«Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”»
«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
Le parole di Gesù nel Vangelo di quest’ultima domenica cadono sempre provvidenzialmente a proposito dopo la notizia di un uomo, una persona, un prete che si è tolto la vita.
La vita dell’apostolo, inviato a portare la pace nelle case e ad annunciare la vicinanza e la presenza di Dio in Gesù Cristo, è diventata nei secoli qualcosa di molto più complicato.
Mi viene in mente Alfred Loisy, il quale, certamente esagerando ma non con una certa dose di verità, scriveva: «Gesù ha annunciato il Regno ma invece è arrivata la Chiesa».
La nostra vita di preti oggi è largamente occupata da borsa, sacca, sandali e saluto alla gente.
Borsa e sacca, perché dobbiamo gestire dei beni, chiese, case parrocchiali, altre attività come scuole materne, case di riposo o altro (opere che altri fanno più e meglio di noi…), spesso con pochissime risorse: le offerte non bastano e le rette spesso sono al di sotto del fabbisogno, perché noi si accoglie tutti, o almeno si cerca… e allora si creano le preoccupazioni: bollette, stipendi, tasse, imposte, ristrutturazioni, approvvigionamenti…
Sandali, perché siamo costretti ad assumerci sempre più “ruoli” e “servizi”: due, tre parrocchie; due, tre uffici diocesani; insegnamento; oratorio; e facciamo chilometri in auto, e saltiamo da un altare all’altro la domenica senza neanche il tempo di fermarci per un dialogo o una carezza a un bambino.
Salamelecchi con la gente, perché spesso, pur di non litigare o avere seccature, accontentiamo qualunque richiesta, oppure se talvolta ci irrigidiamo su una decisione, perché pensiamo sia giusta e ce ne assumiamo la responsabilità, veniamo bombardati da accuse, offese, chiacchiere, quando non calunnie. Diventiamo presto i preti “cattivi” al contrario di qualche altro confratello “buono” e accomodante.
Un tempo il prete viveva in genere con almeno uno o due membri della propria famiglia, aveva relazioni “normali”, familiari appunto. Questo era un male o un bene? Non so… Oggi ci abituiamo a vivere da soli, a lavorare da soli, a mangiare da soli, a sbagliare da soli. Senza nessuno che si accorga, appunto, del nostro umore, delle nostre sciocchezze, e neanche delle nostre esigenze…
Inoltre, un tempo il prete aveva un ruolo sociale riconosciuto, come altri, il dottore, il maresciallo, la maestra, il sindaco…
Oggi dobbiamo “conquistarci” la benevolenza della gente, dobbiamo lottare per raggiungere compromessi con la gente, sempre al ribasso, perché alla fine non abbiamo voglia di condurre battaglie sui padrini, o sulla data della comunione o della cresima in parrocchia…
La gente spesso ci sfida… Dobbiamo gestire opere di cui non vediamo più l’utilità…
Certo, il Signore ha promesso cento volte tanto quel che abbiamo lasciato, insieme a persecuzioni… ma persecuzioni per cosa, a ben vedere? Per la fede in lui? O perché ci si vuole rispettosi delle tradizioni, sacerdoti che devono solo occuparsi di accendere le candele dell’altare?
E così... altro che rallegrarci perché il nostro nome è scritto nei cieli!
Non condivido il fatalismo e l’individualismo – nel quale, peraltro, in quest’epoca, tutti noi, preti compresi siamo immersi – di chi dice: «Fai quel che puoi e cercati qualche amico con cui condividere, perché il presbiterio ideale non esiste, il vescovo ideale non esiste, la parrocchia ideale non esiste».
Lo so benissimo che non esiste la Chiesa del Mulino Bianco, come non esiste la famiglia del Mulino Bianco.
So benissimo che anche noi preti tra noi siamo homo homini lupus, ma io non mi sono fatto prete per giocare al ribasso, per insegnare alle persone ad “accontentarsi”. Mi sono fatto prete perché credevo, e credo, e lo dico a denti stretti, che il Vangelo è un modo differente di vivere. E questo annuncio a chi si sposa, ai bambini, ai giovani, ai preti: prendi il largo! Non accontentarti di quello che la società ti dice, di giocare al ribasso, che tanto nulla mai cambierà.
Io non voglio rinunciare a cercare un volto di Chiesa che esprima sempre più e sempre meglio la vicinanza di quel Regno che Gesù ci ha portato e che devo annunciare, e che mi produce la gioia inconfondibile che il mio nome è scritto nei cieli, cioè che la mia vita è nelle mani di Dio, che è un padre amorevole, cercatore di pecorelle smarrite e abbracciatore di figli ritornanti e di figli recalcitranti.
Il nostro ministero è ancora troppo impastato di ripetizioni, di feste che ogni anno sono uguali a sé stesse, di attività che a scadenza si ripresentano inesorabilmente, di appuntamenti da onorare sul calendario, di un’agenda da portare avanti perché si è fatto sempre così.
Io lo chiamo l’automatismo del “Noi canteremo gloria a te”, canto valido per tutte le stagioni e tutte le celebrazioni in ogni momento dell’anno, che ogni buon cristiano intona automaticamente per iniziare la Messa: lo odio così tanto (non me ne voglia l’Autore, non è colpa sua!) che nella mia parrocchia non si canta mai e non si trova neanche nel libretto dei canti.
Ho avuto la fortuna di conoscere preti di molte diocesi d’Italia e anche oltre…
Spesso storie tristi, pretese assurde verso il vescovo, gente patologicamente psichiatrica… persone veramente disturbate… insieme anche a persone che hanno vissuto una vita silenziosa e umile, senza grandi scossoni, a persone che hanno fatto tanto bene agli altri…
Il problema è che se noi non crediamo più nel presbiterio, l’alternativa qual è? L’individualismo esasperato? e allora la Chiesa cos’è? Un insieme di individui che fanno un percorso personale? È questo che insegniamo ai giovani e ai bambini? Non penso.
A me i miei preti e le mie catechiste hanno insegnato un amore grande, consapevole, certo non un’illusione, ma un’attenzione a tutti, un’accoglienza senza distinzioni, un dialogo autentico, la sincerità nei rapporti… il senso di dover collaborare, e di avere un unico obiettivo… Non a salvarmi da solo…
Anche noi preti siamo uomini, con tutte le contraddizioni e le moltitudini che conteniamo, come ogni persona. E di questo dobbiamo ricordarcene sempre per curare noi stessi, per curarci degli altri, per chiedere che anche gli altri (specialmente chi ha responsabilità superiori) si curi di noi.
Per questo la morte tragica di un uomo, e per giunta di un confratello, è sempre un colpo al cuore, e deve chiamarci e richiamarci a una maggior attenzione.
Nessun uomo è un’isola,
completo in sé stesso;
Ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
la Terra ne sarebbe diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa.
Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.
(John Donne)