palma io vi offro per sanare la vostra sete, per guarire la vostra infermità, ma la mia stessa amicizia, che non chiede nulla in cambio. Avrete il coraggio di accettarla?

O donna di Betania, anche tu senza nome. Insegnaci a far spreco del nostro amore al Signore, nonostante le critiche dei benpensanti, di coloro che si riempiono la bocca di parole come “poveri”, “carità”, “solidarietà”, e che poi però la carità vorrebbero farla con i soldi degli altri, che non sono disposti a metterci del proprio, a giocarsi la vita.
Sì, Signore, forse esagero e non dovrei giudicare, ma l’hai detto tu: “Lasciatela in pace, perché la infastidite? Ella ha compiuto una buona azione verso di me”.
Insegnaci, donna di Betania, a non separare mai l’amore a Gesù dall’amore al prossimo, soprattutto se povero. A non fare della nostra carità una bandiera da mostrare orgogliosi agli altri, ma semplicemente la naturale prosecuzione di un amore che inizia nella tua croce, anzi, nel tuo sepolcro, quando l’amore sembra definitivamente chiuso nella tomba.
Fa’ che nella nostra comunità non ci giudichiamo per vedere chi fa di più e come lo fa, ma che sappiamo riconoscere i gesti di bontà di chiunque, ed apprezzarli, come fatti a Te, Signore Gesù.

Insegnaci tu, Simone di Cirene, oggi e sempre, a portare la croce insieme a coloro per i quali essa è troppo pesante. Sappiamo che anche noi abbiamo un Alessandro e un Rufo che ci attendono a casa, che forse hanno già pronto il pranzo per noi, ma tu ricordaci che fermarsi a soccorrere un disgraziato è un atto di carità, non solo una costrizione impellente fatta con la punta della spada di un soldato romano.
Facci scoprire, al di là delle nostre comodità, che portare la croce con qualcuno che non ce la fa è ancora un gesto noto alle nostre famiglie, alle nostre amicizie, alla nostra comunità cristiana.
Che è più importante sollevare il legno della croce dalle spalle di un povero cristo, che portarsi un ramo di ulivo a casa e non guardare in faccia mio fratello.

Facci sentire, Signore, che ancor prima che il gallo canti, ricordandoci i nostri tradimenti, tu ci hai amato di amore eterno, ci conservi pietà a causa della nostra disgraziata paura. Che il nostro pianto nel ricordare il tuo annuncio di tradimento imminente, non può e non deve mai essere di disperazione, ma sempre di rinnovamento e di gratitudine.
George de la Tour - Tradimento di Pietro


O Signore, noi sappiamo che ti dimentichiamo troppo spesso, che ti rinneghiamo, ti misconosciamo, ma tu ricordi anche a noi ciò che dicesti ai tuoi discepoli quella notte: Vi scandalizzerete, sì, cadrete tutti, nessuno escluso. Ma dopo che sarò risorto, io camminerò di nuovo davanti a voi, e voi dietro di me: cioè io non vi rifiuto mai! Vi ho chiamati a seguirmi, e anche quando cadete, io continuo a invitarvi a seguirmi.
Perché questo è il senso del tuo morire: un prendere su di te la nostra sofferenza, persino la nostra incomprensione verso di te, persino il nostro tradimento.
Non da supereroe, ma da uomo, da amante, da amico, da padre.
E dirci che ci ami. E che vuoi che anche noi ripartiamo da qui, a vivere la nostra vita come te.
Facile? Difficile? Che importa tutto questo, se tu sei con noi, se tu hai promesso che ci precedi, se tu sei il nostro pastore mite, che cavalca un puledro d’asina?
Torino - Cappella del Sermig

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
sono una caricatura d’uomo
disprezzato dal popolo
Si burlano di me su tutti i giornali
Mi circondano i mezzi blindati
le mitragliatrici sono puntate su di me
ho intorno il filo spinato
filo spinato elettrico.

