Il noto farmacologo Gian Luigi Gessa commenta sull’Unione Sarda del 15 aprile la morte per eutanasia in Svizzera del suo amico Giuseppe Bartholini, a sua volta farmacologo e inventore di alcuni farmaci fondamentali nella cura del Morbo di Parkinson.
Un misto di pietà e rigore scientifico, di boutades e considerazioni filosofico-teologiche che meriterebbero ben altri temi.
Certo c’è la vicinanza dell’amico, la consapevolezza di non poter attenuare il dolore nella malattia, il ricordo dei tempi che furono in vacanza in Sardegna a fumare Avana.
Al netto di queste considerazioni però si impone una domanda: un medico può dare la morte a un suo paziente, seppure sia quest’ultimo a chiederla?
Il fatto che i medici siano per statuto a favore della vita, della cura integrale della persona (e non soltanto della somministrazione di terapie farmacologiche) dovrebbe indicarci subito la risposta: no, un medico non può somministrare farmaci che portino direttamente alla morte del suo paziente, per quanto esso li chieda e di qualunque genere siano le sue patologie. Non è mai lecito uccidere qualcuno.
Da molto tempo ormai la Chiesa concede i funerali ai suicidi, e ha parole di conforto e comprensione, perché ha capito che dietro una grande sofferenza si deve stagliare sempre il silenzio del non-giudizio. Ma tuttavia diciamo che il suicidio è un male, che mai nessuno dovrebbe arrivare a tal punto da desiderare di morire, e che se uno lo fa era probabilmente disperato. È per questo che abbiamo comprensione.
Ma quando tutto viene fatto a tavolino, in un’asettica clinica svizzera, possiamo davvero dirci tranquilli?
Senza voler scomodare a tutti i costi l’eugenetica, possiamo davvero essere sicuri che praticare l’eutanasia sia la migliore risposta alla malattia grave e invalidante?
Sono questioni drammatiche, davanti alle quali occorre molta prudenza. Sdoganare l’eutanasia come “una pratica ancora proibita in Italia”, quindi in fondo proponendo l’idea che prima o poi sarà permessa, non è però il modo migliore di affrontare la questione del fine vita, delle malattie gravi, del dolore e della sofferenza.
Noi pensiamo che di fronte alla sofferenza di una malattia incurabile sia meglio assistere, accompagnare, sviluppare l’accesso alla terapia del dolore (ancora sconosciuta spesso e poco utilizzata!), dare concretamente alla persona malata un contesto dove vivere gli ultimi giorni circondata dagli affetti più cari, con tutta l’assistenza necessaria, ospedaliera o domiciliare.
Una sanità pubblica degna di questo nome dovrebbe puntare a questo, non all’eutanasia.
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