venerdì 31 marzo 2017

DIO AMA NASCONDENDOSI - Quarantore a Collinas

Dal Vangelo secondo Giovanni
1Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo.
2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. 3I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. 4Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». 5Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. 6Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. 7Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. 8Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». 9Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea.
10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. 11I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: «Dov’è quel tale?». 12E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: «È buono!». Altri invece dicevano: «No, inganna la gente!». 13Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei.
14Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare. 15I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?». 16Gesù rispose loro: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. 19Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?». 20Rispose la folla: «Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?». 21Disse loro Gesù: «Un’opera sola ho compiuto, e tutti ne siete meravigliati. 22Per questo Mosè vi ha dato la circoncisione – non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi – e voi circoncidete un uomo anche di sabato. 23Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? 24Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!».
25Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? 26Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». 28Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato».
30Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. 31Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: «Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?».



DIO AMA NASCONDENDOSI

Il brano del vangelo che leggiamo oggi segue immediatamente la moltiplicazione dei pani e le affermazioni di Gesù sul mangiare la sua carne che scatenano un fuggi fuggi generale: molti suoi discepoli si allontanano, e Gesù fa una domanda forse sconsolata ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» e sente la risposta che echeggia ancora in ogni nostra eucaristia: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e abbiamo riconosciuto che tu sei il santo di Dio».
E si dice nel brano che ascoltiamo oggi che neppure i suoi fratelli credevano in lui! (v. 5).
Particolare di un'opera del Centro Aletti
Che mistero di assoluta insignificanza per Gesù fare dei segni che non vengono capiti non solo dagli estranei, ma neppure dai suoi discepoli, neppure dai suoi fratelli.
Che mistero di piccolezza e di abbassamento l'incarnazione del Figlio di Dio, la sua passione, morte e risurrezione: scambiato per un malfattore.
Quale mistero quello di un Dio sulla bocca di tutti: alcuni dicevano “è buono”, altri “è un imbroglione”. Di un Dio di cui tutti hanno qualcosa da giudicare: ha guarito un uomo di sabato, quindi non rispetta la Legge. Un Messia di cui tutti «Sanno di dov'è» (v. 27)... è troppo ordinario per essere vero.
Un Dio fraintendibile e frainteso. Niente di chiaro e distinto.
Talvolta noi pensiamo così la fede, i sacramenti, la morale: tutto deve tornare, ogni cosa a suo posto. E anche Dio sarebbe intrappolato in questi nostri schemi.
Gesù rompe gli schemi non per il gusto di romperli, non è un anarchico né un rivoluzionario.
Gesù rompe gli schemi perchè con lui irrompe la bontà di Dio nel mondo, egli non porta una sua dottrina speciale, diversa, ma sente di essere mandato dal Padre a donare la vita in pienezza, vuole dare sé stesso, vuole dare guarigione. E tutto questo in un modo così ordinario, che i suoi avversari si spaventano e i suoi amici e fratelli non capiscono! I suoi avversari vogliono soltanto mantenere le cose come stanno, avere sicurezze, esercitare un potere. Si informano su cosa dice la gente, sentono voci, vogliono farlo fuori.
Certe volte penso: ma se in questi momenti Gesù avesse dato una prova eccezionale del suo essere Figlio di Dio, non gli avrebbero creduto tutti senza esitazioni?
Poi ascolto il vangelo, specialmente il vangelo di Giovanni, e mi rendo conto che questa carica di mistero, Gesù l'ha accentuata: vado alla festa? Non vado? Vado di nascosto, poi mi faccio vedere...
Perchè questo è lo stile di Dio: un Dio che si nasconde.
"Pius pellicanus" Particolare di un'opera del Centro Aletti
Un antico inno eucaristico composto da San Tommaso d'Aquino canta così: «In cruce latebat sola deitas, at hic latet simul et humanitas». In croce era velata la tua divinità, ma qui, nell'eucaristia, è velata anche l'umanità.


