domenica 31 dicembre 2017

Buon anno 2018

Questo è stato per me un anno di nuovo inizio. A oggi sono proprio 365 giorni che abito nel mio piccolo eremo alle Querce di Mamre. E devo dire che è stato un anno intenso e bello: croce e delizia come sempre vanno a braccetto.
Ma spesso sperimento quel che scrive Emily Dickinson in questa poesia: che l'Himalaya si china fino a me, piccola margherita...
Mi ricordo con stupore e commozione le parole del Salmo 18,36: "Abbassandoti Tu mi fai grande"...  e di tale abbassamento di Dio verso di me gioisco come un piccolo bambino.
E tutto ciò suscita in me anche una immensa gratitudine per il dono di persone che ho nel cuore e che hanno un volto e un nome a me caro.
Sto imparando ogni giorno a dire GRAZIE.
Auguro buon anno ai miei 24 lettori.
L’Himalaya fu visto chinarsi
Giù verso la Margherita
Preso dalla Compassione
Che una tale Bambolina crescesse
Dove Tenda su Tenda – il Suo Universo
Dispiegava Bandiere di Neve

domenica 17 dicembre 2017

Omelia per la terza domenica di Avvento e per il quarantesimo anniversario di Babbo e Mamma

Un pittore che si chiamava Grunewald dipinse nel 1500 una grande pala di altare raffigurando la crocifissione di Gesù, e insieme a Maria e a Giovanni, come ci tramandano i vangeli, dipinse dalla parte opposta Giovanni il Battista, con ai piedi un agnello e l’indice puntato verso Gesù, a indicare che la sua profezia era finalmente realizzata: è lui il vero Agnello di Dio, Gesù crocifisso.
Ovviamente si tratta di un anacronismo: il Battista era già morto quando Gesù è stato crocifisso. Ma Grunewald fu tuttavia geniale, perché ci ha mostrato il senso della vita del Battista, che in questa terza domenica di Avvento è la figura principale. Giovanni Battista infatti è vissuto per indicare Gesù. Egli era, come abbiamo ascoltato nel Vangelo, “Testimone della luce”, non era lui la luce. Davanti ai sacerdoti, agli scribi che lo interrogano sulla sua identità egli confessa: Io non sono il Cristo, io non sono Elia, io non sono il profeta... ma “Voce gridante nel deserto”. Non era lui la Parola, ma la voce che ha prestato suono alla Parola.
La vita di Giovanni Battista è stata tutta in funzione di Gesù.
Noi non capiamo fino in fondo questo misterioso legame (i vangeli ci dicono che fin dal grembo materno questi bambini, uno nel grembo di Elisabetta e l’altro nel grembo di Maria, si scambiavano messaggi di gioia). Perché a noi i legami fanno paura: pensiamo che vivere in funzione di qualcuno limiti la nostra libertà, la nostra identità, che ci tolga quella autonomia che disperatamente cerchiamo in ogni momento. Salvo capire poi, in certi momenti difficili, che da soli non si va da nessuna parte.
Ma per Giovanni Battista questo fu normale. Più avanti, ai suoi discepoli che vedono Gesù battezzare e che vanno a fargli la spia, dirà: “ È necessario che egli (Gesù) cresca, e io invece diminuisca”. La sua è stata una storia di progressivo rimpicciolimento, di abbassamento. E anche qui noi non capiamo fino in fondo, perché pensiamo che nella vita dobbiamo primeggiare, dobbiamo dimostrare di essere grandi, forti, potenti. Dobbiamo farci valere. Il mondo funziona così.
Ora però questa terza domenica di Avvento ci mostra questa figura a prima vista perdente, da outsider, da passatore di palle-gol...
Ritorniamo a ciò che viene detto di lui. È testimone della luce. Possiamo chiederci se la luce ha bisogno di testimoni. La risposta è no: la luce splende e tutti sono in grado di vederla, o meglio, proprio perché vediamo diciamo che c’è luce. Quand’è che la luce ha bisogno di testimoni? Quando è buio. Quando le tenebre avvolgono tutto. Quando siamo in piena notte senza luna e senza stelle. Questa è stata la grandezza di Giovanni Battista: egli è stato testimone nel buio. Per questo ci vuole coraggio. È facile dire: che bella la luce quando il sole è alto. Più difficile è dire: attenti, anche se siamo nelle tenebre, verrà la luce.
È facile parlare quando tutti ti ascoltano e ti applaudono. Più difficile è gridare nel deserto, dove nessuno ti ascolta, o ti ascolta soltanto chi decide di addentrarsi nel caldo e nella sabbia, dove non ci sono strade, ma ci vuole orientamento.
Questo ha fatto Giovanni: ha mostrato Gesù quando Gesù ancora non c’era.
E poi ha visto compiuta, realizzata la parola profetica e lo ha indicato al mondo, presente.
Ora, cosa ha a che fare questo con la nostra vita?
Stiamo celebrando il quarantesimo anniversario del vostro matrimonio, Mamma e Babbo.
C’è stato un momento nella vostra vita, e nelle vite di Manuela, Sandro e Francesco, in cui quella luce iniziale, carica di attese, di gioia, e di speranza, si è trasformata nella tenebra più profonda. Nella perdita di un marito e padre e nella perdita di una moglie e madre.
Tenebra dentro la quale è difficile dire: che bella la luce, che bello il bene, che bello l’amore.
La tenebra impedisce di vedere, di capire, di orientarsi. Costringe a rimanere immobili. Porta a essere tristi e senza speranza.
Mi sembra che invece sia accaduto in voi, lentamente ma veramente, quello che è accaduto a Giovanni Battista: siete stati testimoni della luce. Avete annunciato, non con parole o prediche, o gesti particolari, ma con la vostra vita e le vostre scelte, che la luce splende nelle tenebre e le tenebre non possono vincere. Decidendo di sposarvi quarant’anni fa, e costituendo una nuova famiglia, di prendervi cura dei figli che non erano del vostro sangue, voi avete testimoniato che il bene vince sul male. E che questa non è una favola, non è una fiaba a lieto fine, ma è la vittoria di Cristo stesso sulla morte. È quel dito di Giovanni Battista puntato sul Crocifisso. Costa una croce, costa sofferenza. Ma viene la redenzione, viene la luce. Dio ha davvero “fasciato le piaghe dei cuori spezzati”, come dice il profeta Isaia. Avete dato una risposta anche voi come Giovanni Battista: “Non sono io”, non sono le mie sofferenze da mettere al centro, non sono io a essere importante. Vi siete fatti più piccoli perché la luce crescesse anche per noi. Non avete messo voi e le vostre esigenze al centro dell’attenzione, ma forse anche inconsapevolmente, l’amore per la vostra famiglia.
E “amore” è il nome di Dio! Al centro della vita o c’è Dio o c’è il nostro io. E se c’è il nostro io, senza Dio, è tenebra, per quanto noi possiamo illuderci di luccicare.
In fondo, se volete, è quel motto semplice ed efficace che mamma ci ha sempre ripetuto alla sera, quando appunto tutto è avvolto nel buio: “Vai a dormire, perché domani è un altro giorno”. Sì, domani viene la luce. Questa è la speranza. Domani viene sempre la luce, anzi, oggi. Nel giorno di Natale, al quale ci prepara anche questa liturgia, canteremo acclamando al Vangelo: “Un giorno santo è spuntato per noi: venite tutti ad adorare il Signore; oggi una splendida luce è discesa sulla terra”.
Oggi! Questo è l’annuncio. C’è un “oggi” di luce per noi che si chiama Gesù Cristo. Se noi viviamo in questo oggi siamo nella luce, e le tenebre, per quanto tristi e difficili, non ci faranno più paura.
Ecco perché san Paolo ci invita a essere sempre lieti, a ringraziare in ogni cosa, a non spegnere lo Spirito, ma ad astenerci da ogni specie di male, a gettare lontano da noi l’egoismo, la rivincita, il rancore, tutto ciò che porta tenebra nella vita e nelle relazioni, a raddrizzare i nostri sentieri tortuosi. Perché la luce possa splendere e possa essere gioia per noi e per le persone che ci circondano.
Giovanni Battista insegni a ciascuno di noi, ognuno con la propria missione, a essere portatori di luce, a testimoniarla proprio lì dove manca. Il mondo, anche il nostro piccolo mondo, le nostre famiglie, in fondo hanno bisogno di questo: di sapere e sperimentare che c’è una speranza, che questa speranza è praticabile, che questa speranza ha il volto e il nome di un uomo, anzi di un bambino, che non fa male a nessuno, ma solo chiede di essere accolto e abbracciato nella nostra vita. Che quell’uomo è credibile, che noi abbiamo avuto fiducia in lui e continueremo ad averne per l’avvenire, anche quando forse ci saranno altri momenti di tenebre e di buio. Dopo quarant’anni anche noi possiamo indicare quella croce, come Giovanni Battista nel quadro di Grunewald, e dire: la croce è stata salvezza. Anche nella nostra storia personale. 
 La luce che illumina ogni uomo venne nel mondo, e a quanti l’hanno accolta ha dato il potere di diventare figli di Dio. Anche a noi ha dato questo potere. Non scegliamo mai le tenebre, ma la luce.
E sarà gioia, quella gioia che oggi ci invita ad avere la liturgia.
Amen 

