sabato 27 maggio 2017

Pensieri sulla festa dell'Ascensione

Gerusalemme alla sera (foto B.Bignami)
E tu chi sei che vieni e te ne vai e prometti di stare con noi sempre?
Che vuoi adoratori in spirito e verità, ma sai che questi adoratori, nel mentre che adorano dubitano?
E io chi sono che adoro e dubito ad un tempo? E che pure, nonostante tutto, tu mi comandi di andare in tutto il mondo, di fare discepoli, discepoli tuoi, beninteso, non miei, chè sarebbe un pessimo affare per loro e per me, se qualcuno volesse seguirmi. Discepoli tuoi, perché conosciamo la grandezza e la potenza della tua risurrezione... eppure, sai, Signore, sono allergico a quelli che vanno proclamando di avere una fede enorme in te, a quelli che dicono: credo con tutto il cuore, a coloro che non sono mai sfiorati, non dico da un dubbio, ma da una tristezza, da una nostalgia di cose diverse...
E io sono ancora così, che guardo il cielo quando dovrei guardare la terra. E che guardo la terra quando dovrei pensare alle cose di lassù.
O Signore, risorto e asceso! Forse sarebbe stato meglio che non ci avessi dato questo comando, di annunciare tutto quello che hai comandato. Che fossi entrato direttamente in ogni cuore...
Cos’è infatti questo tutto?
Sai, o almeno dovresti sapere, noi siamo fatti in modo tale che quando vogliamo abbracciare una totalità, inevitabilmente ci limitiamo a un pezzettino. Lo facciamo con cose tipo l’amore per una persona, la passione per un lavoro, la durezza verso ciò che non ci piace.
Tutto ci spaventa... fosse un pezzettino potremmo farcela.
Del resto, tu hai forse conservato tutto e tutti?
Non siamo forse undici qui su questo monte? E il dodicesimo dov’è? Inghiottito proprio dalla sua brama di volere tutto...
Eppure il tuo è un tutto diverso. Non so come dire, ma è un tutto che si fa ogni. Tutto l’amore in ogni creatura, tutto Dio in un singolo uomo, tutto te stesso in un bicchiere d’acqua.
Tutto presente in un pezzo di pane.
Discepoli, tutto, parole che tolgono il fiato.
Parole che se non le avessi dette tu, noi non ci saremmo azzardati a metterci su questa strada.
E allora ritorno alla domanda iniziale: Chi sei tu che sei venuto e te ne vai, ma dici di stare con noi sempre?
Tu sei colui che ha ogni potere in cielo e in terra, ma non come il Comandante in capo delle forze armate, di terra di cielo e di mare.
Il tuo potere è quel tutto di amore che metti nel cuore degli uomini per farne tuoi discepoli.
Il tuo potere è quel nulla che sono io, adoratore dubbioso, trasformato in discepolo tuo, trasformato in uno che insegna agli altri a diventare discepoli. Che brivido mi corre per la schiena. Davvero devi stare con me ogni momento, sennò rischio di combinare guai.

Mosaico nella Stazione Ottaviano -Metro A - Roma
L’hai promesso. Ricordatelo.



mercoledì 24 maggio 2017

La gioia è sempre di Dio, la tristezza del diavolo

Che tristezza leggere riflessioni episcopali di questo tipo. Che tristezza fare analisi così negative della società, come se tutto andasse a catafascio, come se non esistesse più la differenza tra bene il male, con una totale sfiducia sulle capacità degli uomini e delle donne di riconoscere il bene dal male, capacità insita nella creazione, in quel mistero di corpo e anima che noi siamo, così come ci ha voluti Dio, plasmati guardando il suo unico Figlio.
Che tristezza leggere queste riflessioni a caldo su un fatto così tragico come un attentato terroristico, dove – come afferma egli giustamente – l’atteggiamento più adatto è il silenzio.