Noi crediamo alla sua presenza in mezzo a noi attraverso un pezzo di pane e un po' di vino. Dio ama nascondersi, velarsi, rivelarsi.
Non vi sembrino giochi di parole. Il libro della Sapienza che abbiamo letto dice «Non conoscono i misteriosi segreti di Dio». Se noi fossimo stati al loro posto avremmo le stesse idee confuse, se noi fossimo stati suoi discepoli o fratelli saremmo stati increduli, lo avremmo abbandonato. Se fossimo stati giudei o farisei avremmo cercato il modo di ucciderlo.
Che Dio ci salvi dalla presunzione di essere migliori dei nostri padri, migliori degli abitanti di Gerusalemme che non hanno creduto in Gesù, nei segni da lui compiuti!
Perchè poi noi crediamo nel segno dell'eucaristia?
Ma cosa significa credere all'Eucaristia?
Basta affermare quello che ci hanno insegnato al catechismo, che nell'eucaristia il Figlio di Dio è presente in corpo, sangue, anima e divinità?
È una questione di formule? Se così fosse ricadremmo nell'errore dei farisei e rischieremmo di adorare un feticcio.
È vero che ci vogliono le idee chiare sull'eucaristia, ma prima di tutto occorre che l'eucaristia ci colpisca davvero con la sua carica di mistero, col suo essere qualcosa che non possiamo spiegare, capire, comprendere, afferrare...
Tutte le volte che noi proviamo a voler semplificare l'eucaristia, renderla digeribile, renderla comprensibile, accessibile, corriamo il rischio di un grande fraintendimento: di trattarla come le tante cose a cui siamo abituati, un'equazione da semplificare, da scomporre.
Invece l'unico atteggiamento giusto e vero davanti all'eucaristia è l'adorazione, il metterci in ginocchio.
Solo in ginocchio davanti a Lui possiamo accogliere il mistero di un amore che si dona a noi da mangiare, come nutrimento. Amore vero, come ogni amore che è decentrato da sé.
Perchè amare Dio cosa significa se non riconoscere e accogliere un Dio amante? Un Dio che mi nutre, che mi dà vita?
Un Dio che mi vuole soprattutto libero di accoglierlo, non schiavo.
Un Dio che mi aspetta, aspetta i miei tempi, vede le mie cadute e non si spazientisce.
Allora mi rendo conto che non si tratta di avere segni eclatanti e appariscenti, perchè anche se ci fossero probabilmente il mio cuore indurito troverebbe mille scuse.
Si tratta di essere vulnerabili, di non metterci corazze davanti a Lui.
Di lasciarci semplicemente amare... di credere all'amore.
Questa è eucaristia.
Impariamo le formule, conosciamo la dottrina, ma poi accogliamo Lui che si offre a noi.
«Questo linguaggio è duro», l'avevano già avvertito i suoi discepoli...
«Volete andarvene anche voi?», chiede oggi a noi. Ma dove andiamo? Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita vera, di vita che riempie i nostri pozzi vuoti, i nostri cuori stanchi.
Tu solo sazi senza mai stufare, perchè non sei come i parlatori, gli urlatori, i fustigatori, i moralisti.

Tu sei un Dio che ama donarsi, e noi facciamo fatica a comprenderlo, perdona la nostra incredulità, e continua a offrirti a noi. Arriverà anche per noi il giorno in cui ci arrenderemo al tuo amore.

martedì 28 marzo 2017

L'eucaristia guarisce dalla paralisi e rimette in cammino - Quarantore a Sardara

Ez 47,1-9.12
Gv 5,1-16
L'eucaristia guarisce dalla paralisi e rimette in cammino

Trentotto anni non sono uno scherzo. Chissà a che età si sarà ammalato quest'uomo, ma trentotto anni sono una vita. Una vita paralizzato.
Una vita solo. Pensate la tragedia di quest'uomo. Ci è più che lecito pensare che Gesù adolescente, quando discusse coi dottori del tempio, dovette incontrarlo alla Porta delle Pecore, che era la Porta di fronte alla quale si trovava la piscina nella quale venivano lavati gli agnelli per il sacrificio (detta appunto piscina probatica, in ebraico Betzatà= casa della misericordia).
Questa piscina, forse per l'uso sacrale che se ne faceva, aveva fama di portare la guarigione a chiunque vi si immergesse per primo quando l'acqua si agitava.
Capite la frustrazione di quest'uomo paralizzato, che davanti alla domanda di Gesù: «Vuoi diventare sano?», risponde sconsolato: «Hominem non habeo», non ho nessuno che mi immerga.
Quest'uomo, oltre che paralitico è solo. Folle di persone sono passate davanti a lui, ma nessuno si è fermato con lui. Trentotto anni così.

Ora qui noi saremmo tentati di vedere nel gesto di Gesù un gesto di misericordia e di attenzione al prossimo, e certamente c'è anche questo.
Ma Gesù qui fa un gesto che lo pone in contrasto con i capi del popolo: compie questa guarigione in giorno di sabato e comanda all'ex paralitico, che neppure lo conosce, di prendere la sua barella e camminare, cioè di compiere un lavoro in giorno di sabato.
Allora siamo davanti a questo: il problema non è che Gesù guarisce, ma che guarisce in un giorno che è dedicato a Dio, giorno nel quale bisogna astenersi dagli sforzi. Gesù mette in discussione usanze fossilizzate che non sono più capaci di riconoscere l'intento originario di Dio nel comandare il riposo sabbatico. Intento originario che era quello di una vita appagante dell'uomo nel suo rapporto con Dio.
Quest'uomo per trentotto anni ha passato, potremmo dire, un lungo sabato come lo intendevano i giudei: non si è mosso mai a causa della sua infermità.
Ora ci è facile pensare a tutte quelle situazioni di paralisi che ci colpiscono, che colpiscono tante persone che conosciamo, che forse non sono paralisi fisiche, ma morali. Che ci intrappolano nei nostri comportamenti, nei nostri modi di ragionare e di giudicare. Che ci bloccano e non ci consentono di vivere un rapporto appagante con Dio e con i fratelli.
Le cause sono più diverse: peccato, traumi, ignoranza, mancanza di guida. Eppure siamo bloccati.
Gesù passa anche davanti a noi e ci chiede se vogliamo diventare sani. Lo fa spesso sotto mentite spoglie, senza essere immediatamente riconosciuto. Lo fa attraverso la parola di un amico, la lettura di un libro, un film, uno spettacolo naturale.
Chiede al più profondo del nostro cuore: Ma tu vuoi essere sano? Vuoi poterti sbloccare?
E davanti al nostro lamento, che nessuno ci aiuta, lui intima al nostro cuore: Alzati e cammina!
La forza taumaturgica della sua Parola è in grado di risollevarci.
Misteriosamente ma realmente.
In agguato però c'è sempre il peccato, quello da cui Gesù mette in guardia l'ex paralitico: «Non peccare più perchè non ti accada qualcosa di peggio!».
La nostra salute/salvezza, il nostro camminare da cristiani è sempre sottoposto alla tentazione, all'apertura della nostra libertà.
C'è un momento nella vita in cui diciamo: Non ho nessuno che mi salvi, che mi guarisca. Giaccio nella mia paralisi, nella mia chiusura, nella mia tristezza, magari da tanto... ci sono tristezze che ci accompagnano per tutta la vita!
Finché, talvolta in sordina, arriva una parola a risollevarci.
Avremo il coraggio di rialzarci e vincere il giudizio degli altri che ci dicono: Perché ti sei rialzato? In fondo, non potevi aspettare ancora, almeno un giorno?
Penso che talvolta il nostro permanere in certi peccati e in certe paralisi sia dovuto alla nostra paura del giudizio degli altri.
Davanti a questa paralisi l'Eucaristia è il sacramento che ci rimette in cammino, che non ci lascia nella nostra paralisi.
Ma ci crediamo davvero? Anni, decenni di comunioni forse non hanno scalfito neanche un po' certi lati del nostro carattere, certi peccati che facciamo a ripetizione. Perché?
Perché in fondo, diciamolo, ci piace stare su quella barella a chiedere l'elemosina. Troviamo giustificazione anche ai nostri peccati, alle nostre incongruenze, alla nostra pigrizia a volerci alzare.
Perché guarire richiede una responsabilità, richiede di essere interrogati e accusati dai capi di turno: «è sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Guarire, essere salvati, suscita sempre una responsabilità: cioè una chiamata a rispondere, a renderci respons-abili, appunto.


