ELIA
DI TISHBI
(1Re
17-19)
Carissimo.
È passato molto tempo da quando ho messo
piede per l’ultima volta su questa terra, ma ho ancora vivo nel mio
pensiero il ricordo dei miei giorni terreni.
Furono anni di grande carestia, di
siccità tremenda: in tutta la terra d’Israele non si trovava più
né grano né olio, perchè non pioveva da tre anni e mezzo.
Io però ero fortunato: i corvi mi
portavano da mangiare mattina e sera, e mai mi mancò il cibo.
Quando
il fiume si seccò, Dio mi comandò di andare a Sarepta, in
territorio pagano, da una vedova che aveva un figlio. Ella aveva solo
un pugno di farina e un orcio di olio, e io le dissi di non temere, e
di preparare da mangiare. E così mangiammo, lei, il suo bambino ed
io, per molto tempo. E sperimentai, per la prima volta che
Dio è nel poco, e salva nel poco e con poco.
Che per lui non è più difficile venire
a capo delle situazioni difficili con poco, piuttosto che non con
molto. Questa è stata sempre la cifra della mia vita.
Così
quando il figlioletto di questa povera vedova si ammalò e morì,
chiesi a Dio di risuscitarlo, e mi stesi su di lui, corpo a corpo,
perché è soltanto quando ci si dà completamente, senza
risparmiarsi anche fisicamente, che la parola di Dio si realizza ed è
efficace, e non è soltanto flatus
vocis.
Quando fui mandato ad Acab, sapevo che
Gezabele era una sanguinaria e violenta, e tuttavia non ne ebbi
paura. Acab mi apostrofava chiamandomi “la rovina di Israele”, ma
in realtà la rovina erano lui e sua moglie, e tutti quelli che
adoravano gli idoli, che stimavano potenti gli amuleti, che credevano
di salvarsi attraverso il loro potere.
Io ero rimasto solo. Solo. Solo.
L’unico sulla faccia della terra a
continuare ad avere fede nel Signore.
E il Signore stette al mio fianco, quando
davanti ai profeti di Baal egli fece scendere il fuoco sul mio
giovenco e non sul loro, nonostante si dimenassero per ore, si
facessero incisioni, e gridassero al loro dio.
Così, nel mio zelo per Dio, diventai
anche io un sanguinario e li sgozzai senza pietà.
Ma fatti fuori loro, il popolo non
credette di nuovo in Dio. Tuttavia egli rispose alla mia preghiera
mandando la pioggia: era una nuvola, inizialmente, piccola come una
mano d’uomo, ma poi si tramutò in un temporale che risanò la
terra. Tutti si convertirono, tranne Acab e Gezabele, che mi cercava
per uccidermi.
Allora dovetti scappare, solo, ancora una
volta, rifugiandomi a sud, a Bersabea, ai pozzi di Abramo e di
Isacco. Andai nel deserto: volevo morire. Sai, la solitudine è
pesante a volte: chiedevo a Dio che mi mostrasse un segno, e non
ottenevo nulla. Mi chiedevo a che cosa servisse essere così zelante,
quando poi l’unico risultato era la persecuzione, l’affronto.
Certo offendevano lui, ma era con me che se la prendevano! Perciò
gli chiesi di morire. Ed egli, per tutta risposta, mi fece trovare
del pane e dell’acqua, e mi fece vagare nel deserto per quaranta
giorni e quaranta notti. Stette presente nella mia solitudine, mi
custodì invece che ascoltare i miei vaneggiamenti. Mi fece
attraversare la mia solitudine, facendomi entrare dentro me stesso,
facendomi arrivare alle sorgenti del mio rapporto con lui, dove non
valevano più gli effetti scenici, i miracoli, le guarigioni, ma
bisognava tendere l’orecchio. Lì sull’Oreb la sua presenza fu
delicata, il sussurro di una brezza leggera, ma io non vedevo altro
che la mia solitudine.
Mi sentivo solo, solo e ancora solo. E in
pericolo di vita.
Così il Signore mi diede un comando,
mandandomi a ungere il re di Aram e il nuovo re d’Israele, per far
fuori Acaz e Gezabele.
E mi incoraggiò dicendomi che non ero
solo come mi lamentavo, ma che ben settemila persone in Israele non
si erano piegate ai Baal. Capisci? Dovevo solo alzare gli occhi, non
ero solo! Ma il mio dolore mi aveva chiuso in me stesso.
Allora uscii e per prima cosa, vedendo
Eliseo, lo chiamai a diventare mio segretario, perchè in futuro
prendesse il mio posto.
Gli gettai addosso il mio mantello. Mi
pare che questa cosa sia importante: gettare addosso a qualcun altro
il proprio mantello, cioè trasmettere ad altri la passione per Dio.
Quando pensavo di essere solo avrei
voluto morire. Capii invece che dovevo fare fiducia in Dio e anche
negli uomini, che non tutti erano corrotti e malvagi, che il Signore
agiva non soltanto attraverso di me. Allora potei vedere più
chiaramente, ed Eliseo mi seguì sempre, e divenne profeta al posto
mio.
Infatti
sperimentai che c’è una solitudine sbagliata, e che un
uomo solo non ha chi lo rialzi quando cade.
