martedì 25 aprile 2017

San Marco Evangelista

Questa immagine a me molto cara si trova nella Chiesa della Santissima Trinità dei Monti a Roma, nella seconda cappella a destra per chi entra.
Non ho fatto studi approfonditi, ma l'anziano che parla è certamente san Pietro (ha la chiave in mano), il giovane col libro sotto i gomiti mi piace pensare che sia San Marco, che ascolta con attenzione i racconti di Pietro per scrivere il suo Vangelo.
E oggi non posso non pensare ai fratelli cristiani copti, la cui Chiesa madre di Alessandria è stata fondata proprio da San Marco, fratelli e sorelle che soffrono violenza e persecuzione, e che danno testimonianza di perdono e di amore.

Guarda questo video: https://vimeo.com/212755977


domenica 23 aprile 2017

Ritiro di Pasqua alle Querce di Mamre - Per continuare a riflettere

I piedi di Gesù, i piedi del discepolo. Per un cristianesimo in cammino

O viaggiatori, o uomini del mare
o voi che giungete al porto
e voi che il vostro corpo
soffrirà la prova e il giudizio del mare
o qualsiasi evento, è questa
la vostra reale destinazione.
Così Krishna, come quando ammoniva Arjuna
sul campo di battaglia.
Non buon viaggio
ma avanti, viaggiatori.
(T.S. Eliot, Quattro quartetti, I Dry Salvages, III)

Robert Frost:

Dirò questo con un lungo sospiro
chissà dove e fra tanti anni a venire:
due strade a un bivio in un bosco, ed io -
presi quella meno frequentata,
e da ciò tutta la differenza è nata.

Celebre è l’incipit di uno dei più famosi libri di spiritualità orientale, I racconti di un pellegrino russo:

«Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pelle­grino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisac­cia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro.»

E ancora, uno dei più famosi mistici occidentali, Angelus Silesius, intitola la sua opera “Il Pellegrino Cherubico”: 263 distici che si concludono con l’invito fatto al letto­re:

Amico, basta oramai. Se vuoi leggere ancora
Va’, e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza.

Cinque icone per un cammino di fede

  1. ASCOLTO
  2. COMPUNZIONE
  3. RICONOSCIMENTO DI CRISTO.


Che bello pensare che il cristianesimo, essenzialmente, è questo! Non è tanto la nostra ricerca nei confronti di Dio – una ricerca, in verità, così tentennante –, ma piuttosto la ricerca di Dio nei nostri confronti. Gesù ci ha presi, ci ha afferrati, ci ha conquistati per non lasciarci più. Il cristianesimo è grazia, è sorpresa, e per questo motivo presuppone un cuore capace di stupo­re. Un cuore chiuso, un cuore razionalistico è incapace dello stupore, e non può capire cosa sia il cristianesimo. Perché il cristianesimo è grazia, e la grazia soltanto si percepisce, e per di più si incontra nello stupore dell’incontro». (papa Francesco)


  1. APERTURA AL FRATELLO.

Una preghiera atribuita a Madeleine Delbrêl dice così:

Se dovessi scegliere
una reliquia della tua Passione,
prenderei proprio quel catino
colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio
e curvarmi fino a terra,
non alzando mai lo sguardo
oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici,
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo,
del drogato, del carcerato, dell’omicida.
di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego più.
In silenzio...
finché tutti abbiano capito,
nel mio, il Tuo amore.


  1. RINNEGARE Sé STESSI

A me, che sono un inguaribile pigro, e a ciascuno di voi faccio l’augurio, che di­venta preghiera, con le parole del profeta Isaia:

Il Signore dà forza allo stanco
e moltiplica il vigore allo spossato.
Anche i giovani faticano e si stancano,
gli adulti inciampano e cadono;
ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
mettono ali come aquile,
corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi.

(Is 40,29-31)