Tutto il giorno mi chiamano all’appello.
Mi hanno tatuato un numero
mi hanno fotografato tra il filo spinato
e come in una radiografia
si possono contare tutte le mie ossa.
Mi hanno strappato la mia identità
Mi hanno condotto nudo alla camera a gas
e si sono divise le mie vesti e le mie scarpe
Grido chiedendo morfina
e nessuno mi ascolta
grido con la mia camicia di forza
grido tutta la notte
nell’ospedale dei malati mentali
nel reparto dei malati incurabili
nell’ala dei malati contagiosi
nel ricovero degli anziani
agonizzo bagnato di sudore
nella clinica dello psichiatra
soffoco nella camera d’ossigeno
piango nel posto di polizia
nel cortile della prigione
nella camera di tortura
nell’orfanotrofio
sono contaminato dalla radioattività
e nessuno mi si avvicina per timore di contagio

Ma io potrò parlare di te ai miei fratelli
Ti esalterò nella riunione del nostro popolo
Risuoneranno i miei inni
in mezzo a una gran folla
I poveri prepareranno un banchetto
Il nostro popolo celebrerà una gran festa
il popolo nuovo che sta per nascere (Ernesto Cardenal)

sabato 24 marzo 2018

Dio mio perché mi hai abbandonato? (Salmo 21)


Bartolomeo Schedoni - Ultima Cena (Pinacoteca di Parma)



Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
sono una caricatura d’uomo
                       disprezzato dal popolo
Si burlano di me su tutti i giornali
Mi circondano i mezzi blindati
le mitragliatrici sono puntate su di me
ho intorno il filo spinato
                       filo spinato elettrico.

Tutto il giorno mi chiamano all’appello.
Mi hanno tatuato un numero
mi hanno fotografato tra il filo spinato
e come in una radiografia
si possono contare tutte le mie ossa.
Mi hanno strappato la mia identità
Mi hanno condotto nudo alla camera a gas
e si sono divise le mie vesti e le mie scarpe
Grido chiedendo morfina
e nessuno mi ascolta
grido con la mia camicia di forza
grido tutta la notte
nell’ospedale dei malati mentali
nel reparto dei malati incurabili
nell’ala dei malati contagiosi
nel ricovero degli anziani
agonizzo bagnato di sudore
nella clinica dello psichiatra
soffoco nella camera d’ossigeno
piango nel posto di polizia
nel cortile della prigione
                       nella camera di tortura
                            nell’orfanotrofio
sono contaminato dalla radioattività
e nessuno mi si avvicina per timore di contagio

Ma io potrò parlare di te ai miei fratelli
Ti esalterò nella riunione del nostro popolo
Risuoneranno i miei inni
in mezzo a una gran folla
I poveri prepareranno un banchetto
Il nostro popolo celebrerà una gran festa
il popolo nuovo che sta per nascere

(Poesia del poeta e monaco nicaraguense Ernesto Cardenal, da Grido. Salmi degli oppressi, Cittadella Editrice)

mercoledì 21 marzo 2018

Meditazione quaresimale (Vangelo di Marco 14, 1-31)


Lectio Adorazione quaresimale con gli operatori pastorali dell’Unità Pastorale
Villacidro – 20 marzo 2018

Dal vangelo secondo Marco (14,1-31)


1. Che senso ha tutto questo?
14 1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Mancano pochi giorni alla festa di Pasqua, festa della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, ma anche attesa del Messia, del liberatore ultimo e definitivo. E i capi hanno anch’essi qualcuno di cui liberarsi, qualcuno da catturare di nascosto, perché la gente si fida di lui, lo segue, lo osanna. Essi pensano di essere più liberi, liberandosi di lui, di far rispettare la Legge, di glorificare il nome di Dio. Pensano che questo maestro in fondo sia soltanto un bugiardo, un impostore.
La festa degli Azzimi, del pane non lievitato, del pane cotto in fretta, perché in fretta bisognava partire dall’Egitto, il giorno in cui si eliminava dalla casa il lievito, diventa il giorno in cui il lievito del male aumenta a dismisura fino a raggiungere proporzioni catastrofiche, fino a toccare la misura stessa di Dio. Il lievito del male cresce e sembra che nulla possa arginarlo, meno che mai un Maestro che a breve si farà consegnare, tradire, arrestare e crocifiggere.
La domanda che il Vangelo di Marco si pone, raccontandoci la passione, è dunque: che senso ha una vicenda così assurda?
Che senso hanno le nostre vicende così assurde, le vicende del mondo, della storia, così maledettamente feroci, così disgraziatamente lievitate da aver preso anche lo spazio della buona pasta?
Che senso dobbiamo aspettarci dal male?
Mettiamo questa domanda davanti a questo Pane azzimo, la presenza di Gesù Cristo in mezzo a noi, perché Egli ristabilisca la giusta proporzione, e ci aiuti a percepire la sua silenziosa vittoria sul lievito del male.

