domenica 21 aprile 2019

Omelia nel giorno di Pasqua

A. Soressi Trasporto di Gesù al sepolcro 
L’altro giorno mi è arrivato un messaggio sul cellulare. Diceva: «Corri come me ad attivare una nuova offerta». E mi è venuto in mente che nel giorno di Pasqua si parla di corse nel Vangelo, è tutto un correre, dal sepolcro a casa e da casa al sepolcro. Maria di Magdala corre, Pietro corre, il discepolo amato corre... più lenti, più veloci...
È la corsa frenetica davanti a un annuncio sconvolgente: la tomba è aperta, il sepolcro è vuoto!
E mi sono chiesto: per cosa corro io? Per cosa corriamo noi? Cos’è che ci muove veramente, ci fa uscire dal nostro immobilismo, dalla nostra comodità? «S’abbisongiu bogada su becciu a curri», diciamo.
Qual è il nostro bisogno? Di cosa abbiamo bisogno? Di serenità, di pace, di tranquillità... Ci sembra di aver bisogno di queste cose.
Ma più di tutto, penso che abbiamo bisogno di senso, di recuperare un senso per il nostro correre, un senso che ci faccia comprendere dove andare, una direzione verso dove tendere, verso dove condurre la nostra vita.
Che ce ne facciamo della serenità se non sappiamo a cosa ci serve? Che ce ne facciamo della pace se non sappiamo a che scopo vivere in pace?
Siamo perennemente scontenti perché spesso non troviamo un senso alla nostra vita.
Alcune persone, non vedendo i risultati che si aspettavano nella loro esistenza, si chiedono: Avrò sbagliato tutto nella vita?
Altre invece, che si ritengono fortunate, pensano: Dio mi ha benedetto.
Noi spesso facciamo ragionamenti di questo tipo.
Domande come queste forse se le sono poste anche i discepoli, davanti al fallimento del loro maestro, davanti a una tomba vuota, davanti a una donna che vaneggiava: «Forse abbiamo sbagliato tutto, abbiamo sbagliato a seguirlo. Avevano ragione i capi, lui non era il Messia. Che senso ha avuto seguirlo?». 
Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Ripeto la domanda: verso dove corriamo? Quale vera offerta irrinunciabile ci viene fatta nella vita?
Oggi, nel giorno di Pasqua, ci viene offerta una tomba vuota, ci viene offerta una scena che lascia senza parole. 
Eppure da quella tomba vuota tutto è partito. Quando Pietro rilegge la sua esperienza di discepolo a partire da quella tomba si rende conto che tutto aveva un senso, anche la morte di Gesù, che tutto era misteriosamente ma realmente guidato da Dio, anche quelle situazioni che apparentemente sembravano dimenticate da Dio.
E qual era il senso di tutto?
Che la vita del Figlio di Dio, e per chi si fida di lui, anche la nostra vita, è avvolta da un amore più grande della morte.
So che siamo allergici alla parola “amore”, soprattutto attribuita a Dio.
Ci sembra quasi esagerata. Dio ci ama, sì... ma poi abbiamo problemi, dobbiamo affrontare malattie, litigi, guerre... Che amore è questo?
No, certamente non è l’amore da vetrina, non è l’amore truccato delle trasmissioni televisive. È un amore a caro prezzo, è un amore che è costato la vita al Figlio.
Usciamo da questa celebrazione con la convinzione che l’amore di Dio non è una dose di tranquillante, ma è il senso della vita, è la direzione da dare alla vita. Non è qualcosa da esibire, ma qualcosa da scambiare.
Io ho paura di dire “risurrezione” perché so quante morti dobbiamo affrontare, quante mortificazioni, privazioni, problemi e sofferenze. Ho paura a dirvi che risorgeremo, perché ho paura che fraintendiate. Risurrezione non è bacchetta magica, risurrezione è l’esito di una vita di amore. Risurrezione non è soluzione dei problemi, risurrezione è attraversare la croce, il venerdì santo.
Noi non possiamo parlare di risurrezione come parliamo del finale di una favola: e vissero tutti felici e contenti. La risurrezione è l’anima della vita al centro della sofferenza più grande, è la speranza per noi al centro di ogni nostra disperazione, è l’amore più grande in mezzo all’odio più profondo. 
No, non vi sembrino dei giochi di parole, fratelli e sorelle.
Banalizziamo la risurrezione di Gesù, quando non comprendiamo da quale dramma è arrivata. Solo guardando a colui che hanno trafitto possiamo comprendere il senso della risurrezione.
Ecco perché i discepoli dovranno vedere le sue ferite, sentire le sue parole, rinnovare il pasto con lui. Che è quello che noi facciamo in ogni eucaristia: perché il destino di chi si fa ponte, permettendo il passaggio, è quello di essere calpestato. Per questo ai ponti preferiamo i muri! (P.Pegoraro)
Noi abbiamo perso spesso la comprensione di ciò che facciamo, celebriamo in modo meccanico anche la Messa. Ma se per un momento noi proviamo a entrare dentro il mistero di amore sino alla fine che Gesù ci ha lasciato e proviamo a liberarci di tante incrostazioni che gli abbiamo appiccicato, forse capiamo che davvero solo lì, nelle sue parole e nel suo pane di vita, nella sua croce, troviamo senso per la nostra vita.
E allora ritorno alla domanda iniziale: Verso dove corriamo? Cos’è che ci muove?
Pasqua non è la festa della tranquillità, è la festa del movimento, è la festa di un Dio che non ci lascia marcire, che non ci lascia nel peccato. Accorgerci di questo, e imparare a vivere così. Dire come Pietro: di questo siamo testimoni!
Gesù è risorto veramente, è risorto anche per te, per dare un senso alla tua vita e alla tua morte. Vorrai accoglierlo oggi? Vorrai accettare anche tu questo annuncio?
Oppure farai come se nulla fosse, aggrappato a una religione di circostanza?
Questa è la domanda seria per noi. 
Ha un senso la mia vita? O è solo un caso e un errore della natura?
Burnard, Pietro e Giovanni
In Gesù risorto noi crediamo che la nostra vita abbia un senso, che maturi, che cresca che raggiunga la sua pienezza di amore.
Sì, ci fideremo di te Signore, perché solo tu sei fedele, solo tu mantieni la parola data.
Ci fidiamo di te e con te camminiamo, anzi corriamo, incontro ai nostri fratelli, per dire loro con le parole, e soprattutto con le opere, che Gesù è risorto, e che ci precede e ci accompagna.

