venerdì 16 giugno 2017

Laboratori della fede o musei delle cere?

Ieri, a conclusione dei corsi dell’Istituto di Formazione permanente a San Gavino, Alexandra Cabella ha letto queste parole dedicate all’Istituto, che vorrei brevemente commentare.

Qui
Qui troviamo ciò che nelle nostre comunità parrocchiali e civili non si trova più, se non molto di rado: il momento per l’approfondimento, il confronto, la condivisione di un pensiero e di un’esperienza che poi è capace di risuonare nelle menti degli altri anche a giorni di distanza.
Qui ci sentiamo nel posto giusto, nonostante viviamo in un’epoca dove niente è al suo posto e non si sa come farcela tornare… come far tornare la spiritualità nelle chiese? Gli amici in piazza invece che su facebook, la morte nel suo alveo naturale invece che sulla cronaca? Il confine come frontiera e non come fine-del-con?
Qui diventiamo persone migliori, anche più intelligenti nel senso etimologico del termine che è quello di saper leggere dentro… dentro le cose, le persone, i fatti.
Forse perché Qui c’è lentezza e il pensiero ha bisogno di questo tempo disteso per prendere forma e diventare capacità, progetto, azione fuori di Qui.
Qui ridiamo il nome alle cose. Anche a quelle che ormai, per abitudine o pigrizia pensavamo significassero altro.
Qui le parole peccato, perdono, misericordia, famiglia, carità cristiana, liturgia, Chiesa, comunione assumono il loro vero significato.
Qui parliamo di Dio e non intorno a Dio.
Qui qualcuno ci ricorda che in un giorno ci sono 12 ore di luce e 12 ore di buio e che dobbiamo viverle tutte e 24 le ore per dirci vivi. Il buio è fuori ed è dentro di noi, ma anche la luce è fuori ed è dentro di noi… basta accenderla e non farsela spegnere da nessuno.
Qui c’è attenzione e rispetto per tutti.
Qui qualcuno inizia un pensiero che ognuno di noi poi finisce di pensare.
Qui, una volta trovata una possibile risposta, si riparte con una nuova domanda in attesa di un’altra ispirazione che ci faccia progredire nel cammino di ricerca di senso.
Grazie infinite a Don Antonio Pinna, a tutti i docenti e ai compagni di viaggio e di caffè per quest’anno trascorso Qui.

Diciassette anni fa papa Giovanni Paolo II parlando a Tor Vergata ai giovani riuniti per il loro giubileo (sì, siamo stati giovani anche noi!) disse altre parole molto interessanti, che lanciavano un’idea, un input, ma che a me pare siano cadute nel dimenticatoio:

Voi chi dite che io sia?”. Gesù pone questa domanda ai suoi discepoli, nei pressi di Cesarea di Filippo. Risponde Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt16,16). A sua volta il Maestro gli rivolge le sorprendenti parole: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17).
Qual è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sentire ciò che gli uomini pensano di Lui? Perché vuol sapere che cosa pensano di Lui i suoi discepoli?
Gesù vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo stesso tempo, tuttavia, egli sa che il giudizio che manifesteranno non sarà soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori con la grazia della fede.
Questo evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un certo senso nel “laboratorio della fede”. Vi si svela il mistero dell'inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio all’uomo. Segue poi la chiamata a dare una risposta. Infine, c’è la risposta dell'uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita.
[...]
Nelle Letture dell’odierna Liturgia troviamo descritti gli elementi di cui si compone quel “laboratorio della fede”, dal quale gli Apostoli uscirono come uomini pienamente consapevoli della verità che Dio aveva rivelato in Gesù Cristo, verità che avrebbe modellato la loro vita personale e quella della Chiesa nel corso della storia. L’odierno incontro romano, carissimi giovani, è anch’esso una sorta di “laboratorio della fede” per voi, discepoli di oggi, per i confessori di Cristo alla soglia del terzo millennio.
Ognuno di voi può ritrovare in se stesso la dialettica di domande e risposte che abbiamo sopra rilevato. Ognuno può vagliare le proprie difficoltà a credere e sperimentare anche la tentazione dell’incredulità. Al tempo stesso, però, può anche sperimentare una graduale maturazione nella consapevolezza e nella convinzione della propria adesione di fede. Sempre, infatti, in questo mirabile laboratorio dello spirito umano, il laboratorio appunto della fede, s’incontrano tra loro Dio e l'uomo. Sempre il Cristo risorto entra nel cenacolo della nostra vita e permette a ciascuno di sperimentare la sua presenza e di confessare: Tu, o Cristo, sei “il mio Signore e il mio Dio”.


Cattedrale di Sainte Foy - Conques
Papa Giovanni Paolo usò questa felicissima immagine del “laboratorio della fede” per descrivere la dinamica interiore (ma anche esteriore) della fede: non una realtà preconfezionata, ma un continuo esperimento, fatto di elementi che combaciano e si uniscono e di altri che contrastano e si separano... una maturazione appunto, che richiama la lentezza del germoglio, del fiore, del frutto... È inutile che tu afferri la piantina e cerchi di tirarla su per farla crescere: otterrai l'unico risultato di sradicarla... Occorre invece innaffiarla, zappettarla, metterla in una giusta angolazione solare, difenderla dagli afidi...
Mentre Alexandra parlava mi è tornata in mente l’immagine del “laboratorio della fede”, perchè le nostre parrocchie e tutte le realtà ecclesiali dovrebbero essere questo laboratorio. Più che un supermercato del sacro, come oggi sono spesso ridotte. Un laboratorio dove si va per sperimentare e sperimentarsi, certo anche per trovare. Trovare la Parola di Dio e i Sacramenti, anzitutto, e così anche trovare i miei compagni di cammino in questa sperimentazione da laboratorio.
La parola “laboratorio” contiene la parola “lavoro”, che significa anzitutto “fatica”, fatica del cercare, dello scavare. Fatica del calare le reti senza pescare nulla. Fatica della zappatura, “ancora per un anno”, fatica del non avere un cuscino sul quale poggiare la testa.
Senza fatica non c’è fede, oserei dire. Fatica anche intellettuale del pensare, fatica affettiva dell’amare, fatica benedetta: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gn 3,19).
Gesù vuol sapere cosa i suoi discepoli pensino di lui... vuole che si schiariscano le idee e manifestino il loro cuore, ma sa anche che la loro risposta non è soltanto “loro” ma è anche dono di fede. Che fiducia ha Gesù nei suoi discepoli! Accidenti! E noi invece che sappiamo già tutto e diamo risposte a domande che nessuno ci fa...
Sarà possibile fare in modo che si passi da musei delle cere a laboratori della fede?
Dove si fanno meno “attività” e ci si attiva di più a sperimentarsi nella conoscenza del Signore? Ci si pongono delle domande, si suscitano interrogativi?
Sarà possibile rendere un po’ più vicina a noi la profezia di Giovanni Paolo II?
Roma - Museo delle Cere

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