2. Ha fatto qualcosa di buono per me
3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Ci sono sempre delle donne attorno a Gesù. Fateci caso: nessuna donna nei Vangeli è dipinta a tinte fosche, nessuna che faccia qualcosa di equivoco, che da Gesù non sia ricondotto a un pensiero più grande, nessuna che si comporti male nei suoi confronti... A differenza dei giornali scandalistici, i Vangeli ci riportano azioni di maschi contro Gesù, sotterfugi, tradimenti, gelosie, accuse false... Non che le donne non ne siano capaci, ma è come se i Vangeli custodissero e alimentassero una visione positiva della donna che non ammette repliche. E non diciamo questo per far contente le donne, ma perchè questo è il dato delle Scritture.
Così questa donna che a Betania, in casa di un personaggio famoso, forse un fariseo, Simone il Lebbroso, unge il capo di Gesù con nardo profumatissimo, sarà ricordata per sempre come colei che “ha fatto qualcosa di buono” a Gesù, che ha compiuto un gesto di amore e di tenerezza nei suoi confronti.
All’epoca di Gesù le donne non erano ammesse ai banchetti se non per servire, e già qui la prima stranezza: questa donna si avvicina a Gesù da dietro, mentre tutti sono sdraiati per consumare il pasto, portando un vaso di alabastro pieno di profumo di nardo, costosissimo e glielo versa sui capelli. Ci ricorda la sposa del Cantico dei Cantici quando afferma: «Mentre il re è sul suo divano, il mio nardo effonde il suo profumo» (Ct 1,12).
Questa donna dunque agisce da amante, da persona che ama, da persona che vuol bene a Gesù.
Il suo gesto di confidente e intima tenerezza verso il maestro produce irritazione tra i convitati: una quantità così grande di nardo, corrispondente alla paga di un intero anno a un contadino, non poteva essere venduta per darne il ricavato ai poveri?
Si pensano sempre paladini dei poveri, coloro che non comprendono la delicatezza verso il Cristo.
Vorrebbero far sentire in colpa la donna, fremendo contro di lei e accusandola. Ma è Gesù che accusano in fondo, accusando lei: pensano di essere nel giusto perché hanno sempre in bocca i poveri.
Ma è facile fare l’elemosina coi soldi altrui: del loro però non rischiano nulla!
Permalosi perché superati in tenerezza da una donna, incapaci di provare sentimenti, pronti soltanto a sputare sentenze.
E Gesù con pazienza a dir loro che non c’è opposizione tra l’onore a lui tributato, anticipazione di una sepoltura fatta troppo in fretta e senza alcun unguento profumato, e il servizio ai poveri, che abbiamo sempre vicino.
Non esiste una Chiesa della liturgia e una Chiesa dei poveri: esiste una sola Chiesa, la Chiesa di coloro che sono ricchi soltanto di Gesù, e che lui solo adorano, lui solo annunciano, lui solo amano anche nella carne sofferente dei poveri.
L’Eucaristia è qui a farci memoria del mistero di una presenza che non si scorge a uno sguardo superficiale, davanti al quale in fondo quello è solo un pezzo di pane. Così come lo sguardo superficiale vede nei poveri soltanto delle persone da aiutare, e non il Signore da amare. Il povero è il sacramento di Cristo: non c’è distanza tra l’adorazione del suo corpo eucaristico e il servizio del suo corpo fisico nei poveri.
Ah, se davvero capissimo questo, eviteremmo tante inutili beghe, tanti inutili distinguo, tante sterili opposizioni tra vita attiva e vita contemplativa.
Allora comincia a svelarsi il senso di una storia così assurda: Gesù, profumato dalla donna, Gesù povero anche lui, bisognoso di una carezza amica, trova in questo gesto il senso del suo imminente destino di Messia abbandonato, crocifisso, sepolto in fretta e furia, senza neppure gli onori dovuti ai morti: «Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura».
Davanti all’Eucaristia sostiamo allora chiedendo perdono per tutte le volte che abbiamo contrapposto l’amore a Dio e l’amore ai poveri, per tutte le volte nelle quali ci siamo scandalizzati perché la tal persona offriva del suo meglio a Gesù, e ci siamo nascosti dietro il paravento dell’amore ai poveri per giustificare la nostra tiepidezza.