Essere guariti dal peccato ci rende abili a rispondere alla vita col bene piuttosto che col male.
L'eucaristia allora deve diventare responsabilizzante per noi: abbiamo ricevuto la vita di Dio in noi, abbiamo ricevuto il suo perdono. Che ne facciamo?
Accettiamo che il mondo ci dica: non è bene che tu perdoni, non è bene che tu cerchi vie di pace, non è bene che tu ami, che tu faccia il bene, invece fatti scaltro, frega, offendi, non perdonare, non farti mangiare la pastasciutta in testa... Sii uno che si fa valere, che dice sempre l'ultima parola...
Avremo il coraggio, uscendo da questa eucaristia e da ogni eucaristia, di essere responsabili del dono ricevuto? A comprendere, che quando Gesù ci dice: «Alzati, prendi la tua barella e cammina» ci sta dicendo: Guarda che sei guarito, ora non è più la tua barella, il segno della tua infermità, a portare te, ma tu puoi portare lei come un segno di salvezza. Ci sta dicendo, se lo vogliamo accogliere: Non è più il tuo peccato a portare te, ma tu puoi prenderlo in mano, hai potere su di lui!

Ogni eucaristia è una iniezione di fiducia su di noi, una chiamata alla responsabilità.

Usciamo nuovi, perchè da oggi in poi non ci facciamo più dominare dal peccato, dal male, ma cerchiamo noi di dominarlo. E per fare questo, per chiedere e ottenere sempre questa grazia, ogni domenica ritorniamo alla fonte della salvezza che ci rialza e ci mette in cammino.

