sabato 7 marzo 2020

Gesù si fidava del Padre suo (ma conosceva la forza di gravità)


È passata soltanto una settimana dal Vangelo di domenica scorsa, eppure molti cristiani sembra non l’abbiano neppure sentito. Vi si accenna, se ben ricordate, alle tentazioni che Gesù subisce nel deserto, dove a un certo momento il diavolo lo porta sul punto più alto del Tempio di Gerusalemme (sul pinnacolo, si diceva ai miei tempi) e gli intima di gettarsi giù, ché tanto Dio darà ordine ai suoi angeli che lo sostengano perché non si sfracelli.
Botticelli, Le prove di Cristo
E cosa fa Gesù? Non si butta!

Avete sentito bene: NON SI BUTTA. Con la scusa bella e buona che non bisogna tentare Dio!
Oh perbacco: questo Gesù è ben strano! Dice che basta una fede grande come un granello di senape per spostare le montagne, e poi, quando tocca a lui, davanti a una prova così, ma che dico prova, a una bazzecola... non ha fede nel Padre?
Vuoi vedere che conosceva la forza di gravità?
Scusate se la butto in barzelletta, se non fosse che è una cosa seria: la fede non si oppone alle leggi della natura, né alla forza di gravità, né alle possibilità di contrarre una malattia molto contagiosa, soprattutto per gli immunodepressi, per le persone con patologie cardiache, respiratorie, polmonari, etc.
Quindi per favore, smettetela di improvvisarvi teologi, scienziati, tuttologi del web, ricevitori di messaggi della Madonna e seguite le regole che vi vengono chieste. Sono semplici: lavarsi bene le mani, non stare in luoghi affollati, non toccarsi, non baciarsi, non abbracciarsi, prendere la comunione sulle mani, evitare il più possibile di uscire...
Non vi si chiede tanto: un piccolo sforzo per alcune settimane. Possiamo farcela.

Sarà gustoso per tutti, ma sarebbe oltremodo utile a certi campioni dell'ortodossia che parlano a sproposito sul web rileggere con profitto il cap. XXII di quella miniera infinita di bellezza che sono I Promessi Sposi, dove il cattolicissimo Alessandro Manzoni, dopo aver tessuto per filo e per segno le lodi del cardinale Borromeo, afferma:
Cardinal Federigo Borromeo

«Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, nè allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perchè non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre». (Cap. XXII)

E poi anche quell’altro capitolo dove racconta della Processione che a tutti i costi i maggiorenti della Città di Milano vollero fare portando a spasso il taumaturgico corpo mortale di San Carlo Borromeo, processione alla quale il cardinal Federigo accondiscese dopo molta insistenza.

«Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, nè altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto,” dice uno scrittore contemporaneo, “l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sè.» 

E infine il giudizio che ne da lo stesso Manzoni raccontando i dubbi sul Cardinal Federigo, il quale credette veramente che la peste si propagasse per l’opera di untori non meglio determinati, fino alla sua lapidaria conclusione «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune»

Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. “Era opinion comune,” dice a un di presso, “che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate.” 
Alessandro Manzoni
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. “Ho trovato gente savia in Milano,” dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, “che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e [p. 623 modifica]non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.” Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. (Cap. XXXII)

Meditate, gente, meditate!

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