Omelia per la Veglia Pasquale

Abbiamo vissuto i giorni della passione, della sofferenza del Crocifisso. Siamo entrati non solo nella notte fisica, quella che viene quando tramonta il sole, ma nella notte del mondo, la notte che tutto avvolge e ogni cosa rende uguale. Siamo entrati nella notte che impedisce di comprendere il senso, la direzione, impedisce di orientarsi.
Anche i discepoli e le discepole di Gesù hanno attraversato questa notte. 
La notte in cui ogni speranza è perduta, la notte in cui il ricordo ha il sapore amaro del rimpianto e non quello appagante del ringraziamento.
La notte che confonde, che agita il sonno, la notte che non vediamo l’ora che finisca...
Tutti siamo entrati in questi santi giorni nella notte del mondo, la notte dell’assenza di Dio, che spesso sentiamo palpabile intorno a noi, lamentandocene, ma non facendo nulla per favorirne la presenza.
E cosa potremmo fare del resto?
Noi che sprechiamo il dolore, cercando di abbreviarlo, noi che ci imbottiamo di anestetici dell’anima per non soffrire. Abbiamo dimenticato che “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”.
Ci sembra assurda questa necessità, eppure è più necessaria dell’aria, perché non c’era altro modo per offrirci la speranza, non c’era altro modo per offrirci l’amore se non quello di consegnarsi a noi. Perché l’amore è così: è consegnarsi all’amato, senza calcoli, anzi mettendo in conto che l’amato possa tradirmi.
Che altezze vertiginose abbiamo toccato in questi giorni fratelli e sorelle, cose da farci rabbrividire. Che amare sia donarsi, lo capiamo e in fondo ci stiamo. Ma che amare sia donarsi anche a chi non ti vuole... questo no, questo onestamente è troppo.
Non lo diciamo, in fondo anche noi, sperimentando le nostre relazioni che falliscono: “Se non mi vuole, che posso farci?”?
E allora come si fa ad amare così, donandosi anche a chi non ci ama? Diventando oggetto della rabbia, della rivalsa, dell’odio dei nemici, e diventando anche sconosciuto ai tuoi stessi amici? Annientandoti sino alla morte?
Colonne di psicologi ci dicono che l’amore vero non può essere un autoannientamento. E forse hanno ragione in parte.
Però noi oggi siamo qui a contemplare una tomba vuota, siamo qui a riascoltare quell’annuncio che ci chiede di non cercare tra i morti colui che è vivo! Che ci chiede di ricordare le sue parole.
E per ricordare bisogna ascoltare: non si può ricordare ciò che non si è mai sentito.
Stanno vaneggiando le donne? Stiamo vaneggiando noi stanotte a dire queste cose a compiere questi gesti che sanno di vita, di luce, di bellezza?
O abbiamo fatto solo una bella recita? Ci siamo commossi giovedì e venerdì santo, perché conosciamo il dolore e sappiamo riconoscerlo nel Figlio di Dio, ma in fondo ci fermiamo lì, quasi ancora seguaci di un culto dei morti senza speranza?
Spesso vedendo i cristiani, questa è la sensazione!
Perché questa è la domanda seria che possiamo farci a Pasqua: Che ne sarà della mia vita? Che ne è stato di quell’amore di Gesù dato persino a chi lo ha tradito e crocifisso?
Perché se tutto finisce nella tomba e in cimitero, se la nostra speranza è tutta qui, in queste poche lune di vita terrena, se tutto si esaurisce in un “Mangiamo e beviamo, ché domani moriremo”, siamo davvero dei disperati.
Ma se per grazia di Dio stanotte ci si è fatto incontro un pensiero, una piccola luce come quella della candela che abbiamo portato, un piccolo segno come un po’ d’acqua fresca. Se stanotte noi abbiamo pensato che questi piccoli e poveri segni, come quelli di un amore che non cessa di amare anche se l’altro non corrisponde, che questi piccoli e poveri segni ci dicono qual è il nostro desiderio più profondo: che ogni nostro amore, cioè, ogni nostra amicizia sia davvero per sempre, che cresca semmai, ma non diminuisca.
Perché sappiamo che
Amore non è amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza. 
(Shakespeare)
Ecco, se tutto questo è vero nella nostra vita, allora oggi ci viene donato Colui che ci dà la capacità di amare così, che toglie da noi il peccato, cioè la forza terribile dell’allontanamento da Dio e dai fratelli. Perché questo è il peccato, e noi non lo riconosciamo, ci confessiamo di aver mangiato una ciambella, di aver detto una bugia, di aver trasgredito un impegno. Ma solo su questo dovremmo interrogarci: quanto il nostro cuore si allontana da Dio e dai fratelli, quante cautele poniamo, quanti muri, quante pause di riflessione.
E sapere che questa lontananza, questo allontanamento volontario del Figlio prodigo lui lo rispetta, eppure lo annulla, perché basta soltanto che ci voltiamo a guardarlo e già lui si è catapultato ad abbracciarci, a confortarci, che mai più ci allontaneremo, e questo infinite volte.
Se abbiamo provato una volta cosa significa perdersi in un luogo sconosciuto, senza punti di riferimento, senza capacità di orientarci, sapete di cosa sto parlando. Solo qualcuno che venga da fuori, da quello che per noi è al di là, perché noi siamo nella morte e lui nella vita, solo qualcuno che venga a salvarci può restituirci la gioia e la vita.
Carissimi fratelli e sorelle, Pasqua è questo: è il passaggio dalla nostra presunta autosufficienza all’incontro con Dio. Se la nostra esistenza riparte oggi da questa nuova consapevolezza, se domani, la settimana prossima, ogni domenica, noi ritorniamo a questa fonte, state certi che la nostra vita ne sarà trasformata, che anche la nostra croce potrà diventare luminosa, che anche i nostri rapporti si fonderanno su gesti nuovi e stili nuovi.
Il Signore risorto accompagni i nostri passi di risurrezione e di vita, oggi e sempre.