sabato 22 aprile 2017

Omelia per la festa di San Giorgio Martire - Pau

È bello che la festa di San Giorgio quest’anno cada nell’ottava di Pasqua e possiamo celebrarla proprio in coincidenza con al seconda domenica di Pasqua, la domenica della Divina Misericordia.
Perchè a ben guardare la Parola di Dio di questa domenica sembra fatta per descrivere la vita di San Giorgio, e quindi può aiutare anche noi, non solo a ringraziare Dio per il dono di questo martire intercessore, ma a cercare di modellare la nostra vita a partire dall’ascolto di questa parola.
La prima lettura ci riporta al clima della prima comunità cristiana, di coloro che hanno conosciuto Gesù, gli apostoli, e di coloro che hanno creduto alla parola degli apostoli, la nuova comunità che andava formandosi.
Perché proprio in quelle località, alcuni secoli dopo, anche questa deve essere stata l’esperienza di Giorgio, un giovane soldato che diventa cristiano perchè vede come vivono i cristiani: pregano insieme, condividono l’eucaristia, sono poveri, vendono le loro ricchezze per condividerle, vivono in letizia e semplicità di cuore.
Sembra quasi una descrizione fiabesca, ci chiediamo se mai sia esistita una comunità così idilliaca.
Forse gli atti degli apostoli, più che una descrizione vogliono trasmetterci un ideale: voi che siete credenti, cercate di vivere così. E noi, poveri cristiani, ci sforziamo.
Questo deve aver fatto anche san Giorgio: ha cercato di essere cristiano, nella preghiera, nella condivisione dei suoi beni, nell’eucaristia, nell’essere in pace con tutti.
Poi abbiamo ascoltato la seconda lettura.
San Pietro afferma una cosa all’apparenza strana: ci dice che dobbiamo essere pieni di gioia, anche se per un po’ di tempo siamo afflitti da varie prove. Ma se uno è afflitto non può essere gioioso, diciamo noi. Perché il cristiano può e deve essere gioioso? Perché nella sua vita egli ha una meta, ha una speranza, e questa meta e questa speranza hanno un nome: Gesù Risorto.
Il cristiano sperimenta la gioia di Gesù risorto che gli dona una eredità che non va in malora, gli dà una ricchezza conservata nella cassaforte del cielo, e gli assicura che la sua vita è custodita dalla potenza di Dio attraverso la fede. Attenzione: San Pietro descrive la fede come la corazza che custodisce il credente nella tribolazione e nella prova.
E anche questa informazione sembra richiamarci la vita di San Giorgio: egli che era un soldato, si toglie la corazza e non combatte davanti a chi vuole ucciderlo. Davanti a chi gli chiede di sacrificare agli idoli per salvarsi, egli rifiuta, si spoglia della sua armatura di soldato e si presenta nudo al martirio. O meglio, si presenta rivestito solo dalla fede che è la potenza di Dio a custodirlo.
E anche questo ci interroga, perchè noi innalziamo tante difese nella nostra vita, indossiamo tante armature per paura che la vita ci faccia male, siamo disposti a sacrificare a idoli, a dei che ci promettono illusioni di felicità, elisir di lunga vita, amori eterni... e invece oggi l’esempio di San Giorgio ci invita a spogliarci di tutte le sovrastrutture, a essere semplici nella nostra fede.
San Giorgio, a un certo punto della sua vita ha capito cosa era davvero importante per lui, e si è tolto l’armatura, ha rinunciato a combattere i suoi fratelli e ha offerto la sua vita.
Ma perchè ha fatto questo?
Qui vorrei un momento ritornare ai luoghi di San Giorgio: Giorgio era palestinese, quindi conterraneo di Gesù e degli apostoli, è nato ed è morto in quella Terra che ancora oggi vede tanti martiri, tante persone che soffrono a causa della fede. Ricerche recentissime affermano che i cristiani sono i più perseguitati in tutto il mondo.
Perché un cristiano si rende disponibile al martirio?
Qui ci viene in aiuto la parola del Vangelo che abbiamo ascoltato.
Vetrata Cappella Pontificio Seminario Lombardo - Roma
È il racconto di quella settimana da Pasqua all’ottavo giorno successivo, in cui i discepoli di Gesù si sono chiusi dentro il Cenacolo, si sono autosepolti per paura dei giudei. In mezzo a questa congrega di gente impaurita Gesù si presenta in persona, ritorna a loro con i segni della passione, perchè vedano cosa gli è successo, e vedendo le sue ferite riconoscano le loro ferite, quelle prodotte dalla sua morte, dalla loro codardia, dalla loro incapacità di seguirlo, dalla loro paura.
Gesù non va a cercare nuovi discepoli, rimandando a casa coloro che lo avevano abbandonato, ma cerca ancora e di nuovo loro, affidando loro il compito di perdonare chi ha ucciso il loro maestro, perchè senza perdono non c’è vita neanche per loro.
Gesù non li manda a vendicarsi, ma a perdonare. Tommaso però è assente quel giorno, esprime i suoi dubbi, non vuole credere che questo Gesù sia davvero tornato a loro. È il dubbio che assale anche noi, quando ci sentiamo colpevoli: Dio mi perdonerà? Tante volte questo dubbio è così forte che scoraggia alcune persone dal riavvicinarsi ai sacramenti, alla confessione, all’eucaristia. È terribile.
E qui vediamo la paziente pedagogia di Gesù, che dopo otto giorni, si ripresenta, loro sempre a porte chiuse, come se non avessero capito la lezione, e finalmente stavolta c’è anche Tommaso, il quale davanti ai segni della passione esclama: «Mio Signore e mio Dio!». Sono i segni della passione che gli fanno riconoscere il Risorto. Non un annuncio sfolgorante, non miracoli eclatanti, ma i segni dei chiodi sulle mani, sui piedi, sul costato di Gesù.
E Gesù proclama una beatitudine, che fu per Giorgio ed è per noi: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Torno alla domanda: Perché un cristiano si rende disponibile al martirio?
Oso dire: perchè crede che Cristo è risorto, perchè riconosce nei segni della passione il grande e definitivo segno della risurrezione.
Il martire non è necessariamente una persona coraggiosa, come lo intendiamo noi (benché si dica che San Giorgio era molto coraggioso, tanto da affrontare un drago, e tante torture). Ma certamente il martire è uno che sa in chi ha posto la propria fiducia, tanto da poter esclamare con sicurezza: Mio Signore e mio Dio!
San Giorgio deve aver visto altri cristiani dare la vita, e avrà certamente percepito la bellezza della vita, la tristezza di lasciarla. Ma questo non l’ha distratto, al momento decisivo, da fare la sua scelta, e dallo scegliere Gesù.
Questa testimonianza, come quella di tanti nostri fratelli e sorelle anche oggi martirizzati, ci incoraggia nelle nostre paure, a volte molto meno serie: il rispetto umano, la paura di apparire deboli se perdoniamo, la paura che gli altri ci giudichino se ci accostiamo alla confessione o alla comunione, se veniamo a Messa.
Paure sciocche, se paragonate al rischio che oggi corrono tante persone pur di andare a Messa la domenica.