lunedì 27 marzo 2017

L'eucaristia guarisce e rafforza la fede - Quarantore a Sardara

Is 65,17-21
Gv 4, 43-54
L'eucaristia guarisce e rafforza la fede

La prima lettura di oggi ci riporta a ciò che dicevamo ieri: Siamo creati per la felicità. Il profeta Isaia descrive i tempi messianici come tempi di nuova creazione dove spariscono il passato fatto di tristezza, le lacrime, le grida di angoscia, la vita breve, e dove c'è spazio solo per una vita pienamente realizzata, di serenità e di abbondanza.
La profezia di Isaia era tesa tuttavia a una gioia modulata sulle nostre gioie terrene, magari soltanto amplificata.
Questa immagine, che pure è reale e profetica, e in quanto tale attende una sua realizzazione, viene compiuta da Gesù attraverso dei segni, i segni della sua presenza e della sua guarigione.
Particolare di un'opera del Centro Aletti
Ieri abbiamo detto che l'eucaristia ci dà uno sguardo nuovo sulla realtà, illumina i nostri occhi perché possiamo scorgere l'azione di Dio.
Il Vangelo di oggi ci mostra Gesù che dopo aver trascorso due giorni presso i samaritani, e dopo che numerosi tra loro gli hanno creduto, prosegue il suo viaggio verso la sua patria, la Galilea, luogo in cui aveva compiuto quel primo grande segno, a Cana, dove aveva cambiato l'acqua in vino.
E qui, entrando a Cana, preceduto dalla sua fama – a Gerusalemme aveva compiuto un altro segno profetico, aveva rovesciato i banchi dei cambiavalute e dei venditori di animali – a Cana un funzionario di Erode gli chiede la salute per il proprio figlioletto moribondo.
È necessario che facciamo un breve passo indietro: Gesù era stato due giorni tra i samaritani, dopo aver parlato con la samaritana al pozzo, e l'evangelista afferma espressamente che a loro è bastata la presenza e la parola di Gesù per credere in lui. Gesù non ha compiuto segni o prodigi tra i samaritani: è stato con loro, ha parlato con loro, ed essi hanno creduto.
Ora invece nella sua patria la gente ha bisogno di segni e prodigi.
In realtà questo dialogo tra Gesù e il funzionario regio è alquanto strano. Gesù muove una sorta di protesta: voi avete bisogno di una fede fatta di segni e prodigi: è un credere alla sua potenza miracolosa, non ancora un credere in lui.
È il grado di fede di tanta gente, forse anche tra noi, e la conseguente delusione quando le nostre preghiere e le nostre aspettative non sono realizzate come le volevamo noi.
Ma questo padre non si fa scoraggiare dal rimprovero di Gesù, anzi, come se non lo avesse sentito, lo prega di scendere a Cafarnao, che è piuttosto lontano da Cana e in basso.
Quanti padri e quante madri abbiamo visto imploranti salute per i propri figli malati, quanta insistenza, quante lacrime, quanta determinazione, quanti voti!
E noi ammiriamo l'audacia di questa richiesta che apre quest'uomo (e tutta la sua famiglia!) alla fede. Perché Gesù non lo accompagna dove vuole lui, non scende a Cafarnao con lui, ma gli dice soltanto «Va', tuo figlio vive» e lo congeda.
È in questo cammino che matura la fede del funzionario, ancor prima che arrivi a destinazione, quando i servi gli vengono incontro a dirgli che il figlio sta bene.
E noi ricordiamo di un altro padre e di un altro figlio minacciato di morte, Abramo e Isacco, e di quel cammino, fatto da Abramo per salire al monte Moria, con l'angoscia per questo figlio. E sul monte finalmente il segno della presenza di Dio: una mano che ferma il coltello e un ariete pronto per il sacrificio.
Quell'uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.
La fede nei miracoli di Gesù si sta trasformando in fede in Lui, nella sua parola.
Questo percorso, questo cammino ci invita a fare l'eucaristia: essa ci rimette in cammino nella nostra fede.
Noi ci interroghiamo: perchè ha guarito lui e non guarisce quella persona per la quale stiamo pregando da tempo? Quel nostro amico, marito, sorella, figlio?
Questo passo che oggi leggiamo è tra quelli più adatti a farci comprendere cos'è la fede, e quindi anche cosa opera in noi.
Particolare di un'opera del Centro Aletti
Che cos'è infatti la fede per questo funzionario? La fede è una realtà, è un verbo al presente: «Tuo figlio vive». Tu sei chiamato a metterti in cammino sulla base di questa coincidenza di orario («riconobbe che proprio in quell'ora Gesù gli aveva detto: “Tuo figlio vive”»). La fede non è prima di tutto un miracolo, un segno, una verità da credere. È una realtà, una presenza reale. In mezzo al nostro tempo, alle nostre vicissitudini, ai nostri dolori, si erge una forza su cui basare la propria debolezza, emerge un'ora che non è solo quella dell'orologio, emerge una strada che è la stessa di prima, e tuttavia la percorriamo in modo diverso... Tutto questo è reale, reale come il marmo di questo altare! Anzi, lo è in forma ancora più profonda.
Mettersi in cammino con questa fede allora, significa per questo padre prendere estremamente sul serio la parola di Gesù che dice Va', tuo figlio vive. Credere per quest'uomo ha significato poggiare tutta la sua speranza di padre che ha un figlio morente sulla parola di Gesù. Si è legato totalmente a questa parola. Ma noi crediamo che sia più reale il marmo, che l'interesse è più reale della gratuità, che il male è più reale del bene...
Quanto ci è difficile assumere questo sguardo quando usciamo di qui, ci mettiamo in cammino appunto, dopo aver ascoltato la parola di Gesù, e viviamo la nostra vita trasformati da questa parola. Come ci viene difficile scorgere la presenza di Dio (che volentieri accordiamo a un po' di pane e un po' di vino!) nei fatti della vita, in quella realtà che spesso ci pesa e ci opprime, e che Isaia sogna rinnovata.
Il Signore dice anche a noi: Va', mettiti in cammino, quello che cerchi di bello, quella felicità che brami e desideri è davanti a te. Non è una vita assicurata, senza patimenti, ma è una vita consapevole della presenza reale di Gesù. Tu non lo sai ancora con gli occhi dell'intelligenza, eppure ti metti in cammino su quella stessa strada che avevi fatto al contrario disperato per la sorte di tuo figlio.
Tenere in poca considerazione ciò che il mondo considera vero e potente, e affidarsi solo alla realtà e all'amore di Gesù Cristo: questo è il cammino che siamo invitati a percorrere uscendo da questa eucaristia
Ed ecco che allora si spiega quella “conversione” del funzionario e della sua famiglia: hanno sperimentato la realtà!