«Nessuno vi ha dato delle ragioni adeguate per vivere», dice Negri. Ma scusi, che ne sai lei, monsignore? Che ne sa di quelle famiglie, di chi sono i genitori, di chi sono i nonni, gli insegnanti? Il fatto che vivano in una società “liquida” le fa fare l’automatismo che essi sono dei debosciati solo perchè vanno a un concerto di una cantante americana (di cui peraltro non ricordo neanche il nome, perchè son cose da ragazzini, lo ammetto, ma non in sé stupide perchè da ragazzini).
Forse faccio il processo alle sue intenzioni, come lei l’ha fatto alle intenzioni delle vittime, ma per il solo fatto di partecipare a un concerto a Manchester le sembra che possa etichettare i morti e l’intera generazione come gente che non ha ragioni adeguate per vivere?
Ma davvero lei crede che cantare a squarciagola, commuoversi pensando al proprio fidanzatino, alle proprie amicizie, abbracciarsi con l’amica del cuore, sorridere ai propri genitori che hanno dato il consenso (forse dopo molti “no”) a partecipare a un concerto, ma davvero lei crede che tutte queste cose siano espressione di una «Vita sprecata non per colpa vostra ma per colpa dei vostri adulti»?

Lei sa, eccellenza, dovrebbe almeno sapere, che dove c’è la gioia, persino dove c’è l’allegria spensierata, lì il diavolo non può entrare, perchè il regno del Male (sì di quella persona – per quanto chiamarlo persona a tutti gli effetti sia forse eccessivo, ma non stiamo a discutere di sottigliezze filosofiche) è il regno della Tristezza, imposta e regalata ai suoi adoratori. Lei sa che il piacere l’ha creato Dio, e che ogni scintilla di piacere, anche quella che nasce da una situazione sbagliata è una potentissima apertura verso Dio e non la porta spalancata dell’inferno. Lei sa che ogni gioia autentica, ogni allegria sincera, anche quella effimera che dura una sera e poi non c’è più, l’ha fatta Dio.
Lei lo sa, perchè allora ragiona così?
Foto Renato Patat

Lei dice: Poveri voi, vi hanno insegnato due cose sbagliate, che sono il cardine della vostra vita: «Due grandi principi: che potete fare quello che volete perchè ogni vostro desiderio è un diritto; e l’importanza di avere il maggior numero di beni di consumo».
È vero, questa società è consumistica, è una società dei molti diritti e dei pochi doveri. Ma lei è sicuro che questa generalizzazione sia adeguata?
Soprattutto lei è sicuro che tutto ciò sia colpa (visto che lei cerca le colpe) dei loro genitori?
Soprattutto lei è sicuro che pur essendo questi principi largamente diffusi, non resti nel cuore dell’uomo, di ogni uomo, l’anelito a qualcosa di più di ciò che è immediatamente consumabile e del soddisfacimento dei suoi desideri?

«Non dimenticheranno di mettervi sui marciapiedi i vostri peluche, i ricordi della vostra infanzia, della vostra prima giovinezza»: che tristezza (non diabolica), mi permetta, eccellenza, che lei che è un uomo di Chiesa, un uomo di Dio, ma pur sempre prima di tutto un uomo, derida un’usanza così umana, direi così intima, come quella di circondare i morti di ciò che in vita era a loro caro.
Lei sarà seppellito, se le faranno il funerale in cattedrale (tra parentesi i funerali degli ultimi papi li hanno fatti in piazza: andava bene lo sfondo del colonnato del Bernini o era troppo naturalistico e antropomorfico?), sarà seppellito con le vesti episcopali (anello e croce no, perchè quelli son preziosi e son destinati al museo diocesano o a qualche amico candidato all’episcopato), le metteranno una stola sulla bara, forse il vangelo.
Sono segni di ciò che è stato caro prezioso, importante per la sua vita.
Lei sa, conosce il valore dei segni, per essere così sprovveduto da deridere una usanza simile.
Cosa vorrebbe che un ragazzino di 13 anni venisse ricordato col Messalino domenicale o con lo Zibaldone di Leopardi?
Suvvia eccellenza. A me pare che quella sua definizione di «vecchio vescovo» sia una sorta di captatio benevolentiae untuosa (ancora le faccio il processo alle intenzioni, sì, lo ammetto). Lei scrive queste cose né perchè è vecchio né perchè è vescovo, lei scrive queste cose perchè non ha fiducia in Dio e non ha fiducia nell’uomo.

