venerdì 29 marzo 2019

Sempre a favore della vita e della famiglia


Mi sembra evidente che dichiararsi contrari all’aborto e al divorzio, oggi più che mai, sia una scelta ragionevole, da non dare per scontata, perché nei discorsi comuni scontato è piuttosto il suo contrario.
Infatti, solo questo può salvaguardare l’umanità della persona umana: il fatto che scelga la vita e che scelga l’amore.
Per cui è difficile comprendere perché ci si scagli contro un Convegno delle famiglie, se all’interno di questo convegno le persone si dichiarano a favore della vita e a favore dell’amore durevole tra un uomo e una donna, e se chiedono politiche di supporto alla famiglia.
Che poi la legge regolamenti un matrimonio civile quando il consenso (che fa il matrimonio) viene a mancare, o depenalizzi l’aborto (interruzione di gravidanza) a certe condizioni e sotto certi limiti, questo è un altro paio di maniche.
Credo che anche la persona più cinica, che abbia abortito o divorziato, abbia avuto almeno un momento l’idea che il suo matrimonio sarebbe stato “per sempre”, e che quella “cosa” che portava in grembo fosse una “goccia di vita scappata dal nulla”, per usare le parole di Oriana Fallaci, che ogni tanto farebbe bene rileggere anche agli abortisti convinti (mi riferisco al suo Lettera a un bambino mai nato).
Può un cristiano dirsi semplicementea favoredell’aborto e del divorzio? Credo proprio di no.
Papa Francesco ha scritto nell’Amoris Laetitia: «Se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità» (297). 
È difficile dunque comprendere in quale modo l’affermazione a favore della vita e della famiglia sia in contrasto con i valori di civiltà anche laici, che stanno alla base del nostro vivere comune.
Molti radicalchiccon la puzza sotto il naso nei confronti dei cattolici (e tra iradical chic molti son pure cattolici con la puzza sotto il naso) sono poi pronti a stringere la mano a feroci dittatori e a governanti di Stati dove donne, bambini e omosessuali non hanno alcun diritto, perché come al solito,pecunia non olet.
Detto questo è altrettanto incomprensibile come talvolta le persone che parlano di vita e di famiglia si sentano in diritto e in dovere di attaccare persone che hanno fatto scelte diverse o che si trovano a vivere situazioni in contraddizione con la morale cattolica, o quantomeno dubbie.
Non si riesce proprio a uscire fuori dalle dinamiche da stadio neppure all’interno della Chiesa!
Un cristiano è sempre a favore della vita e della famiglia, anche quando queste si realizzano in forme non complete, parziali, carenti.
Ovunque ci sia un germe di amore, esso è un punto dal quale partire per evangelizzare. L’attenzione alla realtà per come ci si presenta è fondamentale per poter annunciare una parola esigente come quella del Vangelo, esigente per tutti, ovviamente.
Pertanto se oggi diciamo che siamo contro l’aborto e contro il divorzio, credo che nessuno stia parlando di mettere in discussione leggi dello Stato, che tra l’altro prevedono la possibilità di appellarsi alla propria coscienza (per i medici), e ovviamente implicano il fatto che non si usufruisca di esse, ma si porti avanti una gravidanza anche difficile e si difenda con le unghie e con i denti il proprio matrimonio.
Stiamo semplicemente dicendo che faremo di tutto per salvaguardare la vita e per costruire e ricostruire la comunione nelle famiglie.
Non da oggi il Diritto Canonico prevede, e in certi casi caldeggia persino, la separazione di una coppia dove lo sfilacciamento del rapporto rischia di compromettere l’incolumità psicofisica e spirituale delle persone coinvolte (coniugi e figli). Ma questa è appunto una extrema ratio, non lasoluzione.
Dunque forse è il caso di smettere di fare chiacchiere da bar o arringhe da talk show su argomenti importanti e ricominciare a parlare seriamente, a confrontarci, a chiedere diritti e a promuovere, sempre e comunque, la vita e l’amore serio, in tutte le sue forme.

venerdì 8 marzo 2019

Vecchio e nuovo, di Alessandro Ramberti


Fresca di stampa l'ultima raccolta in versi di Alessandro Ramberti.

Qui trovate la scheda del libro.

Alessandro mi ha chiesto di scrivere una epilogia che qui pubblico come invito alla lettura.

