Era così mons. Orrù, molto diretto, sorridente, ci conosceva per nome, faceva delle battute e intanto seminava il germe della vocazione. Il suo motto, sullo stemma e nella vita, era “Dilatentur spatia Charitatis” (Si allarghino gli spazi dell'amore), una frase di Sant’Agostino che ho sempre amato.
E così ogni anno, al rientro per le vacanze natalizie, facevamo tappa in episcopio per il pranzo con i seminaristi: prima una chiacchierata nel suo studio per sapere come andava e poi ci faceva preparare un vero pranzo natalizio.
Non mancarono negli anni anche alcune incomprensioni, dovute a piccolezze e subito ricomposte.
Celebrando il rito di ammissione nel 2002 mi disse tra le altre cose: «Questo si attende il popolo, che il presbitero sia un uomo di Dio, come la Chiesa oggi intende, e sempre immerso nel gran mare delle vicende umane, senza dimenticare nessuna persona affidatagli, specialmente i più poveri e bisognosi. C’è necessità ancora oggi, di uomini scelti tra il popolo per mettersi al suo servizio, perché Dio vuole aver bisogno degli uomini per evangelizzare e incontrare il suo Israele; ha bisogno ancora di profeti che siano testimoni dell’amore di Dio e della Nuova Alleanza sigillata nella Croce di Cristo, di uomini che siano scelti e mandati da Lui, segno che Dio non si è ancora stancato del suo popolo e che è fedele alle sue promesse. […] Il cammino e la strada del presbitero non è per nulla facile, né tantomeno votato al borghesismo di una vita tranquilla, che nulla ha a che fare col mandato che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli, tantomeno ci è promessa la riuscita. Il cammino è certamente in salita e questo tuo primo “eccomi”, Marco, è appunto il primo di tanti “eccomi” che sarai chiamato a dire al Signore».
Poi nel 2003 decise di mandarmi a studiare a Roma… non convintissimo e dopo mille rassicurazioni sul mio “ritorno” appena terminati gli studi, anche perché lui oramai era in scadenza, avendo compiuto i 75 anni canonici e non voleva ipotecare il suo successore.
E quindi la mia ordinazione diaconale il 5 gennaio 2004, con qualche nostalgia, perché era la sua ultima ordinazione da vescovo titolare: fu contento, anche se già provato dalla salute precaria.
Esattamente un mese dopo, con l’elezione di mons. Dettori, divenne emerito, ma volle comunque essere presente anche alla mia ordinazione presbiterale, e fu per me una grande gioia.
Vorrei ricordarlo soprattutto per aver recuperato un sacerdote diocesano, mio predecessore a Sa Zeppara, don Cabiddu: questi era un prete un po’ “particolare” che a un certo punto verso metà degli anni ’70 andò via e interruppe qualunque contatto con la diocesi, senza che nessuno sapesse dove fosse finito.
Mons. Orrù, che era stato suo compagno di seminario a Cuglieri, negli anni lo cercò senza risultati, fino a quando sfogliando il giornale lesse di un incidente accaduto in un condominio nell’hinterland di Cagliari: un uomo, di cui il giornale riportava le iniziali, era caduto nel vano dell’ascensore, riportando diverse fratture. Il vescovo capì che era lui e andò a trovarlo in ospedale. La leggenda narra che entrando nella sua camera gli disse in sardo: «Giuseppi, seu Antoninu Orrù» (Giuseppe, sono Antonino Orrù).
Dopo un po’ di tempo riuscì a riabilitarlo completamente facendogli celebrare anche il 50° anniversario di ordinazione, e alla sua morte gli fece un bel funerale da prete con tutti i crismi.
Era il pastore che fino alla fine era andato in cerca della pecora smarrita.
Il Pastore grande delle pecore ti accolga nel suo regno, caro mons. Antonino!
bei ricordi generano futuro
RispondiEliminaGrazie!
RispondiEliminaDalla sua testimonianza non ci sono dubbi che fosse un vero uomo di Dio e delle anime, una testimonianza da imitare
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