Il nostro comune Maestro, a me pare, non ragionava esattamente così. Scacciava le prefiche dalle stanze dei morti, allontanava i demoni, combatteva il Male e la mancanza di vino... portava la gioia, anche in quelle forme più umane e “laiche”, se così vuol chiamarle, dell’allegria di una festa. Era considerato un mangione e un beone, quello che noi diremmo oggi “uno che si diverte”. Era considerato... che significa: vedevano in lui solo l’esteriorità di uno che si portava al centro di ogni festa a Cafarnao come a Gerusalemme, senza vedere in profondità da cosa originava la gioia che irradiava.
Mi spiace, eccellenza, ha perso un’occasione per tacere, come auspicava lei stesso nel suo articolo.
E ha dato a me una ragione di peccare.
Ma questa è una mia colpa, non gliela accollerò neppure in confessionale.
Henri Matisse, Icaro

domenica 21 maggio 2017

Omelia per la festa di San Bernardino da Siena - Mogoro

Cari fratelli e sorelle.
La festa del vostro santo patrono è una bella occasione per parlare di un tema che è stato il centro della vita di san Bernardino, e che certamente è riecheggiato nella liturgia della Parola di questa sesta domenica di Pasqua. Il tema è l’evangelizzazione.
Possiamo affermare infatti che tutta la sua vita, Bernardino la passò a evangelizzare, con lo studio, con la preghiera, con la predicazione, con il governo dell’ordine dei frati minori.
A me pare che l’evangelizzazione abbia almeno tre caratteristiche.
La prima: essa è testimonianza di vita di tanti poveri cristiani, persone semplici e umili, come Filippo, come Pietro, come Giovanni, come tante umili persone, la cui vita rispecchia la bellezza del vangelo e della vita in Gesù Cristo. Persino i samaritani si convertono, ci raccontano gli Atti degli Apostoli! Qui non si tratta solo di prediche, ma di una testimonianza di vita.
Ma l’evangelizzazione non è fatta soltanto di una testimonianza che chiameremmo “privata”, di una «adorazione del Signore Cristo nei nostri cuori». Essa ha anche una seconda caratteristica: è apostolato esplicito, pubblico, secondo l’esortazione di San Pietro che abbiamo ascoltato: «Pronti sempre a rendere ragione (logos) della speranza che è in voi», potremmo quasi tradurre: pronti a mostrare la logicità, l’aderenza a Gesù Cristo (Logos) della vostra speranza. Questo spiega il grande impegno che per decenni Bernardino applicò allo studio della Parola di Dio e alla Teologia.
Occorre coraggio e non timore, come ne occorreva ai suoi tempi per predicare la pace a città in guerra tra loro. Occorre coraggio e non timore non per conquistare spazi nella società, per avere una tribuna da cui parlare, ma perchè ciò che noi siamo interroghi l’altro, soprattutto lo scettico, il non credente, l’agnostico, soprattutto tra i giovani e i giovani adulti, quel «mondo che non vede e non conosce lo Spirito», e dunque non può riceverlo!.
Il problema oggi è che noi non siamo più una domanda per il mondo, quindi nessuno ci chiede più ragione della speranza che dovrebbe essere in noi!
Quali sono le cause di questa nostra insignificanza nel mondo contemporaneo?
Certamente una fede ancora troppo acerba tra i cristiani, poco matura, poco convinta, poco conosciuta, che diventa fertile terreno per superstizioni e per errori di ogni genere.
Occorre una formazione più seria nella nostra vita di cristiani, in modo particolare di tutti coloro che in essa svolgono un ministero: catechisti, educatori di oratorio, capi scout, membri di confraternite, operatori della carità, ministri straordinari della comunione... etc. Tutte le attività della parrocchia sono belle, ma al centro deve esserci l’ascolto e l’approfondimento della Parola di Dio, senza i quali la Chiesa diventa una ONG.
Questo ascolto attento e profondo della Parola di Dio ci porta a una seconda considerazione: Dio non si presenta come oggetto di una campagna pubblicitaria, coi manifesti appesi ai muri, con le reclames in TV o alla radio, con i banner sul web.