venerdì 19 aprile 2019

Omelia per il Venerdì Santo - Su scravamentu

«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».

Certo, tu l’avevi detto... e noi immaginiamo la felicità come un eterno salire. Noi pensiamo che la strada del successo sia un’ascesa, appunto, una scalata fino al gradino più alto. E su questo basiamo la nostra vita. Non desideriamo più essere quel che siamo. Ammantiamo i nostri desideri insani di progresso, lo chiamiamo miglioramento delle condizioni, perché, certo, diciamo che vorremmo che i nostri figli vivessero meglio di noi. E così le vecchie generazioni che non poterono andare a scuola fecero sacrifici enormi perché almeno alcuni dei figli potessero diplomarsi o laurearsi. E va bene.
Ma ora quale sarà il prossimo passo? Quale sarà il prossimo scalino che vogliamo far salire ai nostri figli?
Vedete come è diversa la promessa di Cristo: il suo innalzamento non è glorioso, non è un miglioramento. È piuttosto una ostensione, cioè un metterci davanti la realtà: la sua morte, la morte del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo.
Quell’innalzamento lui lo chiama “gloria” e noi non possiamo sopportarlo, perché per noi la gloria è ricevere un premio, una medaglia, un aumento di stipendio, o fosse anche un encomio o un minimo ringraziamento. Per noi la gloria è costruire pinnacoli e torri altissime, e dare il nome a invenzioni che migliorano e semplificano la vita, e dare il nostro nome alle strade del paese. 
Ma che gloria c’è sulla croce?
Noi non sospettiamo minimamente che la tua gloria sia stata quella di scendere Tu al nostro livello, quella di posarti e camminare sulla nostra stessa terra, di amare con cuore d’uomo, di accarezzare i bambini, di donare speranza agli ammalati, di mostrarci il volto del Padre nel tuo abbraccio perdonante.
Noi ne abbiamo paura di un Dio così semplice, di un Dio così terra terra. Di un Dio che muore noi abbiamo tremendamente paura, perché in lui vediamo la nostra stessa impotenza davanti alla morte.