E noi, avremo il coraggio di scegliere? Avremo il coraggio di volgerci a Gesù Cristo e dirgli con verità: «Mio Signore e mio Dio» e a vivere di conseguenza? San Giorgio interceda per noi, perchè la nostra fede in Gesù risorto si rafforzi.

martedì 18 aprile 2017

Una parabola straordinaria dell'ostinata pazienza divina


Omelia per Santa Marina a Villanovaforru

Simulacro di Santa Marina
Cosa ha a che fare la vita di una martire con il mistero pasquale che stiamo celebrando in questa Ottava di Pasqua?
Di Marina di Ourense non abbiamo nessun dato biografico: sappiamo soltanto che fu martire. E forse questo è tutto: tutta la vita riassunta nella sua morte in odio alla fede.
Ai nostri occhi di contemporanei, assetati di notizie biografiche, di particolari piccanti o anche solo stravaganti su questo o quel personaggio questo può sembrare insopportabile, quasi offensivo. Gli antichi usavano talvolta, in mancanza di altro, applicare la vita di un altro santo, cucendola addosso a uno sconosciuto, ma in fondo per dirci un'unica cosa, che queste vite di santi martiri hanno un solo denominatore comune: che hanno preferito farsi uccidere piuttosto che rinnegare il loro Maestro. Capiamo allora che tutti i miracoli, veri o presunti, tutte le storie vere o presunte, passano in secondo piano davanti a questa notizia fondamentale: c'è qualcuno che crede davvero in Gesù Risorto che è disposto a farsi ammazzare.
E noi ci chiediamo se questa non è pazzia, perchè sì, si può credere in Gesù, ma insomma, finchè non mette in discussione le mie certezze: la mia salute, il mio posto di lavoro, mia moglie, i miei figli... Possiamo credere a Gesù, certo, ma senza esagerare, anzi: che ci dia un aiuto per la nostra vita, questo Gesù, che ci metta al riparo dai problemi, che ci conservi la vita e la salute più a lungo possibile, e se proprio dobbiamo morire, che tutto sia indolore...
Noi spesso ragioniamo così. E vorrei dire che ragiona così chi è senza speranza, e chi non ha nessun motivo per vivere, ma stima la vita fine a se stessa.
Chi ha un motivo per vivere invece affronta ogni “come”, ogni condizione, compresa quella estrema del rischio della vita. Infatti è proprio perchè aveva un motivo per vivere che Santa Marina ha accettato il rischio, e con lei i martiri di ogni tempo e di ogni luogo, anche oggi, in Siria, in Egitto, in Iraq, in Pakistan, e purtroppo l'elenco è lungo.
Questa è allora la domanda che oggi ci pone l'esperienza del martirio di Santa Marina: «Per che cosa vivo io?»
Questa domanda dovrebbe trafiggerci il cuore, come già agli abitanti di Gerusalemme, quando Pietro dice loro: «Gesù l'avete crocifisso voi! Ma Dio lo ha risuscitato». Non c'è nessuna accusa nelle parole di Pietro, nessuna richiesta di punizione o vendetta. Tutt'altro: le sue parole suscitano nei giudei che ascoltano una vera contrizione del cuore, tanto che si chiedono: «Cosa dobbiamo fare?».
E la risposta che ne ottengono da Pietro e dagli altri apostoli è semplice: « Convertitevi e fatevi battezzare/immergere nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei peccati».
Ora qui noi potremmo ritenerci a posto: siamo cristiani, perbacco! Battezzati da piccoli. Siamo nella strada giusta.
La questione però non è soltanto aver ricevuto il battesimo, ma vivere in modo tale che quel battesimo orienti (converta, appunto) la mia vita. Essere immersi nel nome di Gesù, lasciarci muovere a camminare orientati soltanto da lui.
Noi talvolta abbiamo invece la fede di Maria di Magdala che cerca il corpo del Signore per imbalsamarlo, una fede da museo, fatta di ricordi passati, di speranze svanite, di pianti irrefrenabili, di tombe. Vorremmo il Signore come un feticcio: «Hanno portato via il mio Signore (=cioè il suo corpo) e non so dove lo hanno posto». Non riconosciamo il Signore che sta vicino a noi, ci accontentiamo di pezzi da museo. Questa non è una colpa, talvolta la vita, i dolori, le sofferenze, quella che chiamiamo la nostra croce, ci porta a reagire così.
Colosseo (foto Marco Serra)
Ora però il Signore ci chiama: Maria!
Nell'ora decisiva c'è da credere che anche Santa Marina si sia sentita rivolgere questa chiamata. Marina: per cosa vuoi vivere? Ti basta conservare la tua vita e vivere con un Dio morto?
Oppure vuoi diventare capace di donare la tua vita, di riconoscere in me il tuo Maestro, costi quello che costi?
Qui sta la differenza anche per noi oggi, che ho espresso con la domanda: «Per cosa voglio vivere, per chi voglio vivere?». Tanti cristiani anche in questi giorni hanno ben chiara questa opzione. Sanno bene che andare nella loro chiesa a pregare può essere l'ultima cosa che fanno nella loro vita. Eppure vanno, si riuniscono, pregano, perdonano i loro persecutori... perciò per loro si ripete quella esperienza: «Ho visto il Signore!».
Perché vedere il Signore non è riservato a pochi veggenti, veri o presunti.
«Ho visto il Signore» è l'esclamazione della fede, di chi partecipa con convinzione all'eucaristia, di chi ascolta la sua Parola e risponde «Lode a te o Cristo!», ma noi lo diciamo in modo così distratto che risulta solo una formula da dire. Così come quando riceviamo il Corpo del Signore e rispondiamo «Amen!», cioè «Sì, è vero, ti riconosco, sei tu».
La nostra fede, che si manifesta attraverso la liturgia, è diventata una serie di parole vuote.
Paguro
E torniamo a casa non con l'esperienza nel cuore trafitto di aver incontrato il Signore (e di continuare eventualmente a crocifiggere il suo corpo mistico attraverso i nostri comportamenti antievangelici) e col bisogno di conversione, ma con una sicurezza da professionisti della religione, di aver ottemperato al nostro “dovere” cristiano. E anche quel “Atrus annus” che ci scambiamo come augurio di rivederci qui l'anno prossimo, spesso significa soltanto “Ora posso passare un anno tranquillo perchè ho festeggiato la festa di Santa Marina”.
Lo so che queste sono esagerazioni, carissimi fratelli e sorelle. Ma tristemente le esagerazioni spesso manifestano un lato della medaglia che forse non abbiamo mai visto.
Oggi la Parola di Dio e la festa di Santa Marina, e la testimonianza di tanti nostri fratelli e sorelle cristiani sparsi nel mondo mette in discussione la nostra fede, non per farla vacillare, ma perchè si rafforzi, maturi, diventi robusta e capace di cogliere le sfide dei nostri tempi, come Marina colse la sfida dei suoi tempi, perchè ogni generazione è “perversa” e sempre siamo chiamati a “salvarci”, cioè a scampare dal “così fan tutti” spesso comodo e in voga.
Il Signore risorto ci chiama a condividere la paternità di Dio con tanti fratelli e sorelle, cioè in fondo, ci chiama a riconoscerci tutti fratelli, tutti salvati e bisognosi di salvezza, ma tutti, sempre avvolti dalla tenerezza di un Padre che libera dalla morte e nutre in tempo di fame.