Dio viene, si manifesta, dice il Vangelo di Giovanni, laddove la Chiesa realizza il mandato di Cristo: amatevi come io vi ho amati, lavatevi i piedi gli uni gli altri. «Io vivo e voi vivrete», dice Gesù: la sua presenza viva in mezzo a noi si realizza nell’amore serio, nel perdono reciproco, nella riconciliazione tra famiglie e tra parrocchiani, nell’accoglienza del povero, del diverso. Qui si realizza questa comunione intima di cui parla Gesù, tra il Padre e lui, e tra loro e il cristiano. Qui Gesù si manifesta! E questo è il senso di quella litania che pare Bernardino pronunciasse ogni giorno: «Manifestavi nomen tuum hominibus» (Gv 17,6), «Ho manifestato il tuo nome agli uomini», che lo portava a mostrare a conclusione delle sue prediche una tavoletta con inciso in caratteri d’oro le tre lettere «IHS», che ben conosciamo (Iesus hominum salvator).
Per entrare in questo percorso occorre una continua conversione: un cristianesimo «seduto», che non parla più al mondo di oggi, che non dice più nulla, che è insipido per gli uomini e le donne del nostro tempo, è il grande sintomo di una fede che si è raffreddata, che non è alimentata e riscaldata dall’ascolto serio della Parola di Dio e dall’amore reciproco.
È il più grande sintomo che in fondo stiamo bene così come stiamo, che la fede non scalfisce le nostre abitudini, i nostri modi di pensare e di agire. Che non c’è bisogno che la nostra fede in Dio metta in noi ulteriori preoccupazioni. Del resto non diciamo sempre che abbiamo bisogno di calma e di serenità?
Questo ci porta a considerare la terza caratteristica della evangelizzazione: la fede deve diventare vita, e la vita deve essere trasformata e fatta lievitare dalla fede.
San Pietro dice che il nostro rendere ragione della speranza che ci abita, quindi quello che abbiamo chiamato l’apostolato esplicito, deve esser fatto «con dolcezza, con rispetto, con retta coscienza, perchè nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo». La questione però è che spesso si parla male di noi – noi frequentatori abituali, noi cristiani “eucaristici” – non perchè siamo cristiani, perchè andiamo a Messa o preghiamo, ma perchè, proprio facendo queste cose, in nulla siamo diversi da chi non lo è, anzi talvolta siamo peggiori. Una volta mi è capitato di sentire una persona rammaricata di non poter partecipare alla processione della Madonna perchè stava male, ma per niente dispiaciuta di aver litigato con un familiare stretto e di non volergli rivolgere neppure la parola!
Capite dove sta la separazione tra vita e fede?
Quindi in fin dei conti, spesso si parla male di noi a ragion veduta: se chi è fuori vede in noi questi comportamenti, questi modi di pensare, come potrà credere che davvero il Vangelo può cambiare la nostra vita?
Allora però noi oggi rinnoviamo in questa Eucaristia l’adesione a Cristo, la devozione a San Bernardino, il desiderio e l’idea di corrispondere un po’ di più alla scia tracciata dal nostro santo Patrono.
La Chiesa (quindi anche voi, comunità di Mogoro) potrà diventare sempre più sé stessa soltanto accogliendo lo Spirito Santo promesso da Gesù, lo Spirito della verità che rimane in noi, perchè Egli ci trasforma nel corpo di Cristo nel mondo, fa di noi una vera e propria transustanziazione, come nell’Eucaristia l’azione dello Spirito rende un po’ di pane e di vino comuni il vero Corpo e Sangue di Cristo.
Se la Chiesa è amore, se la comunità cristiana sperimenta e fa sperimentare, fa gustare l’amore a tutti i livelli, ci sarà anche chi potrà rifiutare, chi potrà chiedersi come mai, interrogarsi su questo stile di vita, ma certamente non potranno non vedere.
Allora preghiamo perchè possiamo essere testimoni umili del Vangelo, perchè impariamo a rendere ragione della speranza che è in noi, perchè davvero è in noi e la alimentiamo quotidianamente, e perchè tutta la nostra vita sia trasformata dalla nostra fede e dalla nostra preghiera.
Così permetteremo a Dio e a suo Figlio Gesù di «abitare in noi» secondo la sua promessa, di essere una sola cosa col Padre e col Figlio, e quindi di essere significativi, saporiti, di suscitare domande per questo mondo che spesso arranca nel buio, nella divisione, nella confusione.
Portiamo la nostra fede con umiltà, non come maestri ma come fratelli.

