Dopo
la prima sconvolgente notizia, ricevuta al cellulare con un messaggio
inviato da un amico, rifletto sulle dimissioni del papa.
Devo
confessare che uno dei pochi libri che rileggo quasi ogni anno è
L’avventura di un povero cristiano,
nel quale Ignazio Silone narra il dramma interiore di Celestino V,
papa medievale che abdicò anch’egli a causa della debolezza e
dell’età.
C’è
un passo che mi ha sempre colpito. Mentre Pier Celestino, che ormai
ha abdicato, parla con il suo successore Bonifacio VIII, dice queste
parole: «Se il cristianesimo viene spogliato delle sue cosiddette
assurdità per renderlo gradito al mondo, così com’è, e adatto
all’esercizio del potere, cosa ne rimane? Voi sapete che la
ragionevolezza, il buonsenso, le virtù naturali esistevano già
prima di Cristo, e si trovano anche ora presso molti non cristiani.
Che cosa Cristo ci ha portato in più? Appunto alcune apparenti
assurdità. Ci ha detto: amate la povertà, amate gli umiliati e
offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della
carriera, degli onori, sono cose effimere, indegne di anime
immortali».
Mi
pare sia tutto qui il succo di questa abdicazione: l’umiltà. E
siccome nella fede e nella chiesa le lezioni migliori non sono quelle
fatte dalla cattedra, ma quelle della vita, mi pare di vedere qui la
migliore lezione di papa Benedetto.
Il
papa ci ha insegnato, con l’ultimo suo atto magisteriale, che ogni
ministero nella Chiesa non è dato alla persona in proprietà
esclusiva, e che tutti, ministri ordinati e laici, siamo chiamati a
non viverlo come un potere assoluto, come se nessuno potesse metterlo
in discussione e col sospetto che qualcuno possa scalzarci.
L’umiltà
consiste piuttosto nel lavorare sapendo di essere servi
e di non avere nulla da temere dal servizio, dalla prestanza, dalle
capacità e dalla forza di altri.
Ogni
lettura millenaristica, sia a livello di Chiesa universale, sia nella
più piccola comunità, è fuori luogo e antievangelica.
Discorsi
sulla scia del «Come faremo ora?» non hanno senso in una
prospettiva di servizio, perché, come ricordava Pier Celestino,
preoccuparsi del potere, della carriera, degli onori, è indegno di
anime immortali. Il servizio è un'altra cosa!
E
tutti quelli che pensavano che Benedetto XVI fosse un ingenuo
esibizionista autoreferenziale, sbagliano di grosso.
È
pur vero che tanta gente comune, a tutti i livelli, non capisce
queste dimissioni da una così grande responsabilità. Esse restano
un’assurdità agli occhi del mondo.
Ed
è bene che siano tali, come le parole di Gesù, come gesti epocali
di tanti cristiani più o meno altolocati, in altri momenti storici.
Ogni
paragone con Giovanni Paolo II è indebito, perché c’è un
particolare: a differenza del suo predecessore, Benedetto XVI non è
malato. È evidente che dà le dimissioni da sano per evitare di
trascinare la chiesa in un tempo di ansia e quasi di asfissia.
E
dà un grande colpo proprio alla Chiesa (ma anche a tante istituzioni
laiche, prima fra tutte la politica), che per ragioni storiche e
antropologiche, oggi più che mai è una gerontocrazia, un governo di
vecchi, spesso attaccati alle loro poltrone.
E
dato che non compete né a me né a nessuno dare giudizi sulla bontà
di ciò che il papa ha deciso, posso solo dire che oggi ci ha dato
una grande, gigantesca lezione in almeno due punti: ogni servizio
nella Chiesa può essere revocabile e modificabile (quello del papa,
figuriamoci quello di un parroco, di un catechista, di un
operatore... e questo non è un dramma!), perché la Chiesa è retta
dalla forza dello Spirito del Cristo Risorto, il quale non la
abbandona mai.
E
poi ci ha insegnato che il primato della coscienza personale in ogni
decisione è fondamentale e non coercibile. Cioè che una persona è
tenuta a fare ciò che ha deciso in coscienza, perché quella è
volontà di Dio che parla al cuore dell'uomo. Una coscienza
rettamente formata, evidentemente.
Di
fronte a possibili pressioni, Benedetto non si è fatto tirare per la
giacchetta, mostrando a tutti uno stile inconfondibile e poco
imitato.
Grazie
papa Benedetto e lunga vita a Joseph Ratzinger!
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