venerdì 8 dicembre 2017

Pesante di terra e di cielo

Maria Lai - Natività

La Storia
la Storia
la Storia
segnava nel tempo lo zero.

La notte
la notte
la notte
tesseva le ore del gelo.

La stella
la stella
la stella
filava stupore nel cielo.

Le voci
le voci
le voci
nei sogni di re e di pastori.

Le greggi
le greggi
le greggi
fiumane di onde in cammino.

La stalla
la stalla
la stalla
offriva il suo grembo di paglia.

Giuseppe
Giuseppe
Giuseppe
teneva per mano Maria.

Maria
Maria
Maria
pesante di terra e di cielo.

Le spade
le spade
le spade
sui lini di tenere culle.

La terra
la terra
la terra
duemila Natali di guerra.


(Maria Lai)

Dieci bellissime opere di Maria Lai sono esposte nella Biblioteca della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna fino al 22 dicembre (cliccare per accedere al link)

Qui il manifesto della Mostra.

martedì 5 dicembre 2017

Il lupo dimorerà con l'agnello (senza rinunciare a essere lupo)

Si suol dire, specialmente nei nostri ambienti tolstoiani, che quando il leone giace con l’agnello diventa simile all’agnello; ma questa sarebbe una brutale annessione imperialistica da parte dell’agnello: vale a dire che l’agnello assorbirebbe puramente e semplicemente il leone invece di essere il leone a mangiare l’agnello.
Il vero problema è: – Può il leone giacere con l’agnello e conservare ancora la sua regale ferocia? Ecco il problema in cui la Chiesa si è cimentata, il miracolo che ha compiuto. Questo è ciò che ho chiamato indovinare le nascoste eccentricità della vita […].
Sopravvalutano il Cristianesimo quelli che dicono che ha scoperto la pietà: chiunque potrebbe scoprire la pietà: ognuno infatti l’ha scoperta. Ma scoprire il modo di essere pietosi e anche severi – ciò significa scoprire uno strano bisogno della natura umana: nessuno pretende di essere perdonato per un peccato grosso come se fosse piccolo. Ognuno può dire che noi non siamo né perfettamente miserabili né perfettamente felici; ma trovare fin dove uno può esser miserabile senza rendersi impossibile l’esser felice – questa, in psicologia, sarebbe una scoperta.
Chiunque può dire: «Né essere spavaldi né umiliarsi», e sarebbe un limite; ma il dire: «Qui potete essere spavaldi e qui potete umiliarvi» è una emancipazione. 