E allora sarà ancora Pasqua, cioè passaggio, cambiamento, conversione nella nostra vita, come lo è stato nella vita di Maria di Magdala e in quella di Santa Marina. E così sia.


Chiesa di Santa Marina - Villanovaforru

sabato 15 aprile 2017

Commento al Vangelo della Domenica di Pasqua

«E vissero tutti felici e contenti...». La risurrezione non è la conclusione di una storia che aveva preso una brutta piega. Certo, è più semplice dire cosa la risurrezione di Cristo non è.
Orto degli Ulivi (foto Bruno Bignami)
Non si tratta di immedesimarsi, come tutti abbiamo fatto da bambini, nel cavaliere che libera la sua dama dal drago cattivo, o nella principessa che baciando il rospo stregato da un incantesimo, ne ottiene la trasformazione in principe azzurro. Queste, che sono anche metafore potenti della vita, non ci dicono ancora nulla della risurrezione, come ancora poco ci dice l'altra potente metafora del sole che risveglia la natura a primavera dal sonno invernale e dal grigio del ghiaccio.
Per credere alla risurrezione occorre entrare nella tomba, come Pietro e Giovanni, perchè qui non si tratta del ristabilimento di una giustizia precedente o della realizzazione di una storia d'amore osteggiata, ma dell'inizio di esistenze, quelle dei discepoli, rapite dall'amore di Cristo e capaci di seguirlo fino a percorrere essi stessi il cammino dalla morte alla risurrezione.
È una salvezza che chiede di andare al sepolcro a verificare che lì Cristo non c'è e che non sappiamo neppure dove lo hanno posto. È una salvezza che chiede di essere continuamente incarnata (vedere e credere) nella vita del discepolo. Salvezza la cui misura è sempre proporzionata alla vita del discepolo.

Roma - Mosaico nella Stazione Ottaviano Metro B


Da cosa ti salva il Signore? A me dall'orgoglio, a te dall'incapacità di perdonare, a lei dalla chiusura al mondo, a lui dal tradimento... Tutti dal buio dello Sceol.
Ecco perché non possiamo parlarne a mo' di un “lieto fine” da favola: perché d'ora in poi il Risorto non riprende la vita di prima, ma dà senso, direzione, destino a ogni vita.
La risurrezione pertanto non è una semplice metafora esistenziale, come spesso si dice: anche tu hai le tue morti e devi risorgere, bisogna risollevarsi, etc. Chiacchiere.
Per conoscere la potenza della risurrezione occorre stare là al sepolcro, cercare il Signore, cercare il senso nel non senso, cercare la luce nel buio.
In quell'ordine apparente di teli posati sul sepolcro, di sudari ben piegati, di segni di morte svuotati (questo ha visto il discepolo amato) ci sono ora tutti i segni di morte del mondo svuotati della loro forza. C'è la speranza per i bambini siriani, gassati da potenti che credono di essere Dio, c'è la speranza per i popoli dell'America Latina, sempre attraversati da revival autoritari. C'è la speranza per me, che non conosco la bellezza della vita, perché il dolore mi ha svuotato e mi ha reso insensibile a ogni gioia.
Gerusalemme, Basilica Santo Sepolcro (Foto Bruno Bignami)
In quel sepolcro vuoto e in quei panni ripiegati c'è, per chi ha fede in lui, la certezza che anche la mia morte non è tutto. E che io sono responsabile di come vivo e di ciò che faccio, come il Cristo è stato responsabile della sua vita e della sua adesione al mistero della volontà del Padre. Da questa sua adesione, minacciata dalla tentazione al Getsemani, è scaturita la risurrezione.
Perciò qui c'è il dramma della vita di ogni uomo e di ogni donna, il mio e il tuo, non solo metaforicamente ricapitolati in Cristo, ma portati direttamente nell'intimità di Dio, di un Dio che è sceso fino agli inferi, dove non c'era speranza, a prendere per mano Adamo ed Eva e tirarli fuori.

