domenica 29 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono, da Elia di Tishbi

ELIA DI TISHBI
(1Re 17-19)

Carissimo.
È passato molto tempo da quando ho messo piede per l’ultima volta su questa terra, ma ho ancora vivo nel mio pensiero il ricordo dei miei giorni terreni.
Furono anni di grande carestia, di siccità tremenda: in tutta la terra d’Israele non si trovava più né grano né olio, perchè non pioveva da tre anni e mezzo.
Io però ero fortunato: i corvi mi portavano da mangiare mattina e sera, e mai mi mancò il cibo.
Quando il fiume si seccò, Dio mi comandò di andare a Sarepta, in territorio pagano, da una vedova che aveva un figlio. Ella aveva solo un pugno di farina e un orcio di olio, e io le dissi di non temere, e di preparare da mangiare. E così mangiammo, lei, il suo bambino ed io, per molto tempo. E sperimentai, per la prima volta che Dio è nel poco, e salva nel poco e con poco.
Che per lui non è più difficile venire a capo delle situazioni difficili con poco, piuttosto che non con molto. Questa è stata sempre la cifra della mia vita.
Così quando il figlioletto di questa povera vedova si ammalò e morì, chiesi a Dio di risuscitarlo, e mi stesi su di lui, corpo a corpo, perché è soltanto quando ci si dà completamente, senza risparmiarsi anche fisicamente, che la parola di Dio si realizza ed è efficace, e non è soltanto flatus vocis.
Quando fui mandato ad Acab, sapevo che Gezabele era una sanguinaria e violenta, e tuttavia non ne ebbi paura. Acab mi apostrofava chiamandomi “la rovina di Israele”, ma in realtà la rovina erano lui e sua moglie, e tutti quelli che adoravano gli idoli, che stimavano potenti gli amuleti, che credevano di salvarsi attraverso il loro potere.
Io ero rimasto solo. Solo. Solo.
L’unico sulla faccia della terra a continuare ad avere fede nel Signore.
E il Signore stette al mio fianco, quando davanti ai profeti di Baal egli fece scendere il fuoco sul mio giovenco e non sul loro, nonostante si dimenassero per ore, si facessero incisioni, e gridassero al loro dio.
Così, nel mio zelo per Dio, diventai anche io un sanguinario e li sgozzai senza pietà.
Ma fatti fuori loro, il popolo non credette di nuovo in Dio. Tuttavia egli rispose alla mia preghiera mandando la pioggia: era una nuvola, inizialmente, piccola come una mano d’uomo, ma poi si tramutò in un temporale che risanò la terra. Tutti si convertirono, tranne Acab e Gezabele, che mi cercava per uccidermi.
Allora dovetti scappare, solo, ancora una volta, rifugiandomi a sud, a Bersabea, ai pozzi di Abramo e di Isacco. Andai nel deserto: volevo morire. Sai, la solitudine è pesante a volte: chiedevo a Dio che mi mostrasse un segno, e non ottenevo nulla. Mi chiedevo a che cosa servisse essere così zelante, quando poi l’unico risultato era la persecuzione, l’affronto. Certo offendevano lui, ma era con me che se la prendevano! Perciò gli chiesi di morire. Ed egli, per tutta risposta, mi fece trovare del pane e dell’acqua, e mi fece vagare nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti. Stette presente nella mia solitudine, mi custodì invece che ascoltare i miei vaneggiamenti. Mi fece attraversare la mia solitudine, facendomi entrare dentro me stesso, facendomi arrivare alle sorgenti del mio rapporto con lui, dove non valevano più gli effetti scenici, i miracoli, le guarigioni, ma bisognava tendere l’orecchio. Lì sull’Oreb la sua presenza fu delicata, il sussurro di una brezza leggera, ma io non vedevo altro che la mia solitudine.
Mi sentivo solo, solo e ancora solo. E in pericolo di vita.
Così il Signore mi diede un comando, mandandomi a ungere il re di Aram e il nuovo re d’Israele, per far fuori Acaz e Gezabele.
E mi incoraggiò dicendomi che non ero solo come mi lamentavo, ma che ben settemila persone in Israele non si erano piegate ai Baal. Capisci? Dovevo solo alzare gli occhi, non ero solo! Ma il mio dolore mi aveva chiuso in me stesso.
Allora uscii e per prima cosa, vedendo Eliseo, lo chiamai a diventare mio segretario, perchè in futuro prendesse il mio posto.
Gli gettai addosso il mio mantello. Mi pare che questa cosa sia importante: gettare addosso a qualcun altro il proprio mantello, cioè trasmettere ad altri la passione per Dio.
Quando pensavo di essere solo avrei voluto morire. Capii invece che dovevo fare fiducia in Dio e anche negli uomini, che non tutti erano corrotti e malvagi, che il Signore agiva non soltanto attraverso di me. Allora potei vedere più chiaramente, ed Eliseo mi seguì sempre, e divenne profeta al posto mio.
Infatti sperimentai che c’è una solitudine sbagliata, e che un uomo solo non ha chi lo rialzi quando cade.
Quando si sta troppo tempo soli, poi, senza un confronto serio e onesto con gli altri, si rischia di pensare di essere sempre nel giusto, si rischia di non esercitare più l’amore, perchè non si ha una persona concreta a cui darsi: noi uomini di Dio, pur rimanendo celibi, tutti dedicati a Dio, non per questo dobbiamo diventare degli orsi delle caverne.
Inoltre rimanere soli produce un altro grave problema: il compiacimento di sé stessi. Troppo spesso, quando dicevo di essere solo, non era un lamento, ma quasi un motivo di vanto: solo io sono bravo, Signore, solo io ti seguo, solo io sono capace!
Meno male che Dio mi ridimensionò: altro che solo! C’erano settemila persone che erano rimaste fedeli a lui!
Non fu mai facile il mio carattere, mi incendiavo facilmente: ad Acab rimproverai la sua usurpazione della vigna del povero Nabot di Izreel; a Gezabele pronosticai che sarebbe morta di morte violenta, lei che aveva fatto della violenza la sua regola, e che i cani avrebbero leccato il suo sangue, e così fu. Letame diventò sulla terra!
La vita può attraversare spazi di desolazione, tempi di fraintendimento da parte dei fratelli, ma io sperimentai la fedeltà di colui che mi chiamò, nonostante i momenti di sconforto.
Era presunzione pensare che il Signore non mi abbandonava? No, era semmai abbandonarmi fiduciosamente nelle sue mani, come un bambino. Perché sapevo con certezza una cosa: che non era mia la forza, non era mia la parola, non erano miei i segni che accadevano attraverso di me.
Se avessi dovuto contare solo su me stesso, o sulle forze che non vedevo attorno a me e i nemici che mi circondavano, sarei capitolato subito, mi sarei lasciato morire nel deserto.
Invece capii quel che ti dicevo all’inizio, che il Signore è nel poco e salva nel poco e con poco. Il fondamento della mia vita non era in me e neppure nel mio zelo, anzi: ogni volta che mi ero fidato soltanto del mio zelo, avevo agito da violento, come quando ammazzai senza pietà i profeti di Baal.
Ma non era la tolleranza zero, quanto il Signore mi chiedeva!
Egli mi chiedeva semplicemente di fidarmi di lui, che non mi avrebbe abbandonato. Perché in fondo, essere uomini di Dio, come mi chiamava la gente, è proprio questo: non fare miracoli, ma testimoniare una vita altra, a partire dalla propria vita e dalla propria storia. Non rifugiarsi in una volontà personale, in un progetto personale, in una strada personale, ma aprirsi alla volontà di Dio, alla sua strada.
Non voler essere profeta, per esserlo veramente. Non voler essere nulla, per poter essere tutto, ovunque il Signore mi chiamasse ad andare e qualsiasi cosa mi chiamasse a dire.
Quando mi fossilizzavo nelle mie idee, nei miei progetti, tutto si faceva maledettamente difficile e arduo. Mentre quando lasciavo spazio a lui, tutto ciò che era arduo diventava una sfida.
Quando progettavo per conto mio, i miei piani cadevano miseramente. Ma se accoglievo le sollecitazioni del Signore, allora il suo piano si realizzava.
Quando mi muovevo per conto mio, finivo per ricadere nel deserto della mia solitudine, mentre quando era lui a muovermi, c’era sempre una missione da compiere: solo il suo amore può liberarci dalla disperazione dovuta alla nostra condizione e ai nostri tanti limiti.
E dunque imparai a discernere col tempo gli impulsi momentanei dovuti al mio carattere piuttosto focoso, e la pazienza di scoprire l’azione di Dio non nell’uragano, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nell’alito di vento leggero.

