lunedì 30 luglio 2018

Preti tra passato e presente/2


Gli scandali che coinvolgono i preti, i vescovi e i cardinali non hanno mai fine, soprattutto d’estate.
È bene che emergano comportamenti sbagliati e comportamenti criminali (che comunque non sono la stessa cosa), ed è bene che chi compie dei reati subisca regolari processi penali e canonici.

Quasi sempre tali scandali attengono a questioni affettive-sessuali, certamente perché la sessualità ha in sé una forza che pervade la persona umana in tutti i suoi aspetti, e che richiede equilibrio per essere condotta nell’alveo dell’affettività, e per non travalicare in comportamenti lesivi della dignità altrui (oltre che della propria).
La sessualità staccata dall’affettività diventa molto problematica, tanto più in una vita celibataria, dove si pensa, e spesso si vive, come se l’affettività non debba essere esercitata in nome di una presunta consacrazione a Dio.

Spesso i seminari sono accusati di sfornare preti problematici, che una volta diventati tali fanno cose che non devono fare: emergono comportamenti non consoni alla vita del prete, talvolta sfociano in veri e propri comportamenti sviati. E questo vale sia per gli eterosessuali che per gli omosessuali, anche se in questi ultimi decenni certamente gli scandali maggiori si sono avuti in ambito omosessuale.
A me pare che uno dei grossi limiti della formazione al sacerdozio oggi sia rappresentato ancora dalla demonizzazione dell’omosessualità.
Dunque chi è “furbo” la nasconderà per non essere cacciato e diventerà prete, e farà casini; chi è “sano” la nasconderà comunque per non essere cacciato e diventerà prete, ma sempre con qualcosa di non risolto. Mi pare ovvio che se anche uno volesse esplicitare questa sua realtà ai formatori, si bloccherà per paura di essere cacciato e di interrompere così il suo percorso seminaristico.

Inoltre mi pare non funzioni molto bene l’immissione nel presbiterio: un tempo un prete novello andava a vivere in canonica con il parroco, o prendeva una stanza a pigione in una famiglia, oppure aveva una sorella nubile (“zitella”), o la madre, o una zia, con le quali condivideva la vita quotidiana, e quello che poteva sembrare un limite (e talvolta lo era), era comunque un segno di “normalità” di relazioni: almeno c’era qualcuno che ogni tanto ti mandava a quel paese!
Oggi, con la diminuzione del clero, e con la disponibilità di canoniche rinnovate e confortevoli, usciti dal seminario, da una comunità di dieci, trenta, cinquanta o duecento seminaristi, si diventa immediatamente single.
Cosa volete che faccia un ragazzo di 25 anni (ma anche un uomo di 40) quando chiude la porta della chiesa di Rocca Fiorita con le sue 418 anime?
A meno che non si tratti del Santo Curato d’Ars, avrà molto tempo a disposizione in una società dove basta una chat per allontanarsi.

Io vedrei bene dunque che si riformulasse soprattutto l’immissione nel presbiterio: piccole comunità di tre-quattro preti, un giovane, un mediano e uno o due anziani. I pasti in comune, un momento di condivisione di preghiera nella giornata, e poi certamente ognuno ai propri posti di combattimento, con la gestione di un gruppo di parrocchie, un piccolo territorio o chessò io.
Utopia? Forse sì.
Ma chi sa proporre ricette che funzionano?
Il problema è che spessissimo i preti novelli non vogliono sentire parlare di vita comunitaria perché hanno stufato il seminario. I preti che hanno già una certa età non hanno voglia di mettersi in casa altri che turbino la loro autonomia, e i preti anziani spesso si lamentano di non essere coinvolti nella vita pastorale, ma sono comunque impostati nel senso di una vita totalmente solitaria.
Voi direte: ma con tutti i problemi di chi si sposa, di chi non trova lavoro, la Chiesa deve pensare ai preti novelli? Sì, ci deve pensare, e anche seriamente.


Propongo queste letture:
Fr. MichaelDavide, Preti senza battesimo? Una provocazione, non un giudizio, San Paolo 2018;
J. Mercier, Il Signor Parroco ha dato di matto, San Paolo 2017.

venerdì 27 luglio 2018

Dichiara pace

Una bellissima e intensissima poesia di Mary Oliver. Da declamare e respirare!

Dichiara pace con il tuo respiro.
Inspira uomini d’arme e d’attrito, espira edifici interi e stormi di merli dalle ali rosse.
Inspira terroristi ed espira bambini che dormono e campi appena falciati.
Inspira confusione ed espira alberi di acero.
Inspira quanto è caduto ed espira amicizie di tutta una vita ancora intatte.
Dichiara pace con il tuo ascolto: quando senti sirene, prega ad alta voce.
Ricorda quali sono i tuoi strumenti: semi di fiori, spilli da vestiti, fiumi puliti.
Prepara una minestra.
Fai musica, impara come si dice grazie in tre lingue diverse.
Impara a fare la maglia, e fai un cappello.
Pensa al caos come mirtilli che danzano,
immagina il dolore come l’espirazione della bellezza o il gesto del pesce.
Nuota per andare dall’altra parte.
Dichiara pace.
Il mondo non è mai apparso così nuovo e prezioso.
Bevi una tazza di tè e rallegrati.
Agisci come se l’armistizio fosse già arrivato.
Non aspettare un altro minuto.