E allora Gesù si manifesterà ancora a noi, e attraverso di noi, condurrà a sé ancora tanti fratelli e sorelle. E così sia.

martedì 16 maggio 2017

La più piccola lente

Tutta la luce del sole
si concentra
nella più piccola lente.
Soltanto così
può diventare fuoco.


domenica 14 maggio 2017

Ti piacerà la mia mamma


Ti piacerà la mia mamma. Ti piacerà perchè pensa che senza i bambini il mondo finirebbe. Ti piacerà perchè è grossa e morbida, con una pancia grossa e morbida per sedertici sopra, due braccia grosse e morbide per proteggerti, e una risata che è un concerto di campanelli. Non ho mai capito come faccia a ridere in quel modo: ma penso che sia perchè ha pianto molto. Solo chi ha pianto molto può apprezzare la vita nelle sue bellezze, e ridere bene. Piangere è facile, ridere è difficile. Imparerai subito questa verità.
(Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, pag. 30)


Essere un fiore è profonda responsabilità



Ieri un verme - in tutti i sensi - ha fatto fuori un bocciolo delle mie rose.

Aveva ragione Emily Dickinson quando diceva che bisogna "combattere il verme", perché "essere un fiore è profonda/ responsabilità".
Ognuno faccia le associazioni che vuole e ne tragga le conclusioni che preferisce.




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Fiorire – è il fine – chi passa un fiore
con uno sguardo distratto
stenterà a sospettare
le minime circostanze

coinvolte in quel luminoso fenomeno
costruito in modo così intricato
poi offerto come una farfalla
al mezzogiorno –

Colmare il bocciolo – combattere il verme –
ottenere quanta rugiada gli spetta –
regolare il calore – eludere il vento-
sfuggire all’ape ladruncola-

non deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno –
essere un fiore, è profonda
responsabilità –

(Emily Dickinson)

sabato 6 maggio 2017

La vita cristiana come attraversamento di una soglia.
Dove si passa?
Magritte "La porta"

Se ci si fa caso ogni cosa che facciamo possiamo esprimerla come un passaggio: dall’infanzia all’adolescenza alla maturità alla vecchiaia, dalla salute alla malattia e ritorno, dalla scuola al lavoro, dalla casa dei genitori a una nuova famiglia. Ogni cambiamento richiede un passaggio, un attraversamento di una soglia, fisica e metaforica.
Attraverso quale porta passiamo nel fare questi attraversamenti?
Foto Renato Patat

Cosa significa dunque, in questo senso, che Gesù è la porta attraverso la quale si accede alla vita, ai pascoli buoni, all’ovile?
È un’immagine difficile da interpretare per noi troppo razionalisti. Ma se Gesù è il passaggio di accesso, forse ciò significa semplicemente che ogni nostra scelta deve passare attraverso il suo crogiolo, attraverso il suo filtro, quasi a distillarsi per eliminare le scorie, e noi stessi dobbiamo “scremarci” passando attraverso il “suo esempio”, le “sue orme”.
Se pensiamo e viviamo essendo misura a noi stessi, non facendoci prendere le misure (per passare attraverso una porta bisogna prenderle! Pensiamo alla porta della Basilica della Natività a Betlemme) da Qualcun altro, la nostra vita può diventare totalmente autoreferenziale, e quindi vuota, priva di vita, di fecondità, di sostanza.
Se capirò che la somiglianza con Dio non posso rubarla, ma posso acquistarla solo “passando attraverso” Gesù Cristo, imparando ogni giorno a essere creatura, a essere figlio, a essere fratello, allora troverò la vita. Se capirò di essere conosciuto, amato, voluto, chiamato già in anticipo a partecipare alla vita di Dio, di cos’altro ho bisogno?
Foto Marco Serra

venerdì 5 maggio 2017

Pauli Arbarei - Omelia per la festa della conversione di Sant'Agostino

Senza torrone e pistoccusu che festa è?