3. Giuda, il mistero del male
10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Irrompe così violento il male, davanti a un gesto di tenerezza femminile, di estrema devozione a Gesù.
Sempre così il male: nasce dalla visione del bene che viene considerato pericoloso, sovversivo, troppo limpido, troppo buono. Il male nasce dalla contemplazione del bene, a dirci che non basta essere presenti nella cerchia di Gesù, essere uno dei Dodici, contemplare la sua presenza in mezzo a noi, per garantirci che il male non abiti in noi.
Se non si accetta di condividere quel destino di morte e sepoltura, se non si accetta la logica del chicco di grano che se non cade in terra e muore non porta frutto, non si può capire neanche Gesù.
Giuda diventa il capo degli eterni delusi e scontenti, che ciclicamente “vendono Gesù”. La sua delusione non lo porta a trovare una strada per crescere e migliorare, a raddrizzare nuovamente la strada verso il Regno, ma ad abbandonarla.
Qui la logica del mondo, cinica e desiderosa di far fuori Dio, rappresentata dai capi, si incontra tristemente con la logica ferita del Regno, di chi non vuole accettare un Regno non influente alla maniera mondana, rappresentata da Giuda. E tristemente queste due logiche si incontrano in un accordo economico, perché quando spariscono gli ideali entrano in gioco sempre i denari, entra in gioco l’utilitarismo e la domanda non è più: «Questa azione è giusta o è sbagliata?», ma piuttosto, «Questa azione mi torna utile oppure no?».
È la logica di un’umanità al ribasso, dove tutto diventa utile possibile, guadagno possibile, fruizione istantanea.
E i delusi sono sempre in agguato, perché spesso diventano animali feroci. In fondo lo vediamo anche nella storia della Chiesa di oggi: i delusi contro papa Benedetto, i delusi contro papa Francesco... dividere la Chiesa in tifoserie: io sono a favore, io sono contro... io sono a favore di quel prete, io sono contro... qui non si tratta del giusto diritto di critica che ciascuno ha e deve esercitare, ma di una logica di base che è fuori, chiunque sia a propugnarla, perché pensa che servire sia in realtà comandare.
Bartolomeo Schedoni - Ultima Cena (Pinacoteca di Parma)

4. Il maestro dice: Dov’è la mia stanza?
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

E così quella sera Gesù volle fare pasqua con i suoi discepoli, volle celebrare la cena più importante dell’anno con coloro che erano diventati la sua famiglia.
Ancora il Signore manda i suoi discepoli davanti a noi, e ci chiede di preparargli una bella sala, al piano di sopra, con divani e cuscini, ben arredata e confortevole, per fare pasqua con noi.
Il Maestro dice: «Dov’è la mia stanza perché io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?».
A noi che siamo saturi di impegni, di incontri, di riunioni, di attenzioni, il Signore chiede di preparare una stanza per lui, accogliente e ben disposta, silenziosa. Preparare una stanza interiore alla presenza di Dio in noi.
Mi tornano sempre alla mente le parole di Etty Hillesum, che morì in un campo di concentramento nazista:
L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi e anche l’unica che veramente conti è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì mio Dio sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all'ultimo la Tua casa in noi.
Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio Dio. E altre persone che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle Tue braccia.

5. Uno di voi mi tradirà
17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». 20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