(G.K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 2008, 135)


Quando in un rapporto lavorativo si entra in conflitto con il capo (meno con i colleghi), cerchiamo le parole giuste perché abbiamo paura che una parola di troppo, una reazione esagerata possano compromettere irrimediabilmente la nostra carriera, o anche semplicemente procurarci guai di cui non sappiamo né possiamo prevedere l'evoluzione.
Perché non accade lo stesso con le persone che diciamo di amare? Se a guidarci è il nostro ego, se siamo totalmente autocentrati, non guarderemo in faccia nessuno. Se invece è il desiderio di fare comunione, e la paura di perderla (qui, ora, e anche per sempre e definitivamente), allora misureremo le parole.
Ricordo che diavolo viene da dia-ballo: mi metto in mezzo, separo. Dunque egli è colui che separa. Egli è anche menzognero fin dal principio, cioè usa le parole per accusare (È caduto colui che accusava i nostri fratelli giorno e notte, dice l'Apocalisse): usa le parole trasformando le intenzioni, alludendo, instillando dubbi...
Il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto viene dal maligno.
Ecco perché la profezia vede il lupo dimorare con l'agnello: al diavolo questo non riuscirà mai!


lunedì 27 novembre 2017

Un po' di gentilezza

UN PO’ DI GENTILEZZA
Editoriale Rivista Tredimensioni: [11 (2014), pp. 228-233]
Le violenze, gli insulti, le sopraffazioni sono all’ordine del giorno e sembra che sia la voce grossa a fare di un politicante un vero politico, a trasformare un fanfarone in un profeta del domani migliore o a dare credibilità a chi non riesce a costruirsela per altre vie. Si tratta di comportamenti atavici, psichicamente primitivi, che risalgono ai nostri primi anni di vita e che rimangono in chi per molti suoi aspetti non è riuscito a procedere oltre. Il bambino, quando non ha più niente da dire si mette a gridare e quando non ha più argomenti credibili non gli resta che dire alla mamma: «Sei brutta!». Ad un livello così basso di sviluppo l’emergere della gentilezza non è neanche pensabile perché, per sorgere, ha bisogno di un terreno psichico più evoluto, capace di far provare il sentimento sociale ossia la capacità di empatia verso gli altri. Infatti, la gentilezza non si esaurisce in questo o quel gesto garbato, di buona educazione, ma è un habitus che presuppone un cuore sensibile ai bisogni degli altri, generoso e premuroso. È una virtù, più che una questione di bon-ton.
Si racconta di due scalatori che si arrampicavano su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido. La tormenta stava per scatenarsi. Raffiche turbinanti di schegge di ghiaccio sibilavano frale rocce. I due procedevano a fatica. Sapevano molto bene che se non avessero raggiunto in tempo il rifugio sarebbero periti nella tempesta di neve. Mentre con il cuore in gola per l’ansia e gli occhi quasi accecati dal nevischio costeggiavano l’orlo di un abisso, udirono un gemito. Un altro scalatore era caduto nella voragine e, incapace di muoversi, invocava soccorso. Uno dei due disse: «È il destino. Quell’uomo è condannato a morte. Acceleriamo il passo o faremo la sua fine». E si affrettò, tutto curvo in avanti per opporsi alla forza del vento. Il secondo, invece, si impietosì e cominciò a scendere per le pendici scoscese. Trovò il ferito, se lo caricò sulle spalle e risalì affannosamente il sentiero. Intanto imbruniva. Il cielo era sempre più oscuro. Sudato e sfinito, anche per il ferito che portava sulle spalle, ad un certo punto il soccorritore vide apparire le luci del rifugio. Incoraggiò il ferito a resistere, ma all’improvviso inciampò in qualcosa steso di traverso sul sentiero. Guardò e non poté reprimere l’orrore: ai suoi piedi era steso il corpo del suo compagno. Il freddo lo aveva ucciso. Lui era sfuggito alla stessa sorte solo perché si era fermato a soccorrere. I loro corpi uniti e lo sforzo avevano mantenuto il calore sufficiente per salvargli la vita.
La gentilezza fa bene a chi la fa, prima che a chi la riceve; come la neve non fa rumore; sa adattarsi all’inatteso che attraversa la vita. «Mi aspetto di passare attraverso la vita una volta sola. Perciò se voglio mostrarmi gentile o fare qualcosa di buono al mio prossimo, lo devo fare ora e non differire l’occasione o trascurarla perché non mi capiterà più un’altra volta» (Madre Teresa di Calcutta).
Ma lo stadio del bambino che urla per niente deve essere stato superato e, nel frattempo, essersi formata nella psiche una chiara e consistente stima di se stessi e della propria bontà, la certezza di riuscire a dare affetto, il rispetto per gli altri. Cose che lo strillone non può provare.
Poi c’è il modo di parlare. Un discorso gentile non solo evita le urla ma anche la gentilezza da circostanza. «Per voi padre, ma con voi fratello…, siete tutti e singolarmente nel mio cuore…, il mio pensiero va a voi in modo particolare…». Ma come? Dopo queste parole, ci imbattiamo sulla porta e questo sedicente mio fratello neanche mi saluta?
La gentilezza tiene conto della relazione e fa sentire che le proprie parole vogliono produrre una benedizione in favore degli altri e non una gratificazione narcisista per le proprie orecchie. «Le parole gentili non costano molto, ma realizzano molto» (Pascal).
Spesso sono anche parole senza parole: considerare l’effetto delle proprie parole prima di parlare, non partecipare ai pettegolezzi, stare attenti a non diffondere malignità sugli altri, evitare rilievi brucianti, aiutare i poveri senza che loro se ne accorgano. La gentilezza è uno stile interiore che modella il modo di essere, parlare, muoverci, vestirci, gesticolare...
Che la gentilezza sia più delle buone maniere lo si capisce anche dal suo legame con il concetto di onorare che non significa fare grandi inchini al cospetto degli altri, ma mettere le condizioni perché l’altro possa esprimersi e farlo al meglio. È gentile l’uomo che non solo rispetta sua moglie, ma che la onora, ossia mette le condizioni perché sua moglie si esprima al meglio nella sua femminilità. È gentile il figlio quando non solo accetta il contributo dei genitori, ma crea le condizioni perché loro lo diano al meglio. La gentilezza, così, non è affatto qualcosa di mellifluo, ma si associa ad un sentimento di pretesa. Quel pretendere che è incitare l’altro a tirare fuori la propria originalità perché lo si avverte soggetto credibile e capace di produrre senso. Non pretendo che dia ciò che io voglio, ma ciò di cui lui è veramente capace, che faccia il possibile per realizzare il positivo che io ho già intravisto in lui. L’atteggiamento di pretesa associato alla gentilezza è intermedio fra il rispetto come indifferenza e la costrizione come violenza. Allevare un bambino con tenerezza non significa lasciargli fare tutto ciò che vuole.
 Millina incontra una vecchietta che non mangia più. Le parla e la fa parlare per quel che può. Con un filo di voce la vecchietta spiega di avere dei figli, troppo indaffarati però per occuparsi di lei. Così non c’è più nessuno che venga a trovarla. Non ha una vera e propria malattia: è deperita perché non riesce più a mangiare, e non mangia più perché è deperita. Millina le propone un bel gelato. Ad ogni cucchiaino, adagio adagio, alla vecchietta ritornano il colorito, la voce, la vita. L’idea del gelato è geniale perché si tratta di un cibo facilmente assimilabile, ma l’idea è venuta a Millina perché si è presa a cuore quella vecchietta bisognosa non solo di cibo, ma soprattutto di cure, di amore, di attenzione: ciò di cui ognuno di noi ha bisogno, come dell’ossigeno. Prima ancora del gelato, la vecchietta ha ricevuto il calore della solidarietà attraverso un gesto di gentilezza che le ha fatto ricuperare le ultime forze ma ancora possibili. Al principio e alla fine della nostra vita dipendiamo dalla gentilezza degli altri: perché non usarla anche nella parte restante della nostra esistenza?
Impariamo dalla natura. È gentile la neve che si posa sulle cose silenziosa e le veste di candore; è gentile la rugiada che si posa sull’erba senza piegarla; è gentile il tramonto che inonda il cielo di luce perché il giorno non abbia timore della notte che scende; è gentile la mano che coglie un fiore e non lo strappa; è gentile il cuore che risponde al bisogno dell’altro prima della domanda. La gentilezza è un pennello per dipingere di bellezza le persone che ci vivono accanto e ogni cosa che ci circonda.
Provate ad essere un po’ più gentili.