E davanti alla realtà, a una realtà toccata e che mi ha toccato, non ci sono deduzioni, ragionamenti, controprove. Come il cieco di ieri: Io so soltanto che prima non ci vedevo e ora ci vedo! C'è soltanto da chinare il capo e adorare. C'è soltanto da ringraziare per questo nuovo cammino aperto sulla mia strada che ho deciso di fondare sulla fede nella parola di Gesù.

domenica 26 marzo 2017

L'eucaristia dona uno sguardo penetrante - Quarantore a Sardara

1Sam 16,1b.4.6-7.10-13
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41
L'eucaristia dona uno sguardo penetrante


Abbiamo ascoltato il racconto del cieco al quale Gesù ridà la vista al Tempio.
Nel Vangelo di Giovanni il Tempio è il luogo nel quale avvengono la maggior parte delle dispute di Gesù con i capi. Già in precedenza Egli aveva affermato di essere la luce del mondo, e di chi lo avrebbe seguito aveva detto che «non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12).
Sono affermazioni un po' strane, perchè noi partiamo dalla nostra esperienza reale che è quella che vediamo, abbiamo luce, la luce attorno a noi splende.
Cosa vuol dire Gesù?
Lo capiamo subito ascoltando questo brano evangelico così intenso e drammatico, che non racconta un semplice “miracolo”.
«Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita», dice l'evangelista «e i suoi discepoli lo interrogarono «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perchè sia nato cieco?».
Laddove tutti passando vedono un caso di teologia morale, Gesù vede «un uomo» con un problema che lo affligge dalla nascita. Più avanti si dirà che questo cieco era un mendicante... altri vi vedono un mendicante, forse uno di cui aver pietà, a cui dare qualche spicciolo, o spesso un seccatore, come capita a me con i tanti mendicanti che incrociano la mia strada.
Lo sguardo di Gesù! Gesù vede un uomo, non un caso da usare fare domande su Dio o uno scocciatore.
Un uomo!
E non indugia su articolate risposte teologiche che cerchino di far capire il senso del male fisico, le responsabilità morali, il rapporto che intercorre tra un Dio buono e il male nel mondo... a queste domande dà una risposta secca: non si tratta di peccato suo o dei suoi genitori. Quest'uomo Dio lo ha fatto per manifestare la sua gloria in lui. Ogni uomo Dio lo ha fatto per manifestare la sua gloria in lui, anche quello che a nostro avviso è menomato, è diverso, è emarginato a causa di un suo “difetto” vero o presunto.
«Gloria di Dio è l'uomo vivente, e la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio» scriverà qualche secolo dopo Sant'Ireneo (Adv. Haer. 4,20).
Con parole nostre diremmo: Siamo fatti per essere felici, e questa chiamata alla felicità dobbiamo scoprire! Gesù ci sta dicendo qual è la nostra vocazione prima, unica e definitiva: la vita di Dio, la visione di Dio, cioè la vita piena, senza mancanza, senza divisioni, senza limiti.
A questa visione ci prepara e ci introduce in particolare l'Eucaristia, e tutta la nostra vita vissuta nella fede in Gesù Cristo.
In che modo ci prepara e ci introduce?
L'evangelista Giovanni afferma che Gesù fece del fango con la sua saliva, lo spalmò sugli occhi del cieco e lo mandò a lavarsi alla piscina di Siloe.
Tutti ricordiamo che il libro della Genesi ci racconta qualcosa di simile a proposito della creazione dell'uomo: «Una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,6-7).
Gesù ripete su quest'uomo i gesti della creazione dell'uomo per dirci che il primo miracolo è proprio questo: che noi veniamo dalle mani di Dio, non siamo frutto di peccato.
Il peccato è qualcosa di esterno a noi, anche di forte e potente, ma l'uomo vivente è creato a immagine di Dio, è la sua gloria.
Questo è lo sguardo nuovo e la luce nuova, che i farisei e i capi non accolgono. Di Gesù diranno «Quest'uomo non è da Dio» (v. 16), «Questi non sappiamo di dove sia» (v. 29). E di colui che era stato cieco: «Sei nato immerso nei peccati e insegni a noi?» (v. 34). E questa sarà la domanda decisiva di Gesù al cieco guarito: «Credi tu nel Figlio dell'uomo?». Credi tu nell'uomo che io sono? Credi che questo uomo che io sono ti ha dato la luce?
Questa nuova luce sull'umanità, sulla nostra umanità creata e ricreata perchè sia gloria di Dio è lo sguardo nuovo che l'Eucaristia ci offre.
Infatti anche per celebrare l'Eucaristia con fede è necessario uno sguardo nuovo.
Un famoso inno di San Tommaso canta: «visus, tactus, gustus in te fallitur/ Sed auditu solo tuto creditur»: la vista, il tatto, il gusto davanti all'eucaristia si sbagliano, solo la fede che nasce dall'ascolto della sua Parola crede fermamente. Sì quel pane ai nostri poveri sensi resta pane, quel vino resta vino, eppure noi nella fede affermiamo che pane e vino manifestano realmente la presenza di Gesù morto e risorto. È più facile credere che un cieco riabbia la vista o che l'eucaristia sia la presenza reale di Gesù Cristo in mezzo a noi? Che vista ci vuole in noi per credere questo? Che vista è necessaria per conoscere i segni di Dio nella nostra vita?
Noi spesso ci limitiamo alla vista, al tatto, al gusto corporali. Ma parallelamente ad essi esistono dei sensi spirituali, che spesso sono anestetizzati, come bloccati, paralizzati.
E allora ecco perchè la celebrazione ci pone davanti due mense: la mensa della Parola e la mensa dell'Eucaristia. Pare che anticamente si usasse addirittura riporre l'evangeliario dentro il tabernacolo. È curioso che noi invece siamo così distratti davanti alla proclamazione della Parola di Dio e così attenti e composti alla consacrazione: ma queste due parti della Santa Messa sono inscindibili, anzi: senza l'ascolto non possiamo credere che quello è veramente il Suo corpo e il suo sangue.
Allora in questa domenica, in questo primo giorno di meditazione a noi per fede vengono fatti alcuni doni: Gesù apre anche i nostri occhi perchè possiamo riconoscerlo, e perchè seguendolo non inciampiamo.
Apre i nostri occhi perchè possiamo vedere la realtà e guardarla col suo sguardo: egli vede uomini e non «casi umani», vede la gloria di Dio dove altri pensano ci sia il peccato. Quello sguardo che trasmette al cieco è un nuovo sguardo sulla realtà che lo stimola dal di dentro a discutere con i farisei, perchè ha fatto esperienza di un nuovo modo di vedere, che i Giudei non conoscono, perchè loro sono fermi, come fossilizzati in una mentalità che non può cambiare «Noi siamo discepoli di Mosè».
Il loro sguardo sulla realtà, su quella realtà che cava gli occhi a un cieco, non lo vogliono conoscere. Il loro problema è che Gesù ha guarito di sabato, andando contro la Torah. Non ricordano che il sabato è il riposo di Dio dopo aver creato il mondo, quel riposo nel quale vuole far entrare l'uomo, la comunione con Lui. I Giudei sono ciechi perché non vogliono vedere la realtà, non accettano che Dio possa agire in modo diverso da quello che loro hanno in testa. Questa, intendiamoci, è spesso anche la nostra esperienza: non accettare che l'azione di Dio sia diversa da come ci immaginiamo noi che dovrebbe agire.
Allora chiediamo in questa domenica che quel Gesù che noi intravediamo nell'eucaristia, aumenti il nostro desiderio di lui, perchè mostrandoci il suo volto, noi possiamo essere beati, possiamo riconoscere colui attraverso il quale siamo stati fatti, colui che ha dato la sua vita per noi. Questo è il cammino dell'uomo dalla terra al Cielo. L'eucaristia ce ne dà in qualche modo un anticipo, che si compirà definitivamente soltanto quando lo incontreremo faccia a faccia.