I Dodici sono i testimoni di questa cena. Noi non abbiamo avuto questa possibilità, non vediamo Gesù risorto, ma conosciamo i fatti e gli effetti della risurrezione, effetti comprensibili e visibili però soltanto a chi crede. Altrimenti resta un bell’evento del passato, una ultima e definitiva cena dove Gesù ha comunicato un ricordo di sé e tutto finisce lì.
Raccontandoci l’ultima cena invece, Marco e tutti gli evangelisti, hanno voluto consegnarci il senso più profondo della nostra fede e della Chiesa: la Chiesa non è la comunità dei perfetti, dove tutti sono in gamba, bravi, buoni e belli.
È «Uno di voi», «Uno dei Dodici» (l’unica volta che Marco utilizza questa definizione per parlare di un apostolo, la usa per Giuda! Che grande mistero!) a consegnare Gesù ai suoi assassini.
Ritorna prepotente la presenza del male attraverso «colui che mangia con me, che intinge il suo pane nel mio stesso piatto»: mistero del male, mysterium iniquitatis.
Il male è compiuto da chi sta vicino a Gesù, da chi gli sta più vicino. Quante volte abbiamo accusato chi sta fuori di fare il male, di allontanarsi da Dio... Il Vangelo ci invita a guardare dentro il Cenacolo, non per cercare colpevoli, ma per trovare senso al male. Che senso ha tutto questo?
In questa scena Marco ci dice che se anche il male allontana da Dio, Dio non si allontana dal malvagio, anzi, accetta che egli stia a tavola con lui!
Per Gesù non c’è nessuno di veramente perduto: tutti sono figli e fratelli invitati al banchetto preparato; c’è spazio per tutti. Se te ne vai, qualunque sia la giustificazione che ti dai per ammantarla di buoni sentimenti, te ne vai sempre coi tuoi piedi.
Comprendere questo atto di totale fiducia nell’uomo che Gesù compie nell’Ultima Cena, intingendo allo stesso piatto del suo traditore, intingendo nel piatto insieme a coloro che lo abbandoneranno quella stessa notte, lavando loro i piedi come vedremo Giovedì Santo! Questo significa entrare nell’Eucaristia!
Questa è l’Eucaristia: il suo corpo donato e il suo sangue versato per la moltitudine, cioè per tutti. Perché nel cuore di Gesù non ci sono distinzioni.
Entrare in quella stanza, farlo entrare nella nostra stanza interiore preparata per lui, senza questa disposizione massima di apertura, significa tradire il senso dell’Eucaristia.
Altri possono avercela con me, altri possono accusarmi e tradirmi, ma io, per parte mia non voglio avercela con nessuno, non voglio accusare nessuno, non voglio tradire nessuno.

6. Anche se tutti, io no!
26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:
Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.
28Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». 29Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». 30Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». 31Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Bartolomeo Schedoni - Tradimento di Pietro (Pinacoteca di Parma)

Quante volte abbiamo detto le stesse parole di Pietro. Quante volte ci è facile accusare il Giuda che vediamo fuori, e non ci accorgiamo del Pietro che ci abita!
Nella sua sapienza il Vangelo ci mette in guardia dalla presunzione di essere migliori. Anche se tutti cadranno, io no! Il male sono sempre gli altri, a farlo.
Io no, Signore. Io sono tuo fedele discepolo, sono disposto a morire con te pur di non rinnegarti. Povero Pietro, e poveri tutti gli altri.
Fino alla fine, sulla strada che li porta al Getsemani, Gesù li terrà in guardia sui loro sentimenti, sulle loro paure irrazionali, sulle loro fughe.
A volte prendiamo il Vangelo come un ricettario in cui cercare un modo di comportarci, e i comandamenti come la formula della serenità.
Ma dimentichiamo facilmente che anzitutto il Vangelo ci racconta di una strada fatta di inciampi, di cadute, di rinnegamenti, di allontanamenti. Cioè ci racconta la nostra vita, dicendo che quegli inciampi, quelle cadute, quegli allontanamenti Lui li ha messi in conto, e ci ama così, strafottenti, boriosi, presuntuosi.
Sempre dirò che dopo la sua risurrezione Gesù non si è rivolto ad altri discepoli, non ha cercato altri e buttato fuori questi dal cenacolo... è andato a trovarli proprio in quella stanza dove tutto era gioia, seppure mescolata a un presentimento, a una tristezza incombente.
È andato a trovarli lì, per mostrar loro le sue ferite, per dire loro «Pace a voi!».
Ancora sta in mezzo a noi, non si allontana disgustato da noi, ci accoglie, ci conosce. Vuole ancora fare pasqua con noi.
Solo ci chiede di stare con lui, e di imparare a vivere da persone eucaristiche, capaci cioè di diventare un dono per gli altri, una benedizione, di essere pane spezzato e vino versato sul mondo, su tutti e per tutti, perchè l’Eucaristia trasformi ogni relazione, ogni gesto, ogni persona, persino le pietre e gli alberi, perché anche da noi, povere creature, salga l’inno di benedizione e di lode:

10«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
perché è stato precipitato
l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
11Ma essi lo hanno vinto
grazie al sangue dell’Agnello
e alla parola della loro testimonianza,
e non hanno amato la loro vita
fino a morire.
12Esultate, dunque, o cieli
e voi che abitate in essi!».
Amen.
(Ap 12, 10-12)


Renato Zero - Ti andrebbe di cambiare il mondo?