Quando iniziate una e-mail scrivete sempre il nome del destinatario e alla fine salutate con «a presto», «ti penso», «un caro saluto».
In ascensore non state in silenzio, chiedete come va e in base alla confidenza lasciatevi andare a qualche discreto complimento.
Se arriva un nuovo vicino andate a dare il benvenuto con un bel dolce, soprattutto se ci sono bambini.
Se uscite sul balcone non fate finta di non vedere il vostro vicino, salutatelo e complimentatevi per le piante che ha sul terrazzo.
Se farete dei lavori di ristrutturazione in casa avvertite i vicini, scusandovi per i disagi.
Chiamate la vostra amica che non sentite da tempo, state unora al telefono, come quando eravate ragazzine!
Comprate una piantina, semplice, portatela a vostra madre, sorella, nonna, suocera, senza aspettare il loro compleanno.
Alla posta esordite con un «buongiorno», sorridete e ringraziate.
Sul treno o in aereo non fate a spintoni per salire per primi.
Praticate la gentilezza automobilistica.
Chiedete a chi abita con voi come è andata la giornata.
Se vedete una persona che fa fatica a portare le borse della spesa, aiutatela.
Ognuno in famiglia anticipi laltro nei suoi bisogni e desideri della quotidianità.
«Sorriso, grazie, prego, mi scusi, per favore, molto gentile, le sta molto bene…» sono frasi che ci fanno già stare bene; usiamole anche con i nostri familiari, perché spesso siamo più gentili con gli estranei.

(per gentile concessione di d.E.Apeciti)

sabato 25 novembre 2017

COSA ASPETTI? CHI ATTENDI? RITIRO DI AVVENTO

INFORMAZIONI:

Il ritiro è rivolto a quanti desiderano approfondire la Parola di Dio, laici, religiose, presbiteri.

Per esigenze organizzative si chiede di iscriversi alla giornata telefonando al 340 123 9428 dal lunedì al venerdì dalle 20:00 alle 21:30.
PROGRAMMA:

Ore 10:30 – Meditazione
Ore 12:00 – Eucaristia
Ore 13:00 – Pranzo (al sacco)
Ore 15:00 – Meditazione e condivisione
16:30 – Conclusione

PROSSIMO RITIRO: 4 febbraio 2018

Terrà le meditazioni don Marco Statzu

martedì 21 novembre 2017

Omelia per la festa della Madonna delle Grazie - Nuoro

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 12,46-50)

In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. 
Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti».
Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».