Canta san Tommaso concludendo quell'inno: «Iesu quem velatum nunc aspicio/ Oro fiat illud quod tam sitio/ Ut te revelata cernens facie/ Visu sim beatus tuae gloriae», «O Gesù, che ora vedo velato, ti prego che si compia ciò di cui sono tanto assetato: che riconoscendoti finalmente rivelato nel tuo volto, al vederti io sia beato della tua gloria»

sabato 25 marzo 2017

Commento al Vangelo della quarta Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Giovanni

Gv 9,1-41


In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: Va' a Sìloe e làvati!. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov'è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c'era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l'età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l'età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da' gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l'ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell'uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell'uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».
Roma - Santa Maria al Pantheon


In questa intricata storia di vedenti che non vedono e di ciechi che vedono, si pone il dilemma di ogni ricerca di fede: in ballo c'è più che l'orgoglio ferito dei capi o il riconoscimento di un miracolo.
Si tratta di riconoscere colui attraverso il quale si può conoscere il volto autentico del Padre. Nel momento dell'addio, Filippo chiederà: «Signore, mostraci il Padre e ci basta», e Gesù a lui «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi ha conosciuto?». Segno che visione e cecità convivono anche nei discepoli più intimi, in quelli ai quali il Maestro ha lavato i piedi.
La pretesa di Gesù è inaccettabile per i giudei, perchè egli è un uomo.
Noi però, anestetizzati da due millenni di predicazione che afferma che Gesù è Dio (e lo dice con sacrosanta ragione), non ci scandalizziamo più per il fatto ch'egli sia Dio in quanto è uomo. E mai smetteremo di chiedere vista buona per entrare in questo mistero, e mai potremo dire: «Io non sono come i farisei», perchè spesso smentiamo nei fatti il principio dell'incarnazione, cioè l'accettazione della sua e nostra umanità (è il percorso di queste domeniche: le tentazioni, il dialogo con la samaritana e la trasfigurazione).
Come è noto un cieco sviluppa enormemente gli altri sensi, e probabilmente anche un sesto senso, una “visione del cuore”, quelli che Gesù chiama altrove puri di cuore, ai quali è appunto promessa la visione di Dio. Tale luce del cuore genera anche per contrasto paura in coloro che circondano il puro di cuore, non è mai una grazia senza conseguenze, spinge genitori, testimoni, farisei a prendere una decisione pro o contro («sono venuto per un giudizio»).
Ben lo aveva compreso Eugenio Montale, quando scriveva in memoria di sua moglie, affettuosamente chiamata Mosca, proprio perchè affetta da una gravissima miopia:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
(Xenia, II, 5)
René Magritte - La condicion humaine

La visionarietà del cristiano nasce da uno sguardo che ha incontrato Gesù Cristo: l'illuminazione non ha infatti una radice esoterica, ma relazionale. Siamo «luce nel Signore», «figli della luce»: non compiamo rituali che chiudono in una congrega, ma incontriamo il Signore che ci apre alla conoscenza del Padre e di noi stessi.