Soprattutto in lui vediamo un uomo che continua ad amare, e noi ci spaventiamo davanti a chi ama gratis, a chi salva gratis, a chi non vuole dimostrare nulla, ma ama fino alla fine. Lo guardiamo quasi come un extraterrestre. Noi ci spaventiamo davanti alla semplicità, all’ingenuità, alla purezza. 
Noi soprattutto non possiamo sopportare il dolore. Noi sprechiamo il dolore e la sofferenza, cercando il modo di abbreviarli. Non riusciamo a trapassarli. Ecco perché ci spaventiamo davanti a questo “spettacolo”, a questo dolore, a questa passione, a questa morte: perché in esso vediamo tremendamente realizzati e amplificati tutti i nostri dolori, tutti i dolori di questa umanità che non smette mai di soffrire.
E ci chiediamo: A che serve soffrire? Perché soffrire? Da stolti quali siamo abbiamo persino sviluppato teorie sulla sofferenza, dicendo che la sofferenza salva, purifica, redime.
Ma davanti a te, Signore crocifisso e benedetto, ci rendiamo conto che i nostri vaneggiamenti si annullano. Tu non hai fatto teorie sulla sofferenza. Tu hai sofferto. Tu sei stato lì, nella sofferenza, a occuparti di chi ti crocifiggeva, di chi era crocifisso insieme a te, di chi ti vedeva crocifisso. Tu hai patito rimanendo uomo, ed è per questo che noi guardiamo a te con speranza. Perché non sei fuggito, e ci insegni a non fuggire, a non sfuggire alla vita, ma a viverla, perché alla fin fine questo soltanto conta: l’intensità della nostra vita. E allora scopriamo, non come una teoria, ma sulla nostra pelle, che esistono dolori che guariscono, come esistono gioie che ammalano.

E allora anche il nostro dolore ci appare più sopportabile, perché unito al tuo, unito a quello di tanti fratelli e sorelle che soffrono nelle nostre case, che soffrono per la mancanza di amore, di speranza, che soffrono per la guerra, la persecuzione, la privazione dei loro diritti. 
Tutto è già qui, sulla croce, nel tuo dolore, Signore Gesù. Non farci fuggire dal dolore.
(Giuseppe nel mentre si pone davanti alla croce, insieme al suo servo)
Vengono avanti due uomini. Sono tra i più paurosi di tutti. Sono persone importanti. Giuseppe è ricco, è un membro del sinedrio, è una persona che conta. L’evangelista Giovanni ci dice che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per paura dei Giudei. Eppure ancora san Luca ci dice che non aveva aderito all’operato del Sinedrio. Lui non ti ha giudicato stanotte, Signore!
Ecco qui la differenza, davanti a te, Signore. Noi abbiamo paura molte volte nella vita, abbiamo paura di essere messi in discussione, abbiamo paura di dire qualcosa che scontenta gli altri perché temiamo le conseguenze. Siamo pusillanimi quando temiamo di perderci la faccia, di perdere il buon nome, di perdere la considerazione dei più.
È la differenza che facciamo anche quando ci confessiamo: noi diciamo, un po’ come i bambini: Non lo faccio più. Ma dovremmo dire: mi oppongo!
Questa è la vera lotta contro il male.
Piangiamo qui oggi perché vediamo uno, il Figlio di Dio, che ha detto: io mi oppongo al male. E mi oppongo con la forza irresistibile dell’amore. Perché questo è il vero pentimento. Il vero pentimento non è indossare il cilicio, il vero pentimento non è fare penitenze. Il vero e perfetto pentimento è amare di più, amare ancora una volta!

O Gesù, ma quant’è che abbiamo disatteso questo tuo comandamento dell’amore! Forse tu, Giuseppe di Arimatea lo hai capito, sei andato coraggiosamente da Pilato a chiedere il corpo del tuo maestro e gli hai dato la tua tomba, una tomba bella larga, spaziosa, scolpita sotto un giardino. (Nicodemo e il servo vanno di fronte alla croce)
E poi ci sei tu, Nicodemo, discreto amico delle nostre notti di domande che non trovano risposta, condiscepolo del nostro desiderio di uscire allo scoperto e della nostra impossibilità di elevarci da soli, caro compagno dei nostri dubbi di fede, delle nostre incapacità di comprendere cosa significhi rinascere, mesto sodale del nostro tarparci le ali da soli, di noi che siamo così attaccati al si è sempre fatto così, che temiamo la novità di vita perché pensiamo sia una fregatura, che pensiamo che sia meglio prendersi il sicuro e ci evitiamo la fatica di esplorare terre sconosciute.
Oh Nicodemo, come ti sentiamo vicino, fratello nostro, amico nostro, compagno nostro.
Eppure, eppure... anche tu sei lì questa sera, al Golgota a schiodare Gesù, a toglierlo da quella fissità dove stai tu stesso. Non ti rendi ancora conto che schiodando lui, finalmente stai schiodando te stesso, ti stai dando la possibilità di lasciar fare a Dio, ora che gli uomini hanno già fatto tutto: hanno accusato, hanno giudicato, hanno condannato e crocifisso, hanno ucciso.
Ora compi quest’ultimo atto di uomini e chiudi Gesù nel sepolcro, perché attenda l’azione di Dio, perché sia risollevato dal sonno della morte, perché rinasca dall’alto, e trascini a vita nuova, finalmente, anche te e anche noi.
Nessuno è mai salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo: questa verità ora la comprendi, la schiodi dal legno, la prendi sulle tue spalle, la adagi su una lettiga e la porti al sepolcro.