oooOOOooo



Quale grande privilegio abbiamo avuto, carissimi fratelli e sorelle, in questi nove giorni.
Forse non lo pensavamo, ma noi abbiamo realizzato il Vangelo: siamo venuti a cercare Gesù, come i suoi familiari nel vangelo che abbiamo ascoltato, perchè ci sembrava che egli fosse troppo occupato con altri, che non ci stesse considerando abbastanza, eravamo fuori e volevamo parlargli.
E lui cosa fa?
Tende la sua mano verso i suoi discepoli, verso di noi, e dice: Ecco mia madre e i miei fratelli. Perchè chiunque fa la volontà del Padre mio è per me fratello, sorella e madre.
Ci ha resi suoi familiari, come Maria!
Questa è stata la grazia più grande che abbiamo ricevuti in questi giorni:
- ascoltare la sua Parola, per cercare la sua volontà, non come un gioco d’azzardo, ma come una relazione viva e personale con Lui.
- ricevere il Suo perdono nella confessione sacramentale
- partecipare pienamente all’Eucaristia
- uscire di qui col desiderio di amare di più, di cercare i segni della sua presenza attorno a noi, tra di noi, come lui trova i segni della sua familiarità con noi, chiamandoci fratello, sorella e madre.
Abbiamo avuto questo grande privilegio di guardare alla nostra storia con lo sguardo di Maria, l’abbiamo interrogata, le abbiamo chiesto di avere più fiducia in Dio e più coraggio per affrontare la nostra vita, per imparare a perdonare, a rischiare qualcosa di noi, a impiegare i talenti ricevuti.
Abbiamo chiesto a Lei, mediatrice di Grazia, che ci aiuti a essere mediatori della Grazia, a non ostacolare l’incontro con Gesù.
Abbiamo chiesto il dono della conversione e della riconciliazione. Il dono di ricominciare!
Non lasciamo che questi giorni passino invano.
Non scoraggiamoci se ci riconosceremo presto fragili e inadatti: ritorniamo sempre a Gesù nell’Eucaristia, nella confessione, nell’amore al prossimo.
Questo è il vero banco in cui si prova la nostra fede, non i nostri sentimenti più o meno altalenanti, e neppure le nostre buone intenzioni.
Lasciamoci ritrovare da Cristo, lasciamoci amare da Gesù, lasciamoci prendere in braccio da Maria, lasciamoci condurre sulla strada del Vangelo.
Come canta il Magnificat: gli umili, gli affamati, coloro che lo temono/amano sono tre categorie predilette di persone. Questo è il capovolgimento del Magnificat, la rivoluzione del Magnificat, la conversione che ci chiede il Magnificat.
La nostra storia è benedetta, e queste non sono parole di consolazione a buon mercato, è benedetta davvero se entriamo anche noi nel canto del Magnificat, se entriamo anche noi in questo capovolgimento cantato da Maria.
Dio ci aiuti a desiderarlo e a farne occasione di una nuova rinascita spirituale, morale e civile, per noi, per la città di Nuoro e per tutta la diocesi.
Buona festa a tutti.

Amen

lunedì 20 novembre 2017

Omelia per il lunedì XXXIII settimana - Novena delle Grazie 9

Dal primo libro dei Maccabèi (1 Mac 1,10-15.41-43.54-57.62-64)
In quei giorni, uscì una radice perversa, Antioco Epìfane, figlio del re Antioco, che era stato ostaggio a Roma, e cominciò a regnare nell’anno centotrentasette del regno dei Greci.
In quei giorni uscirono da Israele uomini scellerati, che persuasero molti dicendo: «Andiamo e facciamo alleanza con le nazioni che ci stanno attorno, perché, da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali». Parve buono ai loro occhi questo ragionamento. Quindi alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re, che diede loro facoltà d’introdurre le istituzioni delle nazioni. Costruirono un ginnasio a Gerusalemme secondo le usanze delle nazioni, cancellarono i segni della circoncisione e si allontanarono dalla santa alleanza. Si unirono alle nazioni e si vendettero per fare il male. 
Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re. Anche molti Israeliti accettarono il suo culto, sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato.
Nell’anno centoquarantacinque, il quindici di Chisleu, il re innalzò sull’altare un abominio di devastazione. Anche nelle vicine città di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze. Stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se presso qualcuno veniva trovato il libro dell’alleanza e se qualcuno obbediva alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte. Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vicenda per non mangiare cibi impuri e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza, e per questo appunto morirono. Grandissima fu l’ira sopra Israele.


Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,35-43)
Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!». 
Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 
Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». 
Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
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La Parola di Dio di quest’oggi ci fa riflettere su due temi importanti che traiamo dalla lettura del libro dei Maccabei e dal Vangelo.
Il primo ci parla di persecuzioni, il secondo ci parla di coloro che stanno in mezzo tra Gesù e la gente.
Persecuzioni. Viviamo un’epoca di persecuzioni contro i cristiani, mai come in questo tempo i cristiani sono perseguitati in tutte le parti del mondo. Persecuzioni cruente che portano all’uccisione e al ferimento di persone inermi che hanno la sola colpa di andare in chiesa, di pregare, di portare qualche segno di cristianesimo addosso, di comportarsi in modo diverso.
E la persecuzione è sempre il tratto distintivo di una fede che matura. Duecento anni prima che nascesse Cristo, Gerusalemme viene conquistata da Antioco Epifane che la mette a ferro e fuoco e costringe gli ebrei ad adorare una sua statua che fa mettere nel tempio e fa in modo che gli abitanti di Gerusalemme adottino gli usi greci...
In qualche modo riesce a far dimenticare a tanti la loro fede. A tanti ma non a tutti, perchè non tutti si piegheranno, e il libro dei Maccabei racconta la storia di queste persone intrepide e coraggiose che hanno difeso lo spazio di Dio dentro di loro.
Ora è importante che noi leggiamo questi racconti, e poi che conosciamo anche la storia della Chiesa, con le persecuzioni dei primi secoli, perchè altrimenti corriamo il rischio di pensare che il nostro tempo sia malato, che la nostra storia sia peggiore di coloro che ci hanno preceduti, che assistiamo a una scristianizzazione della nostra società, ormai da molti decenni, e che appunto tanti cristiani vengono perseguitati. Non è un problema di oggi, è un problema di sempre: il cristianesimo fa paura, perchè non si basa sulla potenza, sul dominio, sulla forza delle armi. È inerme. Il nostro Dio non ha una spada, ma pende dalla croce, e fa più paura dei carri armati. E rende le persone più coraggiose persino di coloro che vanno in guerra equipaggiati di tutto punto: preferirono morire, pur di non contaminarsi, abbiamo letto nel libro dei Maccabei.
Ce lo testimonia anche questa stessa diocesi, di cui Antonia Mesina è una figlia splendida.
Il fatto che qualcuno venga perseguitato per la propria fede in Gesù Cristo dovrebbe portarci a chiederci come viviamo la nostra fede, se al ribasso o con convinzione. Perché noi abbiamo l’inestimabile fortuna di poter vivere la nostra fede in pace, di celebrare Messe, novene, fare processioni e qualunque altra cosa senza che nessuno ci faccia del male.
Siamo disposti a soffrire qualcosa pur di non abbandonare la fede?
Oppure qualsiasi intoppo, qualsiasi contrattempo, diventano per noi occasione per dire: «Vabbé, fa nulla, non è poi così importante». Voglio dire: se basta poco per mettere in discussione la Messa domenicale, la preghiera quotidiana, l’amore verso il prossimo...
Quanto siamo disposti a “spendere”, a mettere in gioco per la nostra fede?
Talvolta le nostre parrocchie diventano uffici complicazioni affari semplici, e litighiamo per tutto, e ci accapigliamo per vedere chi conta di più. Dimenticandoci che essere cristiani è partecipare alla passione di Cristo.
Ed ora una parola sul secondo tema, che abbiamo ascoltato nel Vangelo.
Gli intermediari. Il vangelo ci presenta Gesù in cammino che scende verso Gerico e su questa strada c’è una persona che sta ai margini, chiede l’elemosina. Egli sente il flusso di gente che si muove, si interessa su chi stia passando, c’è chiasso: gli annunciano «Passa Gesù il Nazareno». Quest’uomo probabilmente ne conosce la fama, decide di tentare il tutto per tutto. Non sa chi sia, è cieco, può soltanto gridare verso di lui. «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me». È la stessa parola che noi diciamo all’inizio di ogni eucaristia: Kirye eleison, Signore pietà. Questo cieco usa proprio la parola eleos, è la commozione che suscita la vista del male che subisce un innocente, proprio come il cieco, il quale non per sua colpa non vede. Sono quelle viscere di Dio che si commuovono alla vista dei suoi figli, la sua compassione. Quella che aveva esercitato il buon samaritano nei confronti del malcapitato che guardacaso scendeva anche lui a Gerico: Chi dei tre è stato il prossimo del povero malcapitato? Chi che ha avuto compassione di lui..
Allora capite che Gesù è molto sensibile a questo appello, che lo richiama a considerare l’amore stesso di Dio per la sua creatura. Hai detto che sarai fedele, e allora sii fedele alla tua creatura!
È una preghiera bellissima, che i racconti del Pellegrino Russo ci hanno insegnato a far diventare la preghiera del cuore: Gesù, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me.
Ma qui succede un disguido, perchè i suoi discepoli, quelli che lo precedono sulla strada non vogliono scocciature, e cercano di zittirlo. E allora lui grida più forte, ancora «Figlio di Davide, abbi pietà di me». Con il suo grido il cieco sfonda il muro di indifferenza dei discepoli, ricorda a loro e a Gesù su cosa si devono basare i rapporti tra le persone: sulla misericordia, la compassione, la bontà.
A questo punto Gesù allora si ferma e ordina che lo conducano da lui: è la sua fede che lo ha salvato! Questo suo aver gridato.
Gli apostoli da ostacolo sono chiamati a diventare intermediari, a sostenere il percorso di avvicinamento a Gesù di tutti coloro che per tanti motivi sono ai margini: malati, poveri, carcerati, persone che hanno fatto errori, persone che vivono in situazioni canoniche non regolari, divorziati, separati, conviventi, omosessuali e chiunque viva ai margini. Gesù ha a cuore tutti, specialmente chi grida a lui chiedendo misericordia.
Non basta annunciare Gesù con le parole, è necessario non frapporsi all’incontro, anzi facilitarlo, e questo vale soprattutto per chi nella Chiesa ha un ministero, vescovi, preti, religiosi, catechisti e così via.
Chiediamo al Signore, sull’esempio di Maria, che invochiamo come "mediatrice di Grazia", di diventare anche noi mediatori di Grazia per il mondo, di non frapporre mai ostacolo tra le persone e il Signore. Chiediamo di non accontentarci mai di annunciare semplicemente Gesù con la bocca, ma di coinvolgerci per condurre a lui le persone che incontriamo, specialmente coloro che hanno bisogno di misericordia e compassione.