Pubblicato su Il Portico del 26 marzo 2017

martedì 21 marzo 2017

Quaresimale sul Perdono

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 18, 15-35)

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli 15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». 


Non esistono discussioni accademiche su peccato e perdono: c'è sempre la concretezza di un peccato fatto “contro di me” all'interno della comunità di fratelli.
Non esistono peccati contro Dio”, ma sempre contro i fratelli. Questo dovrebbe interrogarci...
Allora Matteo ci prospetta “tre gradi di giudizio”:
1) Parlare a quattr'occhi;
2) Parlare con/davanti a due o tre testimoni con la persona, non della persona!;
3) Parlare davanti all'assemblea riunita.
Noi spesso cominciamo direttamente dall'ultima.
Se poi non vuole ascoltare? Sia per te come pagano e pubblicano, che non significa: Non deve contare più nulla, hai fatto tutto quello che hai potuto, ora abbandonalo al suo destino. Ma piuttosto: i pagani e i pubblicani sono coloro ai quali Gesù si rivolgeva, quindi è lecito capire che questa persona che ha peccato contro di me, che non sono riuscito a riguadagnare alla comunità né parlandoci francamente, né con l'aiuto di altri, né con l'intera comunità, questa persona ha bisogno di un aiuto speciale, di una cura speciale, la comunità deve seguirla di più, deve cercare di amarla e di intrattenersi con lei, come faceva Gesù con i pubblicani e i pagani.
Gesù estende il potere di sciogliere e legare, che aveva dato a Pietro e agli apostoli a Cesarea di Filippo, a tutti i discepoli. Esiste nella Chiesa il sacramento della riconciliazione, ma questo sacramento, che celebra il sacerdote con il singolo penitente, non è slegato da un altrettanto forte impegno alla riconciliazione tra fratelli.
«Ma se pecca sette volte contro di me?». Pietro sembra quasi voler porre un limite a questo comando assoluto, a questo impegno da parte di Gesù di tenere in considerazione i nostri passi sulla via della riconciliazione tra di noi, a usare come metro per il cielo, il metro che noi usiamo nei nostri rapporti.
Quando Gesù viene richiesto sul perdono racconta la parabola del Re che vuole regolare i conti, quindi decentra l'attenzione. Al centro non ci sono io coi miei torti subiti, ma la misericordia di un re magnanimo. La parabola sul Perdono spinge il discepolo a ritornare al sentimento della Presenza di Dio (G. Brasó).
In ultima analisi tutta la mia vita, comprese le mie relazioni, è davanti a Dio.
Se non capisco questo, e penso di essere solo (peccato = la mia vita me la gestisco io), allora prendo al collo il mio fratello.
Pietro fa questa domanda dopo che Gesù ha dato indicazioni su come affrontare un fratello che pecca contro di me.
Perché forse, almeno in teoria, tutti siamo disposti a perdonare una volta, diciamo: è una cosa abbastanza ragionevole. Il problema sono i recidivi... È qui che Gesù ci spiazza! Il sommo grado di giudizio è paradossale: misericordia per tutti.
Allora quali sono i passi che io posso compiere?
Posso disprezzare il mio peccato, quei diecimila talenti di debito che mi sono stati condonati perchè non avrei mai potuto restituirli, una cifra esorbitante (cinquanta milioni di euro) e guardare a Gesù sottomesso al Padre. Allora mi accorgerò di passare lentamente dalla legge estrinseca, da quella legge che dovrebbe farmi restituire il mio debito all'amore puro che mi condona tutto, perchè non saprei come fare a restituire, non ne ho le forze.
Questo amore mi fa sopportare l'ingiustizia, mi fa cercare la verità e me la fa preferire anche alla reputazione.
Penetrati e salvati, guariti da lui, non ci accontentiamo di ammirarlo, ma nasce in noi l'esigenza di emularlo, di imitarlo, per corrispondere pienamente a questo amore.
L'amore infatti è emulativo, la legge no. Come quando sentiamo il bene che uno ci fa o ci ha fatto, e sentiamo il bisogno, il desiderio di essere una volta almeno come lui/lei, non solo di restituirgli un gesto di bontà, ma di essere così anche noi. Noi abbiamo dimenticato il grande valore dell'imitazione. I cristiani di un tempo ne avevano fatto addirittura una scuola.
Noi, col pretesto che dobbiamo essere noi stessi, non accettiamo più che il cristianesimo sia anche in parte “imitazione”, perchè pensiamo che così facendo potremmo correre il rischio di essere ipocriti.

