Ieri,
a conclusione dei corsi dell’Istituto di Formazione permanente a
San Gavino, Alexandra Cabella ha letto queste parole dedicate
all’Istituto, che vorrei brevemente commentare.
Qui
Qui
troviamo
ciò che nelle nostre comunità parrocchiali e civili non si trova
più, se non molto di rado: il momento per l’approfondimento, il
confronto, la condivisione di un pensiero e di un’esperienza che
poi è capace di risuonare nelle menti degli altri anche a giorni di
distanza.
Qui
ci sentiamo nel posto giusto, nonostante viviamo in un’epoca dove
niente è al suo posto e non si sa come farcela tornare… come far
tornare la spiritualità nelle chiese? Gli amici in piazza invece che
su facebook, la morte nel suo alveo naturale invece che sulla
cronaca? Il confine come
frontiera
e non come fine-del-con?
Qui
diventiamo
persone migliori, anche più intelligenti nel senso etimologico del
termine che è quello di saper leggere dentro… dentro le cose, le
persone, i fatti.
Forse
perché Qui
c’è
lentezza e il pensiero ha bisogno di questo tempo disteso per
prendere forma e diventare capacità, progetto, azione fuori di Qui.
Qui
ridiamo
il nome alle cose. Anche a quelle che ormai, per abitudine o pigrizia
pensavamo significassero altro.
Qui
le parole peccato, perdono, misericordia, famiglia, carità
cristiana, liturgia, Chiesa, comunione assumono il loro vero
significato.
Qui
parliamo di Dio e non intorno a Dio.
Qui
qualcuno ci ricorda che in un giorno ci sono 12 ore di luce e 12 ore
di buio e che dobbiamo viverle tutte e 24 le ore per dirci vivi. Il
buio è fuori ed è dentro di noi, ma anche la luce è fuori ed è
dentro di noi… basta accenderla e non farsela spegnere da nessuno.
Qui
c’è attenzione e rispetto per tutti.
Qui
qualcuno inizia un pensiero che ognuno di noi poi finisce di pensare.
Qui,
una volta trovata una possibile risposta, si riparte con una nuova
domanda in attesa di un’altra ispirazione che ci faccia progredire
nel cammino di ricerca di senso.
Grazie
infinite a Don Antonio Pinna, a tutti i docenti e ai compagni di viaggio e
di caffè per quest’anno trascorso Qui.
Diciassette
anni fa papa Giovanni Paolo II parlando a Tor Vergata ai giovani
riuniti per il loro giubileo (sì, siamo stati giovani anche noi!)
disse altre parole molto interessanti, che lanciavano un’idea, un
input, ma che a me pare siano cadute nel dimenticatoio:
“Voi
chi dite che io sia?”. Gesù pone questa domanda ai suoi discepoli,
nei pressi di Cesarea di Filippo. Risponde Simon Pietro: “Tu sei il
Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt16,16).
A sua volta il Maestro gli rivolge le sorprendenti parole: “Beato
te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te
l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt
16,17).
Qual
è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sentire ciò
che gli uomini pensano di Lui? Perché vuol sapere che cosa pensano
di Lui i suoi discepoli?
Gesù
vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle
loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione.
Allo stesso tempo, tuttavia, egli sa che il giudizio che
manifesteranno non sarà soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò
che Dio ha versato nei loro cuori con la grazia della fede.
Questo
evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un certo
senso nel “laboratorio della fede”. Vi si svela il mistero
dell'inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia
della rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio
all’uomo. Segue poi la chiamata a dare una risposta. Infine, c’è
la risposta dell'uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare
senso e forma a tutta la sua vita.
Nelle
Letture dell’odierna Liturgia troviamo descritti gli elementi di
cui si compone quel “laboratorio
della fede”,
dal quale gli Apostoli uscirono come uomini pienamente consapevoli
della verità che Dio aveva rivelato in Gesù Cristo, verità che
avrebbe modellato la loro vita personale e quella della Chiesa nel
corso della storia. L’odierno incontro romano, carissimi giovani, è
anch’esso una sorta di “laboratorio
della fede”
per voi, discepoli di oggi, per i confessori di Cristo alla soglia
del terzo millennio.
Ognuno
di voi può ritrovare in se stesso la dialettica di domande e
risposte che abbiamo sopra rilevato. Ognuno può vagliare le proprie
difficoltà a credere e sperimentare anche la tentazione
dell’incredulità. Al tempo stesso, però, può anche sperimentare
una graduale maturazione nella consapevolezza e nella convinzione
della propria adesione di fede. Sempre, infatti, in questo mirabile
laboratorio
dello spirito umano, il laboratorio appunto della fede,
s’incontrano tra loro Dio e l'uomo. Sempre il Cristo risorto entra
nel cenacolo della nostra vita e permette a ciascuno di sperimentare
la sua presenza e di confessare: Tu, o Cristo, sei “il mio Signore
e il mio Dio”.
Cattedrale di Sainte Foy - Conques |
Papa
Giovanni Paolo usò questa felicissima immagine del “laboratorio
della fede” per descrivere la dinamica interiore (ma anche
esteriore) della fede: non una realtà preconfezionata, ma un
continuo esperimento, fatto di elementi che combaciano e si uniscono
e di altri che contrastano e si separano... una maturazione appunto, che richiama la lentezza del germoglio, del fiore, del frutto... È inutile che tu afferri la piantina e cerchi di tirarla su per farla crescere: otterrai l'unico risultato di sradicarla... Occorre invece innaffiarla, zappettarla, metterla in una giusta angolazione solare, difenderla dagli afidi...
Mentre
Alexandra parlava mi è tornata in mente l’immagine del
“laboratorio della fede”, perchè le nostre parrocchie e tutte le
realtà ecclesiali dovrebbero essere questo laboratorio. Più che un
supermercato del sacro, come oggi sono spesso ridotte. Un laboratorio
dove si va per sperimentare e sperimentarsi, certo anche per trovare.
Trovare la Parola di Dio e i Sacramenti, anzitutto, e così anche
trovare i miei compagni di cammino in questa sperimentazione da
laboratorio.
La
parola “laboratorio” contiene la parola “lavoro”, che
significa anzitutto “fatica”, fatica del cercare, dello scavare.
Fatica del calare le reti senza pescare nulla. Fatica della
zappatura, “ancora per un anno”, fatica del non avere un cuscino
sul quale poggiare la testa.
Senza
fatica non c’è fede, oserei dire. Fatica anche intellettuale del
pensare, fatica affettiva dell’amare, fatica benedetta: “Con
il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gn
3,19).
Gesù
vuol sapere cosa i suoi discepoli pensino di lui... vuole che si
schiariscano le idee e manifestino il loro cuore, ma sa anche che la
loro risposta non è soltanto “loro” ma è anche dono di fede.
Che fiducia ha Gesù nei suoi discepoli! Accidenti! E noi invece che
sappiamo già tutto e diamo risposte a domande che nessuno ci fa...
Sarà
possibile fare in modo che si passi da musei delle cere a laboratori della
fede?
Dove
si fanno meno “attività” e ci si attiva di più a sperimentarsi
nella conoscenza del Signore? Ci si pongono delle domande, si
suscitano interrogativi?
Sarà
possibile rendere un po’ più vicina a noi la profezia di Giovanni
Paolo II?
Roma - Museo delle Cere |
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