Quando
si sta troppo tempo soli, poi, senza un confronto serio e onesto con
gli altri, si rischia di pensare di essere sempre nel giusto, si
rischia di non esercitare più l’amore, perchè non si ha una
persona concreta a cui darsi: noi uomini
di Dio,
pur rimanendo celibi, tutti dedicati a Dio, non per questo dobbiamo
diventare degli orsi delle caverne.
Inoltre
rimanere soli produce un altro grave problema: il compiacimento di sé
stessi. Troppo spesso, quando dicevo di essere solo, non era un
lamento, ma quasi un motivo di vanto: solo
io sono bravo, Signore, solo io ti seguo, solo io sono capace!
Meno male che Dio mi ridimensionò: altro
che solo! C’erano settemila persone che erano rimaste fedeli a lui!
Non fu mai facile il mio carattere, mi
incendiavo facilmente: ad Acab rimproverai la sua usurpazione della
vigna del povero Nabot di Izreel; a Gezabele pronosticai che sarebbe
morta di morte violenta, lei che aveva fatto della violenza la sua
regola, e che i cani avrebbero leccato il suo sangue, e così fu.
Letame diventò sulla terra!
La vita può attraversare spazi di
desolazione, tempi di fraintendimento da parte dei fratelli, ma io
sperimentai la fedeltà di colui che mi chiamò, nonostante i momenti
di sconforto.
Era presunzione pensare che il Signore
non mi abbandonava? No, era semmai abbandonarmi fiduciosamente nelle
sue mani, come un bambino. Perché sapevo con certezza una cosa: che
non era mia la forza, non era mia la parola, non erano miei i segni
che accadevano attraverso di me.
Se avessi dovuto contare solo su me
stesso, o sulle forze che non vedevo attorno a me e i nemici che mi
circondavano, sarei capitolato subito, mi sarei lasciato morire nel
deserto.
Invece
capii quel che ti dicevo all’inizio, che il
Signore è nel poco e salva nel poco e con poco.
Il fondamento della mia vita non era in me e neppure nel mio zelo,
anzi: ogni volta che mi ero fidato soltanto del mio zelo, avevo agito
da violento, come quando ammazzai senza pietà i profeti di Baal.
Ma
non era la tolleranza
zero,
quanto il Signore mi chiedeva!
Egli
mi chiedeva semplicemente di fidarmi di lui, che non mi avrebbe
abbandonato. Perché in fondo, essere uomini
di Dio,
come mi chiamava la gente, è proprio questo: non fare miracoli, ma
testimoniare una vita altra,
a partire dalla propria vita e dalla propria storia. Non rifugiarsi
in una volontà personale, in un progetto personale, in una strada
personale, ma aprirsi alla volontà di Dio, alla sua strada.
Non voler essere profeta, per esserlo
veramente. Non voler essere nulla, per poter essere tutto, ovunque il
Signore mi chiamasse ad andare e qualsiasi cosa mi chiamasse a dire.
Quando mi fossilizzavo nelle mie idee,
nei miei progetti, tutto si faceva maledettamente difficile e arduo.
Mentre quando lasciavo spazio a lui, tutto ciò che era arduo
diventava una sfida.
Quando progettavo per conto mio, i miei
piani cadevano miseramente. Ma se accoglievo le sollecitazioni del
Signore, allora il suo piano si realizzava.
Quando mi muovevo per conto mio, finivo
per ricadere nel deserto della mia solitudine, mentre quando era lui
a muovermi, c’era sempre una missione da compiere: solo il suo
amore può liberarci dalla disperazione dovuta alla nostra condizione
e ai nostri tanti limiti.
E dunque imparai a discernere col tempo
gli impulsi momentanei dovuti al mio carattere piuttosto focoso, e la
pazienza di scoprire l’azione di Dio non nell’uragano, non nel
terremoto, non nel fuoco, ma nell’alito di vento leggero.
Mi ricordai di quella vedova, a Sarepta,
di quel pugno di farina, di quel po’ d’olio. E non me lo
dimentico più.
Dio
è nel poco e salva nel poco.
Ma io ero testardo. Fu lui a rendermi
docile passo dopo passo.
Mi
fece comprendere che non dovevo chiedermi tanto in che modo far
fronte a tale o tal altro problema, a questa o a quella situazione,
bensì come seguire la
sua chiamata,
come ascoltare la sua parola nel vento leggero.
Così potei continuare a seguirlo, finché
non mi prese con sé sul carro di fuoco: oramai avevo lasciato il
testimone nelle mani sicure di Eliseo.
Il mio compito non era terminato, ma
continuava attraverso i miei fratelli profeti, e continuerà fino
alla venuta del Messia attraverso tutti coloro che hanno preso il mio
mantello: i monaci e le monache.
Nulla è andato perduto di ciò che ho
fatto, perché nulla era semplicemente mio, perchè io non agivo per
mio conto, ma per conto di Dio, e dunque non avevo un mio piano da
realizzare, ma solo dovevo cercare la sua volontà, per me e per il
mio popolo.
E questo, anche se un po’ in ritardo,
finalmente l’ho capito, e ho cercato di vivere così! E ancora
continuo a vivere... nell’attesa della sua venuta!
Elia,
profeta
simile al fuoco
Eccezionale...
RispondiElimina"Genere letterario" delicato quello di scrivere un testo che non solo resti trasparente sul "testo originale" ma che sia anche invito a ripercorrerlo con in mano una bussola di orientamento e trovare o ritrovare una propria strada... Grazie. Siamo tutti e tutte solo e sempre "diaconi"...
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