Ma andate a chiedere a un ragazzo che gioca a calcio e ha talento, se non va a vedersi i video dei giocatori migliori in attività. O andate a chiedere a una ballerina se non osserva come si muove la sua istruttrice, o come balla l'étoile della Scala. Tutte le cose belle hanno bisogno, oltre che di un talento personale – di una certa predisposizione del carattere, potremmo dire in questo caso – anche di vedere in qualcuno di concreto (Gesù, e dietro di lui i santi) che è davvero possibile raggiungere certi limiti e superarli. La grazia non è una bacchetta magica, ma si serve prima di tutto degli strumenti che la nostra stessa natura di creature ci ha messo a disposizione: il mio carattere, le cose che mi hanno insegnato, gli esempi che ho visto.
Un principio che dovremmo sempre osservare è il seguente: Summum non stat sine infimo (Imitazione di Cristo II, 10, 2). Cioè le cose più alte poggiano su quelle più basse. Se io non lascio mai passare nulla, se non scuso le cose più banali, non sarò capace di perdonare le offese più gravi.
Noi come Pietro, ne facciamo soltanto una questione di norme, di numeri, per sentirci in ordine con la nostra coscienza. «Si può perdonare fino a?»
«Fino a infinito» è la risposta dell'Evangelo.
Ma che cos'è il perdono cristiano?
Perdono significa smettere di fare confronti. Può darsi che l'altro abbia fatto contro di me delle azioni malvagie, che in certi casi richiedono anche un distacco, per evitare conseguenze peggiori. Penso alle vittime di una violenza fisica o psicologica, che devono tutelare se stesse, a volte i propri figli. Devono allontanarsi, separarsi dall'aguzzino. Questo impedirà loro di perdonare? No di certo! A volte ci portiamo dietro rancori anche verso persone morte da tempo, che ci hanno fatto molto male... Se vogliamo vivere davvero dobbiamo imparare a perdonare anche quelle!
Perdonare è un percorso, abbiamo visto che ha delle tappe. Un pieno perdono di cuore forse arriverà dopo anni di ricerca. Perdonare significa non mettersi al posto di Dio nel giudizio su quella persona, ma cercare comunque il suo bene (insieme al nostro, ovviamente, non a discapito del nostro).
Sapete perchè facciamo fatica a perdonare chi ci ha fatto un torto (magari anche piccolo talvolta)?
Perché il senso del nostro isolamento, la nostra frustrazione per essere stati fraintesi in quella buona intenzione che avevamo, in quella proposta che abbiamo fatto e non è stata accettata, in quella nostra mano tesa che è stata rifiutata, in quel silenzio imbarazzato quando siamo arrivati improvvisamente in un capannello di persone, il nostro isolamento e la nostra frustrazione gridano dentro di noi, e noi non abbiamo armi per combatterli, o cominciamo a diventare competitivi (tu mi hai fatto così e allora io ti faccio cosà) o ci chiudiamo ancor più nel nostro mutismo.
Gli esperti dicono che l'isolamento è causa oltre che di comportamenti autolesionistici (alcoolismo, suicidi, etc) anche di quei disturbi che spesso avvertiamo: il mal di pancia, la gastrite, la schiena dolorante...
Perdonare non significa dunque essere cordiali con l'altro, fare come se nulla fosse. Significa piuttosto fare un cammino di riconciliazione prima di tutto con l'immagine di sé stessi.
Il problema è che quando c'è qualcosa che non va tra noi, facciamo due cose uguali e contrarie nella loro inutilità: o la mettiamo sotto il tappeto oppure ne parliamo ai quattro venti (il grande guaio di tante comunità cristiane e di tante famiglie!).

Invece siamo chiamati a seguire un percorso, una disciplina... quella che il Vangelo ci suggerisce; siamo invitati non a recriminare sulla nostra lesa maestà, ma a guadagnare un fratello che compiendo un peccato ha rotto la sua comunione con la comunità, e noi non vogliamo che resti fuori, ma che ritorni a farne parte!
E il secondo problema è che noi pensiamo che gli altri (a cominciare dai rapporti più vicini: la moglie, l'amico, il figlio, la nuora, la suocera, i fratelli e le sorelle della parrocchia, il collega di lavoro...) siano nati per riempire il nostro vuoto esistenziale e il nostro isolamento: «Tutti ti stanno accanto nessuno ti sta vicino» (Fedez, J-Ax, Piccole cose).
Per questo ci offendiamo a morte quando qualcuno ci fa un torto, perchè è come se dicesse: tu volevi che io mi comportassi con te in un certo modo e invece io non ho voluto. L'altro mette dei limiti al mio bisogno di possesso. Mentre io voglio disporre totalmente di me stesso e degli altri, come quel servo a cui il re condonò il debito enorme, ma che non fu capace di condonare un piccolo debito di un suo compagno. «Restituisci quel che devi!» Ci mettiamo al posto del re, dimenticandoci che siamo tutti compagni nel servizio (syndouloi).
E perchè non avremmo diritto di recriminare, di gridare che abbiamo subito un torto, forse anche un'ingiustizia?
Direi così: perchè non è quella la strada della guarigione. Neppure se striscia per terra chiedendoci perdono, l'altro soddisferà la nostra sete di potere, la nostra smania di essere re al posto del Re.
Questo gioco invece alimenterà in noi uno spropositato ego e diventerà un circolo vizioso. Così vizioso che mi allontanerà dal Padre, che ha voluto che il metro del perdono tra di noi diventasse il metro del nostro perdono finale. Come a dire: prima accogli il grande perdono di Dio nella tua vita, e poi, con pazienza, perseveranza e chiedendo con fede il dono della conversione, sarai anche capace di perdonare di cuore il tuo fratello che ha peccato contro di te.

CRISTIANI E PAGANI Poesia
1
Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.
2
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
3
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani

e a questi e a quelli perdona. (Dietrich Bonhoeffer)