Celebrare la festa della conversione di un santo come Agostino significa ritornare a farci le domande essenziali, quelle che attanagliano gli uomini e le donne di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
Agostino era un giovane intelligentissimo, un avido lettore, uno che non si accontentava di storielle da vecchierelle, eppure per nove anni, dai 19 ai 28, la sua ricerca fluttuò fra dottrine eretiche e pensieri filosofici lontani dal cristianesimo.
L’incontro con la dottrina di un certo Mani, se non lo aveva mai convinto del tutto, certamente lo aveva potentemente affascinato.
Agostino si guarda intorno e si chiede: da dove viene il male? È la domanda che prima o poi ci poniamo anche noi, soprattutto quando il male si fa imponderabile e inspiegabile.
Mani insegnava che esistevano due principii uguali e contrari: uno buono (Dio) e l’altro malvagio.
Questi due principi sono come mescolati nell’uomo, in una lotta per uscire dalle tenebre alla luce. Ma il manicheismo, così si chiamava questa dottrina, nutriva una profonda sfiducia nell’uomo, frutto del male, intriso di tenebre e di peccato.
Questa visione così pessimistica della natura umana si accompagnava ad uno stile di vita che richiedeva una purificazione che si doveva compiere attraverso la rinuncia all’esercizio della sessualità a scopo riproduttivo e un’ascesi molto severa.
Il pensiero sull’uomo era poi riflesso nei fatti e negli avvenimenti della storia, dove questa lotta tra il bene e il male sembra essere sotto gli occhi di tutti: due “entità” uguali che lottano. E il male sembra sempre prevalere.
Agostino era affascinato da questa interpretazione della realtà, che in fondo portava l’uomo a non essere responsabile dei propri atti malvagi, dei propri peccati. Se tutto si può descrivere come una lotta tra il bene e il male dentro di me, in fondo, io non sono più tanto padrone di me stesso.
Badiamo che questa eresia, sviluppata in Oriente nel III-IV secolo, quindi non molto tempo prima della nascita di Agostino, affascinava tante persone in un’epoca in cui non esisteva un pensiero scientifico, e la realtà veniva interpretata attraverso tante superstizioni.
Sembrano concetti molto difficili, ma penso che tanta gente ancora oggi creda che in fondo le cose vadano davvero così: che esistono due principii che si fronteggiano, il bene e il male, che noi siamo un miscuglio di bene e di male, e che la lotta tra le tenebre e la luce sia ancora viva in noi.
Agostino penserà per lungo tempo che la fede cristiana lo allontani dalla vera sapienza, che egli ricercava nelle filosofie più in voga al suo tempo, e nelle dottrine di Mani.
Era un gran ricercatore della verità e pensava di tendere alla verità, ma in realtà andrà dalla parte opposta.
Agostino seguirà questi pensieri, insieme a un amore viscerale per il successo e gli applausi, e a un materialismo che lo portava a non poter credere che Dio fosse puro spirito, e che tanto meno il Figlio di Dio potesse incarnarsi in una natura corrotta senza appello.
I Manichei inoltre affermavano che gli scritti del Nuovo Testamento fossero stati falsificati non si sa bene da chi, e che la Chiesa teneva nascoste queste cose o comunque aveva modificato la verità rivelata. Erano persone fervorose che pregavano di giorno e di notte, austeri, incutevano sicuramente un certo fascino.
Ci vorranno anni di riflessioni, di pensieri, di incontri, di delusioni, di ricerca, e soprattutto l’incontro con un altro grande santo che conobbe a Milano, il Vescovo Ambrogio, a Milano dove ottenne una cattedra statale (diventando una sorta di professore universitario, massimo scalino a cui ambiva la sua superbia spirituale).
