Ez 47,1-9.12
Gv 5,1-16
L'eucaristia
guarisce dalla paralisi e rimette in cammino
Trentotto
anni non sono uno scherzo. Chissà a che età si sarà ammalato
quest'uomo, ma trentotto anni sono una vita. Una vita paralizzato.
Una
vita solo. Pensate la tragedia di quest'uomo. Ci è più che lecito
pensare che Gesù adolescente, quando discusse coi dottori del
tempio, dovette incontrarlo alla Porta delle Pecore, che era la Porta
di fronte alla quale si trovava la piscina nella quale venivano
lavati gli agnelli per il sacrificio (detta appunto piscina
probatica, in ebraico
Betzatà= casa della
misericordia).
Questa
piscina, forse per l'uso sacrale che se ne faceva, aveva fama di
portare la guarigione a chiunque vi si immergesse per primo quando
l'acqua si agitava.
Capite
la frustrazione di quest'uomo paralizzato, che davanti alla domanda
di Gesù: «Vuoi diventare sano?», risponde sconsolato: «Hominem
non habeo», non ho nessuno che mi immerga.
Quest'uomo,
oltre che paralitico è solo. Folle di persone sono passate davanti a
lui, ma nessuno si è fermato con lui. Trentotto anni così.
Ora
qui noi saremmo tentati di vedere nel gesto di Gesù un gesto di
misericordia e di attenzione al prossimo, e certamente c'è anche
questo.
Ma
Gesù qui fa un gesto che lo pone in contrasto con i capi del popolo:
compie questa guarigione in giorno di sabato e comanda all'ex
paralitico, che neppure lo conosce, di prendere la sua barella e
camminare, cioè di compiere un lavoro in giorno di sabato.
Allora
siamo davanti a questo: il problema non è che Gesù guarisce, ma che
guarisce in un giorno che è dedicato a Dio, giorno nel quale bisogna
astenersi dagli sforzi. Gesù mette in discussione usanze
fossilizzate che non sono più capaci di riconoscere l'intento
originario di Dio nel comandare il riposo sabbatico. Intento
originario che era quello di una vita appagante dell'uomo nel suo
rapporto con Dio.
Quest'uomo
per trentotto anni ha passato, potremmo dire, un lungo sabato come lo
intendevano i giudei: non si è mosso mai a causa della sua
infermità.
Ora
ci è facile pensare a tutte quelle situazioni di paralisi che ci
colpiscono, che colpiscono tante persone che conosciamo, che forse
non sono paralisi fisiche, ma morali. Che ci intrappolano nei nostri
comportamenti, nei nostri modi di ragionare e di giudicare. Che ci
bloccano e non ci consentono di vivere un rapporto appagante con Dio
e con i fratelli.
Le
cause sono più diverse: peccato, traumi, ignoranza, mancanza di
guida. Eppure siamo bloccati.
Gesù
passa anche davanti a noi e ci chiede se vogliamo diventare sani. Lo
fa spesso sotto mentite spoglie, senza essere immediatamente
riconosciuto. Lo fa attraverso la parola di un amico, la lettura di
un libro, un film, uno spettacolo naturale.
Chiede
al più profondo del nostro cuore: Ma tu vuoi essere sano? Vuoi
poterti sbloccare?
E
davanti al nostro lamento, che nessuno ci aiuta, lui intima al nostro
cuore: Alzati e cammina!
La
forza taumaturgica della sua Parola è in grado di risollevarci.
Misteriosamente
ma realmente.
In
agguato però c'è sempre il peccato, quello da cui Gesù mette in
guardia l'ex paralitico: «Non peccare più perchè non ti accada
qualcosa di peggio!».
La
nostra salute/salvezza, il nostro camminare da cristiani è sempre
sottoposto alla tentazione, all'apertura della nostra libertà.
C'è
un momento nella vita in cui diciamo: Non ho nessuno che mi salvi,
che mi guarisca. Giaccio nella mia paralisi, nella mia chiusura,
nella mia tristezza, magari da tanto... ci sono tristezze che ci
accompagnano per tutta la vita!
Finché,
talvolta in sordina, arriva una parola a risollevarci.
Avremo
il coraggio di rialzarci e vincere il giudizio degli altri che ci
dicono: Perché ti sei rialzato? In fondo, non potevi aspettare
ancora, almeno un giorno?
Penso
che talvolta il nostro permanere in certi peccati e in certe paralisi
sia dovuto alla nostra paura del giudizio degli altri.
Davanti
a questa paralisi l'Eucaristia è il sacramento che ci rimette in
cammino, che non ci lascia nella nostra paralisi.
Ma
ci crediamo davvero? Anni, decenni di comunioni forse non hanno
scalfito neanche un po' certi lati del nostro carattere, certi
peccati che facciamo a ripetizione. Perché?
Perché
in fondo, diciamolo, ci piace stare su quella barella a chiedere
l'elemosina. Troviamo giustificazione anche ai nostri peccati, alle
nostre incongruenze, alla nostra pigrizia a volerci alzare.
Perché
guarire richiede una responsabilità, richiede di essere interrogati
e accusati dai capi di turno: «è sabato e non ti è lecito portare
la tua barella». Guarire, essere salvati, suscita sempre una
responsabilità: cioè una chiamata a rispondere, a renderci
respons-abili, appunto.
Essere
guariti dal peccato ci rende abili a rispondere alla vita col bene
piuttosto che col male.
L'eucaristia
allora deve diventare responsabilizzante per noi: abbiamo ricevuto la
vita di Dio in noi, abbiamo ricevuto il suo perdono. Che ne facciamo?
Accettiamo
che il mondo ci dica: non è bene che tu perdoni, non è bene che tu
cerchi vie di pace, non è bene che tu ami, che tu faccia il bene,
invece fatti scaltro, frega, offendi, non perdonare, non farti
mangiare la pastasciutta in testa... Sii uno che si fa valere, che
dice sempre l'ultima parola...
Avremo
il coraggio, uscendo da questa eucaristia e da ogni eucaristia, di
essere responsabili del dono ricevuto? A comprendere, che quando Gesù
ci dice: «Alzati, prendi la tua barella e cammina» ci sta dicendo:
Guarda che sei guarito, ora non è più la tua barella, il segno
della tua infermità, a portare te, ma tu puoi portare lei come un
segno di salvezza. Ci sta dicendo, se lo vogliamo accogliere: Non è
più il tuo peccato a portare te, ma tu puoi prenderlo in mano, hai
potere su di lui!
Ogni
eucaristia è una iniezione di fiducia su di noi, una chiamata alla
responsabilità.
Usciamo
nuovi, perchè da oggi in poi non ci facciamo più dominare dal
peccato, dal male, ma cerchiamo noi di dominarlo. E per fare questo,
per chiedere e ottenere sempre questa grazia, ogni domenica
ritorniamo alla fonte della salvezza che ci rialza e ci mette in
cammino.
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