Vengono in loro aiuto due giudei.
Prima di iniziare il pietoso compito si inginocchiano in preghiera ai piedi della croce. “Solo con mani innocenti e cuore puro oseranno toccare il corpo del Signore.”
(Silenzio di preghiera, breve pausa di silenzio)
Silenzio. Perché solo nel silenzio parla Dio. Anche qui, che illusi siamo! Pensiamo che Dio parli nelle parole, spesso nelle nostre parole maldestre e insufficienti. Ma ogni partenza si fa da fermi, ogni fuoco è acceso da qualcosa che fuoco non è. Ogni parola nasce da qualcosa che parola non è: dal silenzio, appunto.
Noi, uomini scientifici del XXI secolo, del terzo millennio, homo tecnologicus ci siamo autobattezzati, self made man, uomini che si fanno da soli, pensiamo che il silenzio sia un lusso che non ci possiamo permettere, un lusso da monache di clausura, pensiamo che sia necessario andare, parlare, fare, muoversi. Che solo chi parla più forte vince.
Non sospettiamo minimamente l’illusione che si nasconde dietro questo nostro agitarci. Ma oggi siamo costretti a fermarci, come ci fermiamo quando ci muore una persona cara, e abbassiamo le serrande, e ci assentiamo da lavoro. Oggi siamo costretti a fermarci, davanti all’Uomo che muore. Tu ci raccontasti una volta di un Samaritano che si fermò anche lui davanti all’uomo lasciato moribondo sulla strada verso Gerico...
Siamo costretti dall’insuperabile carica di patimento a fare silenzio, cioè a fare i conti con la voce di Dio che parla in quest’Uomo, maledetto, contato tra i malfattori, fatto peccato, sputato, deriso, flagellato.
Siamo costretti a fare i conti con la potenza tremenda del male. Ammutoliamo fratelli e sorelle, perché davanti al male non abbiamo parole. Ma questo silenzio, dicevo, è l’occasione che Dio ha di parlarci, di parlarci nel suo Figlio, non attraverso miracoli o segni, non attraverso discorsi, ma attraverso il suo corpo benedetto. Il suo corpo umano!
E allora ci rendiamo conto di come noi stessi abbiamo rinunciato a questo linguaggio. Non sappiamo toccare con castità, non sappiamo accarezzare con purezza, non sappiamo baciare con tenerezza, non sappiamo guardare con amore. Talvolta sembriamo lupi rapaci, assetati di possedere gli altri, le loro idee, le loro cose, i loro corpi.
Il silenzio ristabilisce la distanza giusta dove riconsiderare i nostri rapporti. Solo davanti a te, Signore crocifisso, noi possiamo confrontarci con il profondo abisso del male e con l’abisso ancor più profondo della misericordia che si incunea in esso, sfondandolo.
Ora Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, salite a deporre dalla croce il corpo Santo del Salvatore del mondo. (Salgono i gradini della scala)

Dicono che la tua corona di spine sia custodita nella Cattedrale di Notre Dame e che si sia salvata dall’incendio che ne ha devastato il tetto. Noi ne abbiamo fatto una reliquia, per aumentare la nostra devozione alle tue piaghe. Qualcuno che si sia preoccupato dell’eucaristia conservata nel tabernacolo? Certo, un’opera d’arte è un’opera d’arte, una reliquia è una reliquia...
Ma il tuo corpo! Dio fatto uomo, tre volte santo, il Tuo Corpo benedetto!
E noi facciamo sempre così, scambiamo l’involucro per il contenuto.
Togliamo la corona di spine dalla tua statua, e la mettiamo in capo ai nostri fratelli.
Che grandi ipocriti siamo! Oh Signore, perdonaci, non disgustarti ancora se abbiamo scambiato la fede in te con dei gesti teatrali. Facci comprendere la forza misteriosa dell’amore che accetta di farsi scambiare per un Dio ridicolo, da farsa, che accetta di essere il protagonista di uno spettacolo per far ridere i soldati, ma non torna indietro dall’amore.
Ricordaci, con la tua corona di spine, che non ci è mai lecito scambiare qualcosa per qualcuno. Che nessun possesso è più grande di un rapporto tra persone, che nessuna apparente religiosità ci immunizza dalla freddezza e dalla cattiveria nei confronti degli altri.
Giuseppe d’Arimatea togli dal capo di Gesù la corona di spine e mostrala a tutti noi. (Toglie e mostra la corona di spine) (la consegna al servo e il servo la consegna alla Maddalena)
Giuseppe consegna la corona di spine al giudeo, perché la consegni alla Maddalena che la presenta alla Madre addolorata. (prende e presenta a Maria)
Nicodemo toglierà il chiodo della mano destra, la tua mano inerte penzolerà dalla croce. Che scena, Signore, la morte. Un corpo inerte, le braccia inerti, movimenti che non affrontano più la forza di gravità. È incredibile pensare come solo i vivi stanno in piedi: combattiamo ogni giorno contro la forza più misteriosa di cui siamo fatti: quella che ci attrae verso il basso. Ma da morti, improvvisamente cadiamo, ci afflosciamo, la forza ci abbandona. Così è della tua mano inchiodata: la forza l’ha abbandonata. La forza taumaturgica, la forza risanatrice, la forza dirompente della tua santa mano non c’è più. Dio è improvvisamente debole ora. Se la mano è l’organo del “fare”, ora dobbiamo dire che Dio in te non può più fare nulla. La forza di Dio è stata trapassata da un chiodo.
Nicodemo togli il chiodo dalla mano destra e mostralo a tutti noi.
(Batte con il martello e toglie il chiodo e lo mostra)
Nicodemo consegna il chiodo al giudeo perché lo deponga ai piedi di Maria nostra Madre Santa. (La Maddalena porta il chiodo ai piedi di Maria)