Buona Pasqua!

Pubblicato su Il Portico del 16 aprile 2017

Ritiro di Pasqua

Ricordate che è necessario telefonare, dal lunedì al venerdì, dalle 20 alle 21.30

venerdì 14 aprile 2017

Venerdì Santo

Per molti anni mi sono chiesto che senso avesse la teoria della “soddisfazione vicaria”, la cui formulazione appare fortemente impregnata di giuridismo e dà l'immagine di un Dio fanatico, assetato del sangue del suo Figlio. Che padre può essere un padre che “offre” suo figlio, o anche solo “permette” che si abbattano su di lui tutte le tempeste del mondo, tutti i peccati, tutta la sofferenza di cui proprio in questi giorni siamo spettatori?
Marc Chagall - Crocifisso bianco
Stamattina la prima antifona delle Lodi Mattutine diceva: 
“Dio non ha risparmiato il suo unico Figlio: 
lo ha dato alla morte per salvare tutti noi”
(riprendendo Rm 8,32).
E ho avuto come una illuminazione.
Ho immaginato che in una grande città si scateni un incendio enorme nel carcere di massima sicurezza. Il direttore chiama i Pompieri. Il capitano dei pompieri della città invia i suoi uomini migliori, che tentano l'impossibile per salvare i detenuti, ma invano. Ne tornano scottati, ustionati, intossicati.
Nel suo reparto lavora anche il suo unico figlio, bello come il sole. Ha trent'anni, ha fatto tutti i corsi di specializzazione, è esperto, pratico, intelligente, intuitivo, sprezzante del pericolo. Ha una passione per le persone in difficoltà, ha ricevuto già l'encomio da parte del sindaco perchè si è gettato nel fiume per salvare una donna che voleva suicidarsi, una volta è salito su un tetto a ricuperare un gatto a una bambina, ha infilato le mani dentro un tritacarne perchè un macellaio rischiava di perdere un dito. E mille e mille volte ha effettuato servizi più o meno riconosciuti.
Fin da piccolo il padre gli raccontava le storie di salvataggi, azioni, interventi impossibili fatti da lui... la passione gli è nata in casa, l'ha respirata da sempre e l'ha fatta sua.
Ora il padre è in angoscia: sa che il figlio, il suo unico figlio, sarebbe la persona adatta...
Ma se l'ordine partisse da lui, e il figlio, facciamo gli scongiuri, restasse dentro quell'incendio, lui non potrebbe più guardarsi allo specchio. E poi, chi lo direbbe a sua mamma, che pur essendo madre di un pompiere, e conoscendo i pericoli a cui va incontro, vorrebbe con tutto il cuore che il figlio ritornasse a casa sano e salvo?
Eppure questo figlio sta fremendo, è in attesa di ricevere un ordine. Ha detto al padre di essere pronto a entrare in quel carcere e salvare i detenuti rinchiusi. Non è un fanatico, anche lui ha paura, lotta, perché quando il padre gli darà l'ordine possa partire senza indugio.
Il padre lo terrà in casa perchè è suo figlio?
O si strapperà il cuore ma farà la scelta giusta? O il figlio vorrà stare comodamente a casa, quando in quel carcere tanta gente rischia di fare la fine dei topi? Lui che si è preparato con anni di addestramenti, di azioni sul campo, per giungere a questo momento, fosse anche l'ultima azione della sua vita?

Ecco, stamattina mi si è aperto un mondo nuovo. E forse ho intuito un po' di più cosa significano le parole di Paolo: 
Egli che non ha risparmiato suo figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti.

Icona della Risurrezione

P.S.: E' probabile che altri abbiano proposto in passato immagini simili a quella del pompiere e dell'incendio, ma a me è balzata solo oggi al cuore e alla mente, e la offro così...

venerdì 7 aprile 2017

Commento al Vangelo della Domenica delle Passione del Signore - Domenica delle Palme


M.I. Rupnik - Cristus Patiens
Scrive San Tommaso Moro, incarcerato e condannato a morte, meditando sulla preghiera di Gesù al Getsemani: «Lascia che il forte abbia davanti a se mille martiri coraggiosi e che possa gioire nell’imitarli. Tu, pecorella timorosa e inerme, accontentati di avere me come tuo unico pastore, segui me come tua guida. Se non ti fidi di te, spera in me. Ecco, io ti precedo su questa strada tanto spaventosa. Afferra il lembo del mio mantello. Da lì sentirai uscire una forza salutare che fermerà il flusso di sangue che scorre dal tuo cuore verso inutili timori, e renderà più vitale lo spirito, poiché ti ricorderai che stai camminando sui miei passi, e che io sono fedele e non permetterò che tu sia tentato oltre ciò che puoi sopportare, ma con la tentazione ti darò anche la grazia per superarla, e nello stesso tempo il peso lieve e passeggero della tua tribolazione produrrà in te effetti gloriosi. E infatti le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che in te sarà rivelata. Medita dentro di te queste cose, e fatti coraggio, e con il segno della mia croce dissolvi i vuoti e tenebrosi spettri del terrore, della tristezza, dell’angoscia e dello sconforto; va’ avanti con sicurezza e attraversa tutte le difficoltà, nella salda fiducia che con me come tuo difensore vincerai, e dalle mie mani riceverai l’alloro della vittoria» (Gesù al Getsemani, pp. 81-82).
La Passione di Matteo ci mostra la sfrenata insensatezza della violenza, dell'odio, della perversione dei sentimenti, della menzogna che assurge al rango della verità.
Il dramma si compie come una furia su Gesù, in un vortice di persone che lo azzannano come bestie feroci. A nulla valgono i sogni di mogli superstiziose, a nulla vale che quest'uomo non ha commesso nessun male.

