venerdì 24 agosto 2018

Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te

Mi piacerebbe che entrando in parrocchia i parrocchiani trovassero scritte a caratteri cubitali le parole che John F. Kennedy pronunciò il giorno del suo insediamento come presidente degli Stati Uniti d’America: “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”.
Che smettessimo di pensare alla nostra parrocchia come un supermercato o uno sportello di servizi dove acquistare la Messa, il certificato, il catechismo, il battesimo per mio figlio, il funerale per la nonna.
La parrocchia non è un supermercato e non è uno sportello bancomat, è una comunità. San Paolo parla della Chiesa come di un corpo, composto di molte membra, nel quale evidentemente ognuno ha un suo compito specifico... in fondo anche il sedere serve... a sedersi!
Se fossi parroco cercherei di impegnarmi perché tutti potessero trovarsi bene, a proprio agio in parrocchia, in chiesa, alla Messa e nelle varie attività di culto e non.
Ma non vorrei mai che questo diventasse un coccolarci tra di noi, un farci le fusa a vicenda, ma piuttosto diventasse un trampolino di lancio (“Guardate come si amano!”), perché usciti fuori tutti diventassimo missionari, in famiglia, a lavoro, a scuola, nella società: impegnati a portare Cristo al Mondo, per le strade.
Per troppo tempo abbiamo inteso la fede come fonte di benessere personale, la Messa come un momento in cui mi estraneo dalla realtà, le feste come occasioni per stare insieme.
Ma la fede è un modo diverso di guardare il mondo, la realtà, la storia, gli uomini, e quindi è un modo diverso di vivere, semplicemente.
Di coloro i quali Gesù ammira la fede nei vangeli, in fondo, cosa ammira? Ammira che sono capaci di vedere l’invisibile: la guarigione nella malattia, la vita nella morte, Dio in lui.
Dunque mi piacerebbe che la smettessimo di pensare a come fare per essere visibili, a fare attività, eventi, cose.
Essere cristiani implica prima di tutto che nello spazio delle mie relazioni io mi riconosca prossimo di chi mi sta attorno, e se io mi riconosco prossimo, non mi chiedo: “Cosa può (o peggio cosadeve) fare la mia parrocchia per me”, ma piuttosto: “Cosa sono disposto a fare per la mia parrocchia?”
Il che non significa che tutti devono diventare catechisti, o cantori, o responsabili di non so quale sottogruppo.
Ma che tutti si sentano responsabili, che nessuno pensi che la parrocchia è un distributore di sacramenti o altro.
Tutti sono bene accetti, anche quelli la cui motivazione non fosse così limpida: ma proprio questi, nell’entrare in parrocchia, dovrebbero percepire che si vive in un modo diverso, che questa parrocchia è diversa, che qui non ci si sfrutta, non si prevarica, non si gioca a farsela pagare o a creare tensioni inutili, non ci si ritaglia il proprio angolo di potere.
Allora forse, anche chi è venuto soltanto a cercare un un “servizio” potrebbe essere attirato da un modo diverso di vivere, e potrebbe cominciare a chiedersi: “Cosa posso fare io per la mia parrocchia?”.
Questa domanda diventerebbe presto più grande: “Cosa posso fare io per la Chiesa?” e poi “Cosa posso fare io per il mondo?” e infine: “Cosa posso fare io per il regno dei cieli?”.
E qui non si finirebbe più di essere creativi, di vivere il Vangelo, di farlo conoscere fino agli estremi confini della terra.
Fino ad allora faremo tante cose, Messe, processioni, sacramenti, funerali, feste, oratori.
Ma saremo solo uno sportello di servizi. E mi pare che Gesù guardasse un po’ più avanti, quando chiamò i suoi discepoli “perché stessero con lui e anche per inviarli a predicare”.

Nessun commento:

Posta un commento