Ora anche l’altra mano viene schiodata e ricomposta. Noi usiamo congiungere le mani dei nostri cari defunti e intrecciarle con la corona del rosario, con un fiore, in un gesto estremo di preghiera. Le componiamodiciamo.
Ed ecco, anche con te facciamo lo stesso, schiodiamo le tue sante mani, le tue mani venerabili che hanno fatto passare il pane e il calice ai discepoli, che hanno offerto il perdono, che hanno risanato.
Tutto ci suona sinistro oggi, sinistro come un presagio. Quelle mani torneranno a benedire? Torneranno a guarire, a salvare, a offrire? O resteranno ormai immobili per sempre?
Noi sappiamo come va a finire la storia, certo... in conclusione ci sembra una favola a lieto fine. Ma avere il coraggio di stare su quelle mani, avere il coraggio di stare davanti a Dio crocifisso. Avere il coraggio di stare nell’inazione, nell’incapacità di agire. Fermarsi un momento per cercare in quelle mani trafitte il senso del nostro agire e il senso della nostra impossibilità a farlo. Spesso vorremmo fare di più, diciamo. Ma il confronto è sempre molto ristretto: ci confrontiamo con uno standard religioso che è tutto nella nostra testa. Tu ci salvi nel momento della tua massima debolezza, tu ci guarisci quando le tue mani non possono più guarire. Lo capiamo questo? E soprattutto, accettiamo di dire e di credere, con San Paolo che il Signore dice anche a noi: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.


Giuseppe d’Arimatea togli il chiodo dalla mano sinistra e mostralo a questo popolo. (Batte il martello e mostra il chiodo)
Giuseppe consegna il chiodo al discepolo che lo passa alla Maddalena, perché lo deponga ai piedi della Santa Madre Addolorata. (Porta il chiodo)
Aveva ragione Maria di Betania, profumandoti i piedi con trecento libbre di nardo prezioso e asciugandoli con i suoi capelli: sapeva misteriosamente che dopo le sarebbe stato impedito, e ha voluto anticipare la tua sepoltura. Ora quei piedi sono sporchi, hanno camminato sulla via del Calvario, sono incrostati di sangue rappreso, sono forati. Il gesto dello schiavo che tu hai fatto ai tuoi discepoli, non hai voluto che loro lo facessero a te: degli uomini che rischiano di pensare che leccare i piedi al potente sia un modo per ottenere il potere a loro volta. Hai voluto che te lo facesse una donna, quel gesto, con tutta l’ambiguità che uomini dall’occhio malato ci hanno visto, che te lo facesse una donna, per scialacquare amore, non per dimostrare sottomissione.
Stasera noi ti ringraziamo per tutte le persone, donne e uomini, che rifiutano i segni del potere e offrono il dono di un amore senza misura.
E ti chiediamo di aiutarci a essere così, discepoli tuoi che ci chiedi ancora una volta non di lavarti i piedi, ma di lavarceli noi, gli uni gli altri. E ci dici che questo è il vero modo di schiodarti dalla croce: schiodando i piedi degli altri, lavando i piedi degli altri, servendoli fino alla fine, con scialacquio di forze e di beni, con scialacquio di amore.

E ora Nicodemo togli il chiodo che ha trapassato i piedi di Gesù e mostralo al popolo. (Batte sul chiodo, lo toglie e lo mostra)
Ed ecco il corpo del reato! In ogni crimine che si rispetti c’è sempre un corpo del reato. Qual è stato il tuo crimine? Per cosa sei stato condannato? Perché – dicevano – ti sei fatto Dio, hai detto di essere Dio. Ed ecco allora quel corpo, ecce homo, ecco l’uomo, ogni uomo, nel quale si riverbera una scintilla di Dio. Fatti a tua immagine!
La prova del tuo reato, per il quale sei stato condannato, sei tu stesso. L’evidenza del tuo amore è qui davanti a noi, è il tuo corpo.
Perché tu non hai fatto qualcosa, ma piuttosto sei stato qualcuno: questo era insopportabile per loro, e talvolta anche per noi, che scambiamo il mezzo con il fine, il fare con l’essere. È insopportabile che tu non ci doni cose, ma ci offri te stesso. La natura di Dio è quella di uscire continuamente da sé stesso, come se non gli bastasse il suo amore che pure basta a sé stesso, se non può parteciparlo alle sue creature deboli e fragili.
Noi vogliamo te, vogliamo seguire te, non vogliamo qualcosa, non vogliamo dei doni, non vogliamo dei miracoli. O forse sì, vogliamo anche questi. E tu aiutaci allora, Signore, aiutaci a fare quel piccolo passo che supera la cornice dei doni e delle cose, per vedere il datore di questi doni. Aiutaci a fare sempre quel movimento del cuore che sa riconoscere dietro ogni dono, quello che tu sei per noi.
Mistero grande della fede!