La violenza riversata sul Figlio di Dio è tale che gli fa esclamare l'immenso grido dell'Abbandonato: «Eli, Eli, lema sabachthani!».
Ma è proprio qui il senso del dramma: egli percorre fino alla fine la strada della vita, la percorre nel silenzio quasi assoluto del martire, nello sgomento del malato che perde progressivamente le forze, nella lontananza dell'amico lasciato al suo destino.
Irriconoscibile figlio di Dio in croce.

A te anche noi andiamo per mentirti, beffeggiarti, chiedere segni appariscenti: insegnaci la tua pazienza, insegnaci il tuo modo di patire la vita, di essere appassionati. Perché solo così potremo portare la nostra croce ed essere crocifissi con te: non con l'eroismo di certi campioni di santità, ma con la tua povera umanità, la tua santa umanità, la tua umanissima divinità.

(Pubblicato su Il Portico del 9 aprile 2017)

domenica 2 aprile 2017

Et lacrimatus est Iesus - Quarantore a Collinas

ET LACRIMATUS EST

C'è una parola che sempre mi colpisce quando ascoltiamo questo vangelo ed è l'esperienza del pianto di Gesù: davanti alla tomba del suo caro amico Lazzaro, vedendo Marta e Maria piangere, vedendo piangere i giudei andati a fare le condoglianze, Gesù «scoppiò in un pianto dirotto».
Gesù si scioglie in lacrime, si trasforma in una maschera di lacrime, come accade a noi quando piangiamo per la morte di una persona che amiamo: «Et lacrimatus est Iesus», traduce la Vulgata.
Il Figlio di Dio ha pianto per la morte di un uomo, piange per la morte di ogni uomo.
Certamente questo pianto è originato anche dall'incredulità delle sorelle di Lazzaro, dalle rimostranze dei giudei, dalla mancanza di fiducia...
Dice l'evangelista che Gesù si commosse profondamente e fu molto turbato. È una reazione profetica: gli dei greci non piangevano, anzi semmai si burlavano della sorte dell’uomo. Il mio Dio piange per me, si turba e si commuove alla mia incredulità.
Certo il pianto di Gesù non è semplicemente la reazione dell'affetto. Non è un pianto disperato, come di chi non sa di avere un Padre che “lo ascolta sempre”. Ma è un pianto dovuto alla commozione e al dolore per il distacco, alla incapacità in quanto uomini di accettare la nostra fragilità, all'ingiustizia della morte, di ogni morte.
Forse avete letto il libro Il Piccolo Principe, dove appunto egli parla con l’aviatore disperso nel deserto:
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda. E lui si dice: «Il mio fiore è là in qualche luogo» Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto, tutte le stelle si spegnessero! E non è importante questo!”
Non poté proseguire. Scoppiò bruscamente in singhiozzi. Era caduta la notte. Avevo abbandonato i miei utensili. Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone, della sete e della morte. Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c’era un piccolo principe da consolare! Lo presi in braccio. Lo cullai. Gli dicevo: “Il fiore che tu ami non è in pericolo ... Disegnerò una museruola per la tua pecora... e una corazza per il tuo fiore... Io...” Non sapevo bene che cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo bene come toccarlo, come raggiungerlo... Il paese delle lacrime è così misterioso».
Sì, è davvero misterioso il paese delle lacrime, e ciò che è bello è che Gesù lo ha attraversato. E questo ci fa sentire Gesù profondamente vicino al nostro dolore
Il salmista prega così: Hai contato i passi del mio vagare, hai raccolto le mie lacrime in un vaso (Sal 56,9) perché non vadano perdute. E ancora il salmista parla di una valle del pianto che sarà cambiata in sorgente (Sal 84,7)
Sì, anche Gesù ha pianto. Ha preso seriamente la vita e la morte, ha preso seriamente la sua comunione con il Padre, ha preso seriamente il fatto che lui è la risurrezione e la vita, e che chiunque crede in lui non morirà in eterno. Ecco perchè ieri abbiamo detto che Gesù cerca una fede presente e non futura: Egli è già ora, da questa parte del tempo e della storia, risurrezione e vita, e perciò la morte, che pure verrà per tutti, è già stata inserita dentro la vita, non è l'ultima parola sulla nostra esistenza.
Lui ha detto «Io sono la risurrezione e la vita», non «Io sono la longevità». Nell'Antico Testamento i patriarchi erano definiti amici di Dio, vivevano a lungo, morivano sazi di giorni, in modo quasi mitologico. Il Nuovo Testamento ci mostra una vita altra, diversa, dove non conta semplicemente la lunghezza, ma l'intensità della vita stessa, la “gloria” di Dio, il suo “peso” (gloria) nella mia vita.
Il nostro Maestro e Signore non è morto anziano sul suo letto, ma crocifisso a poco più di trent'anni. La sua non è stata una vita lunga, ma una vita interamente vissuta nell'amore e per amore.
E poi ci sono quelle altre parole che ci danno uno squarcio di luce sul rapporto tra Gesù e il Padre: «Padre, ti rendo grazie perchè mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perchè credano che tu mi hai mandato». Gesù ha pronunciato per noi queste parole. Penso che qui ci sia un pungolo per riflettere sulla nostra preghiera, che si riempie di parole e spesso viene attraversata da pensieri come un vortice: se la nostra vita diventasse consapevolezza di stare sempre davanti a un Dio che ci ascolta, le nostre preghiere sarebbero esaudite, questo dice Gesù: «Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà» (Mc 11,24).
Ma come si fa ad avere questa fede?
Se noi andassimo in tribunale ad avanzare le nostre richieste di giustizia davanti a un giudice certamente non saremmo distratti, ma tutto il nostro desiderio, la nostra attenzione, la nostra volontà, sarebbe rivolta ad ottenere giustizia, non ci sarebbe spazio per pensieri futili, per riflessioni su stupidaggini, per preoccupazioni di poco conto...
Quanto deve cambiare la nostra preghiera per entrare in questo rapporto profondo con il Padre, per far sì che le nostre parole, quando le pronunciamo, abbiano la stessa forza delle parole di Gesù, che sanavano e portavano la risurrezione!
Chiediamo allora a Dio, come frutto di queste Quarantore, il dono delle lacrime. Anticamente c'era nel Messale una Messa per ottenere il dono delle lacrime. Così pregava la colletta:
O Dio onnipotente e mitissimo, che per il popolo assetato facesti uscire dalla roccia una fonte d'acqua viva, fa' uscire dalla durezza del nostro cuore lacrime di pentimento, perché possiamo piangere i nostri peccati e meritiamo di ricevere, da te che fai misericordia, la loro remissione.
Il pianto nasce dall'amore, da un cuore pentito e riconciliato, da un cuore che sa di avere un Padre pronto ad ascoltare.
Chiediamo a Dio che ci commuova, che muova il nostro cuore a riconoscere i nostri peccati e ad amarlo sempre più, che lo sciolga perchè si apra in un canto di lode.