L’Autore confessa fin da subito la sua posizione metafisica: l’uomo ha un bisogno innato «di sentirsi amato e poter amare per sempre», ha un «desiderio di eternità».
Ed è interessante e profondamente significativo che questo desiderio si esprima attraverso la scrittura (o la pittura, l’architettura e la scultura al limite, che sono forme ancestrali di trasmissione del pensiero e dei sentimenti): già Orazio lo confessava riferendosi alle sue Odi: «Exegi monumentum aere perennius». Ma qui non si tratta di etternare, per dirla con Dante, la propria opera, bensì di mostrare ciò che alberga nel cuore dell’uomo, quella parte «più incredula di noi», e in noi, aggiungerei. Così attraverso questi cinquantun componimenti, Alessandro ci fa percorrere un viaggio dentro noi stessi, accompagnandoci tra il Vecchio e il Nuovo, perché nulla ci sarebbe di realmente nuovo, se non ci fosse il vecchio, il “ciò-che-viene-prima”. Nessuna escatologia senza protologia, per parlare con la teologia. Nessun parlare del poi, se non si può parlare del prima. Perché il poi è il prima trasformato, rafforzato, liberato dalla scorza di precarietà e di limite.
Ecco perché allora la memoria diventa un trampolino di lancio dal quale tuffarsi: «cede il la bemolle/ si dà allo slancio dello spirito», in una tensione che diventa scatto, in un fermo immagine che assume la connotazione del tempo che procede di momento in momento, nel quale è possibile cogliere «segnali fermi».
E ancora altre immagini, come la percezione di sentirsi dentro una gestazione, come in C’è un rumore intorno, in cui la sensazione è proprio quella di stare dentro un grembo accogliente, all’interno del quale si prepara lentamente, attraverso il cambiamento, un nuovo stato di vita. Immagine materna congiunta inscindibilmente a quella paterna, sempre ricercata, perché mater semper certa, pater numquam, secondo l’adagio del Diritto Romano che forse non ha paralleli in Oriente.
Eppure Alessandro sa, e in questo viaggio accompagna il lettore stupito, che niente si origina da se stesso, che tutto brilla di luce riflessa, che finché non splende il sole, il mare sembra nero e buio, ma che da esso, come un pesce in cerca di luce, dentro di noi spira un «soffio incontenibile» che «ci chiama ad uscire».
Sarebbe fin troppo semplice ora elencare i parallelismi pneumatologici, ma qui non si fa teologia. Si mostrano immagini, si pennellano sfumature, come quella che rivela che la responsabilità è la chiave di lettura del proprio essere tagliati dall’origine da cui proveniamo, come in Proprio quando senti. E che questa responsabilità si esprime come obbedienza,obbedienza a ciòche si è, anzitutto, prima che a un ordine esterno, perché l’obbedienza autentica rivela l’irripetibilità di ciascuno: «da te uscirà/ un suono unico».
E ancora, ciò-che-si-è non è mai una definizione: «Tu sei persona/ costellazione». Miliardi e miliardi di stelle, quel microcosmo che Pascal ha intuito e cantato, sono dentro di noi! Nessuno può essere ridotto a un’etichetta, nessuno può ridurre l’altro a un’etichetta.
Anzi, lo sguardo sull’altro, lungi dall’essere uno sguardo giudicante, diventa accesso al comprendersi, nella duplicità del significato riflessivo: comprendere se stessi e comprendersi a vicenda. Siamo testimoni imperfetti, dell’altro e dell’Altro.
Ecco perché, nonostante alberghi in noi una radicale incredulità, essa può essere minata: perché sé è vero che la nostra eternità non è sicura, nelle forme del sapere scientifico e positivista, è altrettanto vero che neppure la nostra incredulità, la nostra mancanza di fede, può esserlo.
Anzi: se la motivazione pratico-scientifica è che il corpo è il corpo, è materia che deriva da materia e in materia si trasforma, che nel corpo nulla c’è di spirituale, il poeta vede in questo un privilegio per chi aspira all’eternità, perché tu sei unico e irripetibile, e questa è la spiritualità della materia: che non è mai esistito uno come te e mai si ripresenterà, qualunque forma prendano dopo la nostra morte gli atomi che ci compongono: «dire che tu sei/ persona degna e non routine/ hai il privilegio/ di avere un corpo».
Così questo corpo, pur ridotto a punto nel giorno ultimo, a una «potenzialità disinchiostrata», secondo una bellissima metafora, sarà evocato da chi ti ha amato, ricordando qui la potenza del finale de Il giorno del Giudizio, di Salvatore Satta: «Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale»; come anche il Rilke de Il Giudizio universale.
Il percorso sfocia dunque in un incontro, anzi ancor prima in una domanda «Dimmi chi tu sei/ ti ascolterò perdutamente/ con sete in gola/ da pellegrino»: dalla visione si passa immediatamente all’ascolto, perché la vera presenza non sfugge e si dimostra compagnia, cioè possibilità di dare senso alla vita e al proprio destino, di dare gusto, di rendere la vita saporita e per questo sapiente.
Un «tu» che si scopre qui e che porta a ringraziare, a riconoscere una mappatura dell’Altro nel volto dell’altro, in una stupefacente coincidenza di trascendenza e immanenza, impensabile a chi ha occhiali scientisti: «Tu che sei laddove/ i corpi le onde e tutti gli atomi/ ti stanno accanto/ con armonia». C’è un luogo, meglio, c’è qualcuno che ha un potere profondamente attraente, ma che a differenza di un buco nero che risucchia la materia, è capace di far stare gli atomi in armonia, persino «per chi era ai margini» dell’universo, o del pluriverso, comunque lo vogliamo intendere, di quel macrocosmo pascaliano che tutto avvolge.
Così si ritorna all’inizio, in una evoluzione di yin yang, dove però si cerca «risposta ai dubbi» per «fare a/ pezzi il male subdolo», quasi un Padre nostro laico e orientale.
No, non si esce uguali a come si è entrati in questo viaggio, accompagnati da Alessandro Ramberti, al quale va la mia gratitudine per avermi fatto suo compagno (cum-panis: il «pane/dell’amicizia/ dell’accoglienza») di viaggio verso l’eternità che abita in noi, consapevoli che si annega nella superficialità di una vita vissuta senza interrogativi e senza compagnie che ci trasmettono un senso, e giammai nella profondità della ricerca.