Discepoli del Signore calate ora dalla croce il corpo privo di vita di Gesù e mostratelo all’assemblea. (calano il corpo)

ANIMA CHRISTI, SANTIFICA ME
CORPUS CHRISTI, SALVA ME.
SANGUIS CHRISTI, INEBRIA ME
AQUA LATERIS CHRISTI, LAVA ME.


Passio Christi, conforta me.
O bone Iesu, exaudi me.
Intra vulnera tua absconde me.RIT.

Ne permittas a te me separari.
Ab hoste maligno defende me.
In hora mortis meæ voca me.RIT.

Et iube me venire ad te,
ut cum sanctis tuis laudem te
per infinita sæcula sæculorum. Amen

Ed ecco ancora una volta svelato a noi corporalmente che per entrare nel Regno bisogna diventare bambini. Vieni messo sul lettino, come un tempo fosti adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce che già prefiguravano le bende del sudario di morte. Ora, nuovamente, sono altri che ti adagiano, è tua madre che compone un attittidu,come allora ti cantava la ninna nanna. E chi meglio di una donna, può conoscere il dolore del parto e il dolore della morte? E chi meglio di lei può cantare con tenera pietà la grandezza enorme del male, e la segreta speranza che non tutto è stato vano, che la tua morte vera attende una parola risolutrice dal Padre, che non vuole la morte del giusto, che non ha voluto neanche la tua morte, ma ha voluto che si trovasse qualcuno fedele sino alla fine, qualcuno amante sino alla fine, qualcuno che potesse mostrare a ogni uomo e a ogni donna, come si è figli amati, come si ama davvero fino alla fine.
Vieni, dolorosa,
Mater Dolorosa delle angosce dei timidi,

Turris Eburnea delle tristezze dei disprezzati,
fresca mano sulla fronte febbricitante degli umili,
sapore d’acqua di fonte sulle labbra riarse degli stanchi. (Pessoa)
Ricevi ora anche tu i segni della passione, quelli che già hanno trafitto il tuo cuore di Madre.
Ricevi il tuo stesso Figlio amato.

Contemplalo, perché certo tu più di tutti conosci il suo patimento. E tu più di tutti hai speranza anche per noi, crocifissi nel peccato, per noi violenti, per noi calunniatori, omicidi del nostro fratello. Tu più di tutti hai speranza per noi, o Madre di speranza.
Sei disteso su un letto di morte. Ma noi attendiamo; nel pianto, certo. Ma noi attendiamo che ancora il Padre compia la sua volontà.
(Gesù viene portato nel lettino, pronto per la processione)

(Scena della Maddalena e Giovanni)