Che faccia uscire dalla roccia del nostro cuore indurito lacrime di amore, perchè impariamo anche noi ad amare Dio e il nostro prossimo e a pronunciare sempre parole di vita e di risurrezione, parole efficaci che portino frutti di vita per tutti.

sabato 1 aprile 2017

Risurrezione: fede presente o fede futura? - Quarantore a Collinas

Risurrezione: fede presente o fede futura?

Questa domenica che precede l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, assistiamo al grande segno della risurrezione di Lazzaro, un segno che ha dell'incredibile. Altre volte i vangeli sinottici raccontano un miracolo di risurrezione, ma san Giovanni ci fa assistere a un vero e proprio percorso di fede dei discepoli e di Marta e Maria, che possono aiutare anche il nostro cammino di fede.
Per prima cosa notiamo questo tempo “perso” da parte di Gesù: le sorelle lo avvisano che “colui che ami sta male”, gli chiedono con insistenza di andare a guarirlo. Sono amici di Gesù, l'evangelista lo dice più volte, Gesù era amico di Maria, di Marta, di Lazzaro, andava a casa loro a Betania. Eppure anche gli amici di Gesù si ammalano e muoiono.
Questa dilazione di tempo nell'andare dall'amico morente, noi la vediamo come noncuranza di Dio della vita e delle sofferenze degli uomini. Perchè non sei venuto? Hai guarito il cieco, potevi guarire anche Lazzaro? Così diranno i giudei accorsi alla tomba di Lazzaro.
E ci sembra appunto che Gesù si disinteressi della nostra vita.