domenica 19 novembre 2017

Omelia per la XXXIII domenica del Tempo Ordinario - Novena delle Grazie 8

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 25,14-30)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
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Marsiglia - Les voyageurs
Stiamo rapidamente giungendo alla fine dell’anno liturgico, e i vangeli di queste ultime domeniche ci fanno meditare sul senso della nostra vita e sul suo esito finale, aprendoci però uno squarcio di luce per vivere bene qui e ora.
Abbiamo meditato in questi giorni sull’atteggiamento da tenere nel tempo in cui il Signore tarda, e abbiamo detto che dobbiamo stare attenti all’attivismo, al ridurre tutta l’esperienza di fede a un fare delle cose, pericolo sempre in agguato.
Oggi la parola del Vangelo ci presenta attraverso Matteo una delle ultime parabole di Gesù, che prepara quella grandiosa e definitiva che ascolteremo domenica prossima.
È un racconto molto semplice: c’è un uomo che parte per un lungo viaggio e affida i suoi beni ai suoi servi. Alcuni di loro fanno fruttare i beni ricevuti, un altro invece per paura li sotterra. Al rientro il padrone, chiedendo conto a ciascuno fa la differenza tra di loro.
Potrebbe sembrare facile fare un’applicazione pratica a noi: siamo invitati a far fruttare i talenti ricevuti, i doni che Dio ci ha messo in mano perchè li usassimo.
E quindi ci sembra di aver risolto tutto.
Ma sotto questa parabola Gesù racconta un’esperienza molto più vasta, perchè ci dà uno spaccato del cuore umano e delle sue debolezze e ci invita a osare nella vita.
Infatti i tre servi ricevono un numero di talenti proporzionato alle loro capacità: non sono tutti uguali! Sono tutti diversi!
E questa è la verità anche per noi: non siamo tutti uguali nei doni, nelle capacità, nei carismi. Siamo tutti diversi, e questo non è un male, è semplicemente la realtà. Il male è quando noi cominciamo a paragonarci, a dire: ma lui ha più di me, ha avuto tante cose e io poche. I paragoni sono deleteri, perchè avvelenano i rapporti: pensate quando in famiglia si comincia a confrontare quello che abbiamo ricevuto tra fratelli... quante guerre scateniamo! Oppure nella comunità cristiana: io ho soltanto la chiave dello sgabuzzino delle scope, quello invece ha ricevuto di più perché ha la chiave del sottoscala... 
È invece importante che ciascuno si concentri su quei doni ricevuti, non importa quanti siano.
Ognuno deve concentrarsi per rispondere alla realtà che gli sta davanti, che è differente per ognuno.
Allora accade che i primi due, che oggettivamente hanno ricevuto più del terzo, sono persone sveglie: vanno a impiegarli in banca, li investono, e raddoppiano le loro proprietà. Hanno rischiato, perchè in caso di perdita avrebbero dovuto ripagare la differenza al padrone, eppure si sono messi in gioco, si sono buttati.
Il terzo invece ha un’idea distorta di Dio: pensa che Egli esiga più di quanto dà, e quindi rimane sul sicuro, va a sotterrare il suo talento perchè almeno potrà restituirglielo.
Non ha il coraggio di rischiare.
Ecco qui il nucleo di questa parabola: la vita è un rischio, è un trampolino di lancio che continuamente ci chiede di metterci in gioco, di tuffarci, di fare la nostra parte.
Non importa di quanti talenti disponiamo: se cominciamo a paragonarci agli altri stiamo sbagliando in partenza. Non è un caso che sia proprio quello che ha ricevuto di meno ad aver paura: talvolta capita che pensiamo di essere inutili, di non valere nulla, perchè siamo più piccoli degli altri, più umili, più poveri di doni.
E invece no! Sono quelli giusti per noi: a ciascuno secondo le proprie capacità!
Quel servo non è stato fedele come gli altri due. Non è stato fedele alla realtà, non è stato fedele a sé stesso, a ciò che era chiamato ad essere, non è stato fedele alla sua chiamata.
Noi corriamo il rischio tremendo di non corrispondere alla nostra stessa vita, di vivere alienati, di sotterrare i doni che abbiamo con la paura di perderli o di non farli fruttare abbastanza. Di vivere una fede spiritualista, che non aderisce alla realtà.
Guardate invece come agisce Dio: dona largamente, ci conosce, sa che possiamo farcela, che possiamo tirar fuori da noi il doppio!
Lui ci incoraggia a portare frutto.
Perché in fondo l’idea sbagliata che ci suggerisce il terzo servo è che Dio sia geloso di noi uomini, che pretenda tutto per sé, che anche quei talenti ricevuti, li rivoglia semplicemente indietro: «Eccoti i tuoi beni!» .
Ma non è questa la risposta che dà agli altri due: Bene servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone.
Il “padrone” vuole rendere partecipi i suoi servi della sua stessa gioia, vuole condividere il suo potere con loro. Non è uno che pretende più di quanto dia, è uno che vuole darci più di quanto sarebbe giusto pretendere da noi! Quel frutto alla fine è e resta nelle nostre mani, ma aumentato!
È la prospettiva opposta!
E noi siamo chiamati a coglierla: siamo chiamati a tirarci fuori dai nostri piagnistei, dalle nostre pretese, dai nostri continui confronti con gli altri, per essere finalmente noi in verità, per aderire alla nostra chiamata.
Gesù non racconta questa parabola per metterci paura o per prospettarci cosa accadrà al suo ritorno, ma piuttosto per spronarci a non essere inattivi.
Quando ero parroco le persone più attive in parrocchia erano gli ammalati che pregavano per me e per tutti: lo dico senza retorica, ma tutto il giorno mettevano a frutto l’unico dono che avevano. Immobilizzati sul proprio letto non si stancavano di intercedere presso Dio. Agli occhi di tutti avevano ricevuto poche possibilità, non potevano spostarsi, non potevano partecipare, non potevano fare. Eppure accettavano di accrescere il tesoro ricevuto attraverso il loro contributo.
Così anche noi: tu puoi contribuire con un verso al potente spettacolo della vita, ha scritto un poeta americano: facendo la propria parte, impiegando il dono ricevuto. Nessuno è troppo povero!

Chiediamo al Signore che ci faccia guardare con realtà alla nostra vita e ci aiuti a non seppellire mai i nostri doni, a non chiuderci in noi stessi, ma ad aprirci alla gioia di portare frutto.

sabato 18 novembre 2017

Omelia per il sabato della XXXII settimana - Novena delle Grazie 7

Basta "postare" una preghiera su Facebook per dire che si prega? 

Dal libro della Sapienza (Sap 18,14-16; 19,6-9)
Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,
e la notte era a metà del suo rapido corso,
la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,
guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio,
portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile
e, fermatasi, riempì tutto di morte;
toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra. 
Tutto il creato fu modellato di nuovo
nella propria natura come prima,
obbedendo ai tuoi comandi,
perché i tuoi figli fossero preservati sani e salvi. 
Si vide la nube coprire d’ombra l’accampamento,
terra asciutta emergere dove prima c’era acqua:
il Mar Rosso divenne una strada senza ostacoli
e flutti violenti una pianura piena d’erba;
coloro che la tua mano proteggeva
passarono con tutto il popolo,
contemplando meravigliosi prodigi.
Furono condotti al pascolo come cavalli
e saltellarono come agnelli esultanti,
celebrando te, Signore, che li avevi liberati.



Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,1-8)

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

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L’evangelista ci porta al cuore dell’esperienza di fede quando Gesù racconta una parabola su una necessità a cui il discepolo non può sottrarsi: la necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai.
Perché Luca sente la necessità di ricordare questa parabola di Gesù alla sua comunità? Probabilmente dopo qualche decennio dalla morte e risurrezione di Gesù, la sua promessa di ritornare appariva a qualcuno una bella favola: tutte quelle espressioni che troviamo nel libro dell’Apocalisse, “Vieni presto” “Maranatha” “Sì, Vengo presto” sono messe alla prova dal passare del tempo. Passano giorni, mesi e anni, ma il Signore non ritorna. E questo produce nella comunità un certo rilassamento: la fede e la preghiera sono abbandonate, o trascurate, o comunque ridotte al lumicino.
Per certi versi potremmo paragonare questa situazione anche alla nostra epoca. Chi oggi afferma l’importanza di pregare sempre?
Non è forse vero che quelli che nella Chiesa si sono dati completamente a una vita di preghiera, come i monaci e le monache di clausura, li giudichiamo come extraterrestri?

Non è forse vero che nelle nostre comunità parrocchiali il fare di Marta sopravanza di molto allo stare di Maria? Che cioè talvolta sembra che essere cristiani significhi essere impegnati nei numerosi gruppi, nelle attività che si svolgono in parrocchia, e possibilmente attività pratiche, che abbiano una certa visibilità, che diano dei risultati?
Ovviamente non si tratta di sminuire il fare operoso che viene dall’amore, ci mancherebbe.
Eppure nel vangelo troviamo questo invito pressante, questo invito a riscoprire la necessità di pregare sempre senza stancarsi, di cui Gesù ci ha dato spesso l’esempio, quando si rifugiava di notte in luoghi solitari a pregare.
E vedete, vorrei sfatare anche un altro mito: non tutto ciò che facciamo in quanto cristiani è “preghiera”.
A volte si dice: io offro come preghiera la mia ora di volontariato.
Non è esattamente così: la tua ora di volontariato è bellissima e importantissima e devi continuare a farla, ma la preghiera è un’altra cosa: è spendere del tempo col Signore, è dedicare del tempo per stare con lui senza fare niente, senza altri scopi.
Un’idea troppo funzionale della religione, quella appunto che si verifica quando pensiamo che sia tutta una questione di fare: fare il catechista, fare l’animatore, fare il lettore, fare il capo scout, fare la zelatrice, può condurci a lungo andare a una spaventosa aridità interiore, a una frustrazione profonda quando sperimentiamo che le cose non vanno come vorremmo, quando siamo delusi dall’atteggiamento di un prete o di un fratello, quando vediamo che qualcuno sbaglia, tradisce, che gli altri non sono perfetti come noi pensiamo che dovrebbero essere...
Infatti quando abbandoniamo la preghiera, pian pianino abbandoniamo la fede.
Anzi, oso addirittura pensare che tanti giovani e adulti hanno abbandonato la fede, perchè nessuno ha mai insegnato loro a pregare. Forse hanno insegnato loro le preghiere, ma esse sono state soltanto delle belle formule. Non hanno mai sperimentato la bellezza di stare a tu per tu col Signore.
Riservare uno spazio nella nostra giornata alla preghiera corrisponde a ciò che facciamo nei nostri rapporti: se non abbiamo il piacere di stare con le persone che amiamo soltanto per il gusto di starci, cosa diventano i nostri rapporti? Rapporti funzionali, dove siamo sempre indaffarati a fare qualcosa, e dove però non c’è comunicazione profonda, dove i cuori non si aprono e le anime non s’incontrano.
Allora un primo passo da compiere è quello di riappropriarci dell’importanza della preghiera, che non è scontata e va custodita, perchè essa non produce nulla e quindi ci potrà sembrare di perdere tempo, di essere inconcludenti.
Una volta fatto questo passo, una volta entrati nel tribunale, secondo l’immagine della parabola, occorrerà poi insistere e ancora insistere.
J.-F. Millet - L'Angelus
Gesù paragona Dio a un giudice duro e scontroso, che non vuole ascoltare questa povera vedova. Sono tinte forti che non dobbiamo prendere alla lettera. Il Signore punta all’insistenza, al non arrenderci, ad avere il coraggio di gridare, di importunare, perchè se persino un giudice disonesto si fa piegare dall’insistenza, cosa non farà Dio verso i suoi eletti che gridano notte e giorno verso di lui?
La parabola vuole imprimerci fiducia nel fatto che il Signore non è sordo ai nostri lamenti e non è cieco davanti alle nostre necessità.
Ma vuole anche aprire il nostro sguardo: la preghiera non è semplicemente un meccanismo di richiesta, una macchinetta nella quale inseriamo un gettone per ottenere qualcosa. Essa è prima di tutto un rapporto di fiducia.
Se nei giorni scorsi il vangelo si chiedeva: Quando verrà il regno di Dio? ora il suo corrispettivo è: Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede?
Cioè, in altri termini: alla nostra domanda: Dove sono i segni di Dio nel mondo? Egli ci risponde: Dove sono i segni di Dio in te?
Immagine di Stefano Navarrini
Perciò la preghiera fa proprio questo: permette a Dio di lavorare il nostro cuore, affinché esso sia nuovamente plasmato e ci sia corrispondenza tra Lui e noi. Ci rendiamo conto che non sono le nostre parole a cambiare la sua volontà, ma che, come afferma la prima lettura, nel silenzio profondo che avvolge tutte le cose rendendole indistinte, la sua parola entra nella nostra storia per rischiararla dal di dentro, per trasformarla, rimodellarla, perchè siamo finalmente obbedienti, perchè noi, suoi figli possiamo essere preservati sani e salvi.
Questa è stata l’esperienza di Maria: ha permesso alla Parola del Padre di incarnarsi nella sua vita. Ha fatto sì che essa potesse scendere al nostro livello, diventare uno di noi, perchè noi potessimo partecipare della sua stessa natura.

Preghiamo perchè avvenga questo nella nostra vita e siamo capaci di perseverare nella preghiera senza stancarci.