Jean Antoine Theodore de Gudin, Il sacrificio del capitano Desse

Preti tra passato e presente


Nel suo splendido Diario di un parroco di campagna, Bernanos fa dire all’anziano Curato di Torcy: «Adesso i seminari ci mandano dei chierichetti, dei piccoli vagabondi che si immaginano di lavorare più di tutti perché non vengono a capo di nulla. Invece di comandare, piagnucolano»: le lamentele dei preti più anziani nei confronti dei giovani son sempre esistite e lasciano il tempo che trovano.
Non si tratta neppure di contrapporre lefebvriani a progressisti (conosco ottimi preti che indossano sempre la veste, e pessimi in jeans e maglietta, e viceversa).
Si tratta di provare a capire che viviamo in un altro mondo, mentre continuiamo a perpetuare stili che non funzionano, non volendo accettare che la forma dell’essere presbitero e del presbiterato è cambiata in questi duemila anni.


Per esempio: cosa aggiunge alla fede oggi una processione fatta in mezzo alle campagne portando il simulacro di un santo da una chiesa a un’altra?
Un tempo, quando la gente custodiva e alimentava ancora una visione sacra della vita e del corso delle stagioni, ciò era comprensibile: non erano più ignoranti di noi, tutt’altro! Ma semplicemente vivevano più vicini a nostra sorella natura. Oggi che abbiamo quasi del tutto abolito una visione sacra del ciclo naturale della vita (umana in primis, ma anche animale e vegetale) queste “manifestazioni” attirano al massimo l’obiettivo di turisti giapponesi: lunghe sfilate di belle ragazze in costume sardo, coperte dalla testa alle caviglie, e di uomini che le accompagnano indossando abiti da pastori e contadini di un tempo, quando oggi la moda impone piuttosto che la donna si scopra, mentre pochissimi giovani ormai in Sardegna lavorano le campagne.
Cosa ci dice questo?
Che noi promuoviamo manifestazioni folkloristiche (il che va bene: l’importante è esserne consapevoli!), illudendoci che si possano evangelizzare. Scambiamo la cultura per il cristianesimo e pensiamo di fare un’esperienza di fede evangelica e cristiana.
Se non comprendiamo che il prete viene fuori da e si inserisce in questo contesto, in questo mondo, in questo popolo, se perdiamo di vista cioè l’incarnazione, stiamo diventando marziani.
È necessario puntare maggiormente sulla Parola di Dio: c’è ancora troppa ignoranza nel nostro popolo e anche nei nostri presbitèri.
Ovviamente non bisogna temere di restare in pochi: non per diventare un’élite radical chic, ma per tornare a essere significativi, a suscitare nella gente interrogativi sul senso della vita, che possano aprire la strada all’evangelo e dunque a Gesù Cristo e alla Chiesa.
Le folle, lo sappiamo, non sono un grande esempio nei vangeli.
Consiglio alcune letture che potrebbero far bene:
T. CITRINI, Presbiteri e presbiterio, Ancora Editrice (finora sono usciti quattro volumi fino all’XI secolo)
T. FRINGS, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Ancora, Milano 2018;

E, solo per stomaci forti, la visione della serie TV (anche in DVD) di Paolo Sorrentino, The Young Pope.


domenica 22 luglio 2018

Pensieri sul Vangelo della XVI domenica per annum


Mi colpisce sempre l’atteggiamento di Gesù nei confronti della folla che lo segue: ne ha compassione perché sono come pecore senza pastore. Le pecore, lasciate a se stesse, si disorientano, difficilmente riescono a tornare da sole all’ovile, sono facili a smarrirsi e diventano preda dei lupi.
Dunque non hanno bisogno soltanto di pascoli ubertosi e acque tranquille, ma anche di qualcuno che ce le porti, che mostri la via. Hanno bisogno di trovare il senso al loro vagare.
Anche noi siamo così: banalmente si pensa che l’uomo abbia bisogno soltanto del cibo, della salute, del lavoro, della sicurezza. Ma se non conosco il senso, la direzione, il destino della mia vita, che me ne faccio di tutto questo? Ecco perché, commuovendosi per la folla, Gesù non compie miracoli, non fa guarigioni, non libera dai demoni, ma insegna loro molte cose.
Il vangelo non ci trasmette il contenuto di questo insegnamento, ma non è fondamentale. Conta rilevare ciò che egli fa: parla loro, cioè li umanizza, egli che è il Logos crea legami parlando (logos), perché essi si innalzino dalla sfera puramente animale che tutti ci accomuna, quella dei bisogni primari. Solo allora soddisferà anche la fame della loro pancia.
Questa è la pedagogia di Gesù: offrire un senso, una direzione alla vita. Ed egli lo fa rendendosi conto di chi ha davanti: prima i discepoli, affaticati per la missione, che non hanno neppure il tempo di mangiare, e che invita a riposarsi lontano dalla folla (ci sarebbe molto da dire sulle pretese della folla e sul desiderio di immolazione dei preti...). Poi la folla, che egli vede, e della quale scorge il bisogno profondo e non soltanto l’ansia superficiale.
Allenarsi ad avere lo sguardo di Gesù sulle persone, per offrire in lui senso alla vita.

domenica 1 luglio 2018

Erano lacrime mie sul Corriere della sera

Oggi su La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, Franco Manzoni scrive su Erano lacrime mie