Non è solo una nostra impressione. Il libro dei Salmi contiene spesso invocazioni da parte di chi sente di essere stato abbandonato da Dio, sente che Dio ha voltato la faccia o è addormentato e insensibile alle sofferenze, sentono il peso di lunghi periodi di dolore, nei quali Dio è assente. Gesù stesso griderà in croce l'inizio del salmo 21(22): «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?».
Si sperimenta questo senso di abbandono in quelle situazioni in cui siamo disperati perchè la sofferenza e il male ci sovrastano. E non ci sono prediche che valgano a rincuorarci!
Gesù sa tutto questo, e tuttavia, come domenica scorsa per il cieco, invita ad avere uno sguardo più profondo sulla realtà: questa malattia “è per la gloria di Dio”, perchè si manifesti la presenza di Dio attraverso Gesù, attraverso la sua morte in croce, morte decisa dai capi proprio dopo questa risurrezione.
Questa risurrezione costerà cara anche a Lazzaro: i capi dei sacerdoti infatti decidono di togliere di mezzo anche lui, insieme con Gesù, perchè molti che hanno visto la sua risurrezione ora stanno seguendo Gesù.
È paradossale che la sua risurrezione lo metta ora in pericolo di vita: le sue sorelle hanno insistito perchè Gesù facesse qualcosa, ma non hanno calcolato che questo gli avrebbe portato dei guai.
Poi c'è Marta. Marta affronta Gesù: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Marta ha una fede un po' magica, mentre il Vangelo di oggi vuole dirci l'esatto contrario: anche gli amici di Gesù muoiono! Marta ha anche una fede futura: «So che mio fratello risorgerà nella risurrezione dell'ultimo giorno». È la fede che talvolta dimostriamo noi: una fede tutta sbilanciata nel futuro, nel paradiso (o nell'inferno, spesso con idee distorte!): «Ci sarà qualcuno...», diciamo.
Marta poi, e anche Maria in fondo, vogliono una redenzione senza croce, come tanti cristiani. È una redenzione tutta umana, basata su una vita senza problemi, senza preoccupazioni, senza malattie, che non ha nulla a che fare con Gesù Cristo. È un dio mago, che deve risolvere tutti i problemi miei e della mia famiglia, e per non sentirci troppo egoisti spesso aggiungiamo: e di tutto il mondo. E vissero felici e contenti.
La risurrezione cristiana però non è la porta di sicurezza attraverso cui scappare quando scoppia un incendio, ma la pienezza di una vita che ha attraversato la morte.
Similmente, il perdono sacramentale dei peccati non è una pacca sulla spalla di un amico che ci dice: «Ma sì, non è successo nulla!», ma è la pienezza di un peccato vero, commesso da un uomo, una donna veri, che hanno riconosciuto la propria responsabilità e non possono tornare indietro da soli dalle sue conseguenze.
Gesù invece chiede a Marta una fede presente: «Io sono la risurrezione e la vita. Credi tu questo?». Occorre compiere questo passaggio.
Cosa intendiamo allora noi quando, come Marta, diciamo «Credo»?
É l'adesione a una formula o l'adesione a lui?
La base della fede è un'adesione personale a Cristo qui e ora. Questa adesione mette in pericolo, mentre la fede generica, la fede futura è ininfluente e accomodante. Lazzaro ora rischierà la vita molto più di prima (volevano ucciderlo per eliminare la prova). Se la fede è solo una questione futura, di inferno o paradiso, se il mio rapporto con Dio riguarda l'aldilà, ma non riesco a scorgerlo nell'aldiqua, devo ancora crescere e maturare.
Solo se tutta la nostra attenzione punta a Gesù possiamo liberarci dalle paure ed essere liberi. Altrimenti le paure e tristezze umanissime ci distruggeranno il cuore e non lo faranno più battere per ciò che conta veramente.
Come possiamo percorrere questo cammino, come fare questo passaggio nella nostra vita, da una fede magica e futura, a una fede radicata in Cristo e presente?
Fidandoci della sua Parola.
La parola di Gesù infatti, che non a caso Giovanni chiama fin dall'inizio del suo vangelo Logos, Verbum, è una parola efficace, che realizza ciò che dice. Anche noi desideriamo che le nostre parole producano risultati. Perchè spesso non lo fanno?
Le parole sono inefficaci e spesso anche dannose, quando non vengono dalla Parola, quando non sono originate dalla fonte, impastate di vita e di speranza, ma sono solo frutto dei nostri ragionamenti, dei nostri giudizi, delle nostre povere esperienze. Sono frutto nostro, non nascono da un contatto vivo con Dio. Potranno essere anche parole estremamente religiose, piene di unzione, ma restano vuote.
Gesù pronunciava parole vere, non semplicemente parole “religiose”: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina!», «Lazzaro, vieni fuori!». Parole efficaci perchè sgorgano dal silenzio del rapporto profondo di Gesù con il Padre: «Padre ti ringrazio di avermi ascoltato. Sapevo bene che tu sempre mi ascolti!». Quanta nostra sfiducia sparirebbe se prendessimo sul serio questo rapporto con il Padre in Gesù Cristo, e se la nostra preghiera diventasse prosecuzione di questo rapporto silenzioso, di una relazione che è sempre, e non si limita a momenti in cui pronunciamo parole o formule ripetute! Allora impariamo la discrezione nel parlare, e nel pronunciare solo parole che sono maturate con sapienza nel nostro cuore.

L'eucaristia ci fa conoscere Gesù come il Veniente, colui che viene sempre, non in un luogo particolare, ma in questo tempo, qui oggi per me e per la nostra comunità cristiana. Credi tu questo?

Commento al Vangelo della quinta Domenica di Quaresima

E stiamo giungendo alla conclusione della Quaresima, che ci ha fatto camminare verso una progressiva conoscenza di Gesù: Figlio di Dio, maestro, uomo di Dio, profeta, Cristo, Figlio dell'uomo e oggi “Risurrezione e vita”.
Lazzaro è malato, muore. La gente piange, corre a implorare ai piedi di Cristo, accusandolo di non far nulla per risolvere il male dell'uomo, per guarire la sofferenza che colpisce chiunque indistintamente: oggi la mia famiglia, ieri quella del mio vicino, domani chissà. «Se tu fossi stato qui!», dicono entrambe le sorelle piangenti.
Lazzaro è per Gesù «Colui che tu ami», non c'è neppure bisogno che dicano il suo nome. E ancora: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro».
La gente può dire: Vedi come lo amava... e nonostante ciò... ha dato la vista al cieco, ma non ha fatto nulla per Lazzaro. Altro che amore e amore...

«Poiché non puoi abbandonare quelli che ami», commenta Sant'Agostino parlando del “ritardo” di Gesù nell'andare a Betania dopo quattro giorni.
Qui sta la chiave di lettura della morte di Lazzaro, di ogni pianto e di ogni sofferenza: Non enim amas et deseris. Tu infatti non ami e poi abbandoni!
Il vero amore non abbandona. Eppure sperimentiamo sovente che pur amando tanto le persone, non possiamo impedire che soffrano.
La risurrezione di Lazzaro si manifesta allora come un segno eccezionale di amore, quasi scandaloso. Perché lui e non tutti i morti di quel giorno? Di quell'anno? Dall'inizio del mondo?
Perché è un segno, il segno più potente e centrale della nostra fede, ciò che celebreremo a Pasqua: Cristo è morto ed è risorto, e un giorno anche noi risorgeremo. Egli stesso è “uomo dei dolori, che ben conosce il soffrire”, ed è risurrezione e vita. Credi tu questo?
Allora si aprirà anche il tuo sepolcro, quello dal quale pensi di non poter più uscire. E nel Suo giorno risorgerai anche tu.

Credi tu questo?

Pubblicato su Il Portico di Cagliari del 2 aprile 2017