Nel suo vero passaggio dalle tenebre dell’errore manicheo alla luce della fede cattolica, Sant’Agostino troverà due luci fondamentali: capirà che la fede non lo allontana dalla sapienza, anzi: può essere l’ingresso decisivo, e crederà finalmente nella Sacra Scrittura, dopo averla riconosciuta autentica e donata da Dio attraverso la Chiesa.
Questo pensiero Agostino lo sviluppa nella sua predicazione e nelle sue opere, confutando il manicheismo e dandoci una interpretazione semplice ma efficace del male.
«Cos’è il male?», si chiede ora. Il male non è un’entità alla pari del bene, ma possiamo dire che esso è una privazione del bene.
Per fare un esempio semplice: cos’è una malattia? La malattia è la mancanza del bene della salute. Il freddo non esiste, esso è semplicemente la mancanza di calore. Il buio non esiste, esso è in effetti la mancanza di luce.
Per cui ogni male si può riconoscere e spiegare come una privazione, o una mancanza del bene a cui si oppone. E pertanto il male, in senso stretto, non è una realtà allo stesso modo del bene, perchè si può affermare solo in negativo, come una mancanza.
Agostino ricupera fiducia nella bontà della creazione, fatta da Dio, non come un miscuglio di bene e di male, ma come “cosa buona”, e l’essere umano come “cosa molto buona”.
Agostino ricupera fiducia in un Dio che ci dona la piena libertà di preferire il male al bene, che ci offre la libertà di scelta. Noi non siamo dei burattini nelle mani del male, ma abbiamo la possibilità di opporci ad esso.
Rileggendo la propria storia in quell’opera fondamentale a cui dà il titolo di Confessioni, egli affermerà che la Provvidenza di Dio aveva segretamente guidato ogni suo passo, compresa la fuga da Cartagine a Roma, per cercare fortuna e allontanarsi dalla sua madre, forse presenza un po’ ingombrante per i suoi gusti. Che anche il suo vagare per anni tra dottrine false e pensieri sbagliati fu in realtà la pedagogia di Dio nei suoi confronti: non lo costrinse a credere, ma lo portò alla fede attraverso una scrematura di tanti dubbi, di tanti pensieri sbagliati, e anche, perchè no, di tante ricerche andate a vuoto. «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4). Dio lo aveva prevenuto, lo aveva seguito, lo aveva accompagnato. E da quel momento è rimasto nell’amore, non si è più allontanato.
Sono ancora sue quelle parole infuocate di amore che scrive nelle Confessioni, quando prostrato e disperato, perchè non vede luce, a un certo punto sente un bambino o una bambina canticchiare: «Prendi e leggi, prendi e leggi» (Conf. VIII, 12). E legge la Lettera i Romani di San Paolo «Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne. Accogliete chi è debole nella fede» (Rm 13).
Ecco finalmente che si dissipa il buio interiore ed esplode il canto:
«Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che tu hai creato. Tu eri con me, e io non ero con te, tenuto lontano da te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in te! Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo splendore e mettesti in fuga la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e ora anelo a te; ti assaporai, e ora ho fame e sete; mi toccasti, ora brucio di desiderio per la tua pace» (Conf. X, 27) .
 Allora, la festa di oggi deve aiutarci: a ritrovare fiducia in Dio, unico e sommo Buono, a ritrovare fiducia nella nostra umanità, a imparare che possiamo fare il bene, perchè abbiamo la volontà, a credere che Dio perdona veramente e definitivamente i nostri peccati, ad approfondire la nostra fede attraverso la Parola di Dio, per evitare che essa diventi superstizione o creda a tutto ciò che sentiamo.
L’intercessione di quel grande cercatore di Dio che fu Sant’Agostino, aiuti a sostenga la nostra ricerca di Dio! Amen