Mi ricordai di quella vedova, a Sarepta, di quel pugno di farina, di quel po’ d’olio. E non me lo dimentico più.
Dio è nel poco e salva nel poco.
Ma io ero testardo. Fu lui a rendermi docile passo dopo passo.
Mi fece comprendere che non dovevo chiedermi tanto in che modo far fronte a tale o tal altro problema, a questa o a quella situazione, bensì come seguire la sua chiamata, come ascoltare la sua parola nel vento leggero.
Così potei continuare a seguirlo, finché non mi prese con sé sul carro di fuoco: oramai avevo lasciato il testimone nelle mani sicure di Eliseo.
Il mio compito non era terminato, ma continuava attraverso i miei fratelli profeti, e continuerà fino alla venuta del Messia attraverso tutti coloro che hanno preso il mio mantello: i monaci e le monache.
Nulla è andato perduto di ciò che ho fatto, perché nulla era semplicemente mio, perchè io non agivo per mio conto, ma per conto di Dio, e dunque non avevo un mio piano da realizzare, ma solo dovevo cercare la sua volontà, per me e per il mio popolo.
E questo, anche se un po’ in ritardo, finalmente l’ho capito, e ho cercato di vivere così! E ancora continuo a vivere... nell’attesa della sua venuta!

Elia,

profeta simile al fuoco

2 commenti:

  1. "Genere letterario" delicato quello di scrivere un testo che non solo resti trasparente sul "testo originale" ma che sia anche invito a ripercorrerlo con in mano una bussola di orientamento e trovare o ritrovare una propria strada... Grazie. Siamo tutti e tutte solo e sempre "diaconi"...

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