giovedì 18 aprile 2019

Omelia per il Giovedì Santo - Coena Domini e Lavanda dei piedi

Due segni ci vengono mostrati in questa sera. Due segni semplici che noi conosciamo benissimo, perché appartengono ai nostri rituali quotidiani, a quella che potremmo chiamare la nostra liturgia domestica: mangiare e lavarsi. E proprio perché sono due azioni che appartengono alla vita comune di ogni persona, in qualsiasi parte del mondo abiti, ogni ricerca umana di una strada che porta a Dio ne ha fatto dei riti religiosi. In un modo o nell’altro, le religioni sparse nel mondo hanno un riferimento ai pasti sacri, o quantomeno regolano il modo di mangiare, di macellare la carne, di cucinare certi cibi e altri no, e alle abluzioni, alle purificazioni rituali.
Allora potremmo dire che Gesù in fondo non ha fatto nulla di nuovo, ha dato una cosa in più, ha creato una religione in più...
Beh, non è proprio così.
I pasti rituali infatti, ottenuti attraverso sacrifici di animali, o offerta di primizie, di frutti della terra, hanno lo scopo di nutrire Dio, di placare la sua ira verso gli uomini, di offrirgli qualcosa attraverso la quale Lui sia contento di noi.
Così anche i lavaggi, le abluzioni sacre, dicono il desiderio di autopurificarsi per essere degni di avvicinarsi a Dio.
Ma nulla di tutto questo stasera.
Nulla di tutto questo nell’eucaristia, e nulla di tutto questo nella lavanda dei piedi che tra poco faremo per ripetere il gesto di Gesù.
Attraverso questi gesti infatti, Gesù non ha voluto darci qualcosa che servisse a tenere buono Dio, a evitare i mali che incombono inevitabilmente sulla nostra vita. Non ha voluto purificarci per essere degni di accedere a Dio.
In questi gesti noi vediamo ciò che Dio ha fatto e continua a fare per noi: vediamo che è lui a offrirsi all’umanità in cibo, è lui a offrirsi all’umanità come servo, a stare in mezzo a noi non come colui che comanda e che vuole essere ubbidito, ma come colui che serve, che vuole darci la gioia vera. Una gioia che passa dall’amore, non dall’esecuzione di compiti, o dal rispetto esteriore di regole.
La stessa gioia che passa in una famiglia quando si condivide il pranzo della festa, la stessa gioia del bambino rilassato e beato nelle braccia della mamma che gli ha appena fatto il bagnetto o dell’anziano che ormai impossibilitato a lavarsi da solo viene accudito, lavato, profumato, impomatato e fatto bello.
Sì, noi stasera dobbiamo essere ben coscienti di questo: non siamo noi che facciamo qualcosa per Dio, ma è lui a fare qualcosa per noi.
Fateci caso: nella lavanda dei piedi non ci si lava i piedi da soli, ma è Gesù a lavarli ai discepoli. I bambini molto piccoli hanno bisogno di qualcuno che li lavi, o i vecchi non autosufficienti. Noi sappiamo lavarci da soli. Ma ai tempi di Gesù anche i ricchi si facevano lavare i piedi dagli schiavi.
Dunque Gesù si consegna agli uomini come pane e come servo, che sono due cose veramente scandalose, e che ancora oggi noi, dopo duemila anni di cristianesimo, stentiamo a comprendere. Non si consegna a noi come Superiore, come uno che vuole essere osannato, glorificato, servito, ma come colui che vuole essere mangiato, come colui che vuole che impariamo a servirci gli uni gli altri.
E ce lo insegna attraverso dei gesti che sono così comuni e così frequenti nella nostra vita, che rischiamo proprio di non capirli, perché nutrirci – e cioè vivere – e curare l’altro, cioè curare che l’altro stia bene, che l’altro sia felice e sereno, essere responsabili di qualcuno, dovrebbero essere in fondo lo scopo della nostra vita.
È come se dicesse: guardate che l’eucaristia è questa: che Dio ti vuole felice, e che per questa tua felicità ha rinunciato a tutto, ha rinunciato alla sua gloria, ha rinunciato al piedistallo, ha rinunciato al potere, si è abbassato.
E ogni volta che noi compiamo questi gesti nella nostra vita, nella nostra quotidianità, nella nostra esistenza più feriale, stiamo facendo passare l’eucaristia celebrata nella vita vissuta. Ecco perché dobbiamo attingere continuamente al mistero dell’eucaristia, ecco perché dobbiamo nutrircene, dobbiamo partecipare, dobbiamo rinunciare a cose apparentemente urgenti per cercare l’essenziale. 
Perché noi non sappiamo vivere, guastiamo continuamente i rapporti, siamo pieni di doppi fini, a volte persino inconsciamente, oppure di scrupoli, di ambiguità, di sotterfugi.
Chi ci libera e ci consegna a noi stessi e consegna a noi stessi l’autentico modo di amare? Solo l’eucaristia.
E vedete: a tutta questa ricchezza noi frapponiamo continuamente ostacoli. E magari diciamo: ma la comunità è composta di tizio, caio e sempronio, che non mi piacciono, che sono così e così, che fanno questo e quest’altro. E forse diciamo anche: ma quel prete è così e così, non mi piace.
Certo, c’è tanto di vero. Eppure se Gesù avesse voluto una comunità perfetta, credete che avrebbe lavato i piedi a Pietro? O a Giuda? Ma credete veramente che fosse uno sprovveduto?
Gesù non ha scelto persone perfette, ha scelto persone complesse, complicate, con mille sfaccettature, come noi, piene di luci e di ombre. Non ha scelto santi. Li ha scelti perché sapeva che nessuno è mai all’altezza del vangelo, e tuttavia ha scelto i suoi, cioè noi, per dirci che l’amore vero mette in conto la pochezza, il tradimento, la dabbenaggine, il rinnegamento. L’amore di Dio è davvero senza doppi fini, senza tornaconto. In un mondo dove ognuno pensa al proprio orticello, l’amore di Dio viene a dirci ancora una volta, stasera, e in ogni eucaristia che celebriamo, che o ami così, o non è amore.
E che non è un problema che tu non ne sia all’altezza. È importante soltanto che lo riconosci e che continui ad attingere da questa fonte, e continui a percorrere le orme di Cristo, e continui a guardare al suo esempio. Perché soltanto così sarai davvero in conversione continua. Soltanto così il tuo essere cristiano smetterà di essere la tessera di un club e diventerà vita vissuta. Se noi, fratelli e sorelle, stasera torniamo a casa con la convinzione, con la decisione, con la determinazione di voler imparare ad amare così, state tranquilli che il mondo sarà cambiato, che le nostre relazioni saranno relazioni di servizio, che il nostro guardarci in faccia sarà più mite, perché bagnato dal sangue di un amore che non ha esitato a consegnare tutto quanto, e a non volere in cambio nulla.
Perché così ama Dio, e quando noi entriamo in questo amore, la nostra gioia è piena, e nulla ci manca, e nulla abbiamo da recriminare, ma solo da ringraziare, da lodare, da servire.
E questa è la vita eterna: la vita eterna comincia qui, ogni volta che poniamo un gesto di amore. 
Il Signore ci insegni ad amare così.