lunedì 1 maggio 2017

Se dovessi... (Un testo di padre Michele Pellegrino)

Se dovessi... vorrei prendere le cose non troppo sul serio. Mi spiego: che un vescovo non prenda sul serio i suoi doveri pastorali è cosa inconcepibile. Ma può accadere a un vescovo, a un parroco, a un prete o non prete investito comunque di responsabilità, di prendere le cose troppo sul serio. In vari sensi: primo, nel senso di portare l’attenzione soprattutto sulle difficoltà e sugli aspetti negativi e di vedere le une e gli altri con la lente d’ingrandimento; secondo, nel senso di lasciarsi prendere dall’agitazione, dall’affanno, di voler affrontare in blocco tutti o quasi tutti i problemi; terzo (ed è quello a cui debbo stare più attento), di pensare con un poco d’ingenua presunzione che tocchi proprio a me, il vescovo Michele, come avete ripetuto in questi anni, governare la diocesi di Torino dimenticando la sproporzione incalcolabile che c’è fra quello che debbo o posso fare io e quello che fa lo Spirito santo che ha posto i vescovi a reggere la chiesa di Dio, che suggerisce loro ciò che debbono dire e fare, che fa crescere il seme che noi abbiamo piantato e innaffiato anche quando dormiamo i nostri placidi sonni, secondo la breve parabola di Marco. Se dovessi... vorrei tener presente una massima familiare, se ben ricordo, a un delegato apostolico, poi cardinale. Cos’è dei nostri “problemi” su cui tanto ci affanniamo? Il 25 per cento si risolvono da sé e come per caso, un altro 25 per cento forse li risolviamo noi, e il rimanente 50 per cento resteranno sempre da risolvere (posso confondermi sulle percentuali, ma resta il senso di fondo). Osserverò solo, per essere coerente con quel che dicevo prima, che chi risolve veramente i problemi è lo Spirito santo
Se dovessi... vorrei ricordarmi più spesso dell’esortazione che mi ripete ogni martedì della seconda settimana il salmo  36: Confida nel Signore e fa’ il bene, abita la terra e vivi con fede. Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore. Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera ... Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui “ (vv. 3-5.7).
Se dovessi... vorrei drammatizzare meno le situazioni, vederle con maggior distacco e non lasciarmi facilmente turbare. Perché serenità e pace sono doni di Dio che bisogna conservare, sono anche un esercizio di fede in Dio Padre nostro, sia perché quando si drammatizzano le cose minaccia di oscurarsi il vero senso dei problemi, si viene facilmente a mancare di carità e di pazienza verso il prossimo, come so di aver mancato non poche volte interiormente ed esteriormente, facendo soffrire i fratelli senza necessità e dando cattivo esempio …
Se dovessi ... vorrei essere veramente uomo del dialogo. Di dialogo si parla tanto (ne ho parlato tanto anch’io), ma, soggiunge Hélder Câmara, il vero dialogo è tutt’altro che facile. Vorrei essere veramente uomo del dialogo, che prima di tutto sa ascoltare con attenzione, con simpatia, senza fretta, con pazienza se è necessario. Vorrei essere disponibile al dialogo con tutti: con i vicini e i lontani, con quelli che la pensano come me (allora il dialogo è facile) e con quelli che la pensano diversamente (e allora il dialogo è meno facile). Con quelli che stanno in alto e con quelli che stanno in basso, privilegiando i poveri e gli umili, perché così ha fatto il Signore.
Ma forse dovrei spiegarmi meglio quando dico che vorrei essere uomo del dialogo. Non penso soltanto alla discussione su questo o su quell’argomento, sia pure importante, per esempio nel campo pastorale. Intendo il dialogo come un essere vicino, essere con la gente, anche fuori degli impegni prestabiliti e doverosi. Un esempio servirà più dei ragionamenti. Nel 1975 mi trovai, insieme con don Franco Peradotto, a Recife, per un incontro con l’arcivescovo Hélder Câmara. Volle accompagnarci a visitare alcune zone tra le più povere, colpite dalla recente alluvione. Ciò che mi fece pensare non fu tanto il gesto in sé, quanto il tono degli incontri con la gente. Nessun moto di sorpresa da parte degli uomini che lavoravano a ricostruire le case – se si possono chiamare tali – piantando qualche palo nel terreno fangoso, delle donne che sfaccendavano nei tuguri, dei bambini che giocavano con i rottami di bambole, vittime anch’esse della comune sciagura. Tanto meno si sarebbe potuto notare un qualche segno di timore reverenziale di fronte al vescovo. Dominava chiaramente un senso di familiarità, rispettosa ed affettuosa; si sentiva che questi incontri facevano parte della loro vita quotidiana, che il vescovo era uno di loro. Se dovessi ricominciare mi piacerebbe fare il vescovo a questo modo: ma so bene che non è facile.
Tratto dal sito del Monastero di Bose