AMOS
DI TEKOA
(Libro
di Amos)
Marc Chagall - Profeta |
Carissimo.
Ti scrivo queste righe
mentre prendo un po’ di fresco sotto il mio più grande sicomoro.
È molto bello, sai, ci si
può persino arrampicare e da qui si gode una vista stupenda: sono le
colline di Tekoa, e un po’ più in là il deserto che da Tekoa
prende il nome, e in fondo, se mi volto a oriente, il grande
Giordano. Nelle lunghe notti estive, custodendo il gregge, ho
imparato persino a conoscere le stelle, le costellazioni, le Pleiadi
e Orione: Dio è grande e sublime!
Io sono nato pastore, e
pastori sono stati mio padre e mio nonno: ho vissuto una vita
all’aperto, ho incontrato il Signore durante il mio lavoro. Ma non
fraintendermi: non è che lui si sia manifestato a me come lui è,
perchè nessuno può vedere Dio e restare vivo. Però ne ho sentito
la sua presenza, forte, come il ruggito dei leoni che di tanto in
tanto si spingevano fino alle nostre campagne, e che qualche volta
avevano divorato il nostro bestiame: quel ruggito è impossibile da
descrivere, ma altrettanto impossibile da dimenticare: è un
terremoto che ti entra dentro le viscere, che ti fa vibrare i polmoni
e i fianchi e ti atterrisce a tal punto da lasciarti paralizzato,
senza sapere cosa fare...
Ecco,
con questa forza mi si manifestò il Signore, che era acceso d’ira
e minacciava di distruggere Damasco, Gaza, Tiro, Edom e Rabba: Fuoco!
Era la mia parola preferita, quella che più spesso mi trovavo a
gridare contro queste ricche città, che ammassavano denaro e potere,
che costruivano palazzi, che deportavano i loro stessi fratelli,
senza più ricordarsi dei legami di sangue, che ammazzavano persino
le donne incinte per allargare i loro possedimenti.
Un fuoco era dentro di me,
io che ero così piccolo e lontano dai giri politici, e divampava in
modo tale che andò a bruciare anche Giuda e Israele, i quali non
osservavano i comandamenti, anzi! Divennero idolatri, fedifraghi,
profanatori. Per arricchirsi erano disposti a tutto, anche a
opprimere i poveracci. Essi non ricordavano più le grandi meraviglie
che il Signore aveva compiuto per noi, quando ci fece uscire
dall’Egitto, ci diede la terra, una e unica, per tutti.
Il Signore mandò me, che
ero della tribù di Giuda, a predicare a Samaria... ora non so se ti
rendi ben conto, ma è come se, una volta diventato diacono e prete,
il vescovo decidesse di mandarti in una parrocchia riformata a
Ginevra: avresti il coraggio?
Eppure così fu per me, e
non potei oppormi!
Un fuoco era dentro di me,
ogni volta che il Signore minacciava. Lui minacciava, ma ero io a
bruciare di zelo per lui. E ancora fuoco sentivo arrivare da nord,
quando popoli più numerosi, militarmente più forti, più
attrezzati, si preparavano ad invaderci. E più io gridavo, e più
volevano che tacessi.
Sai, nel Regno del Nord,
ormai staccato da Giuda, si moltiplicavano i santuari, sempre più
ricchi, sempre più sfarzosi, i re e i sacerdoti di Betel e di
Galgala avevano copiato le feste che si facevano a Gerusalemme, ma le
facevano più belle, più luminose, più ricche.
Quelle vacche delle loro
donne ostentavano i loro gioielli, quegli ubriaconi dei loro mariti
opprimevano i poveri e contemporaneamente facevano sacrifici e
offrivano doni, decime, frutti. Avevano una liturgia elaborata e
varia, ogni giorno.
Sai cosa dovetti gridare un
giorno, durante una festa solenne?
Io
detesto, respingo le vostre feste solenni
e
non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche
se voi mi offrite olocausti,
io
non gradisco le vostre offerte,
e
le vittime grasse come pacificazione
io
non le guardo.
Lontano
da me il frastuono dei vostri canti:
il
suono delle vostre arpe non posso sentirlo!
Piuttosto
come le acque scorra il diritto
e
la giustizia come un torrente perenne.
Mi
avete forse presentato sacrifici
e
offerte nel deserto
per
quarant’anni, o Israeliti?
Il
Signore sputava sopra le loro liturgie, non le voleva, non le
gradiva, lo infastidivano, perchè esse non corrispondevano alla loro
vita, alle loro scelte, alle loro azioni. Erano solo apparenza.
Quante
volte ha cercato di farli desistere dalla loro condotta!
Arrivò
la siccità, la carestia di raccolti, non c’era più pane da
nessuna parte, i giardini e le vigne si erano seccate. Fuoco era
persino l’aria che respiravamo!
Li
strappò dal fuoco, come si strappa un tizzone ardente da un
incendio... eppure neanche così tornarono a lui. Non capivano che
erano segni attraverso i quali venivano messi alla prova: la vita non
è sempre godereccia. Quando finiscono i piaceri e quando ci sono i
problemi, cosa resta? Quando la luce si trasforma in tenebra, cosa si
può sperare ancora?
Nulla.
La vita sparisce in un battito di ciglia, e gli spensierati non se ne
accorgono nemmeno, finché non arriva per loro il momento di
diventare schiavi e di essere deportati. Io forse ero divorato dal
suo zelo ed esageravo con gli oracoli e le visioni distruttive, ma
loro certamente erano insensati, deficienti, come chi vorrebbe arare
il mare con i buoi. Gente sciocca, vanesia, stupida, istupidita dal
male stesso che compiva.
Così
li invitavo continuamente a cercare Dio, a convertirsi. Dissi loro
che sarebbe arrivato un momento in cui non ci sarebbe stata fame di
pane, ma fame di parola di Dio, perchè nessuno avrebbe più parlato
loro in nome di Dio... eppure niente: non volevano ascoltare.
Quella
peste di Amasia, sacerdote di Betel, mi denunciò al re d’Israele e
mi fece allontanare. Forse pensava che io fossi una spia di Giuda,
che andassi lì perché ero pagato da Gerusalemme... non capiva che
era il Signore a mandarmi a profetizzare, io che fino ad allora
neppure avevo mai visto un profeta. Ma anche lui fece una brutta
fine, come tutti i capi di Israele, deportati, uccisi, sconvolti.
Eppure,
a un certo punto, neppure io ce la facevo più: la devastazione, la
tristezza, il peso della desolazione che ero chiamato ad annunciare
erano troppo anche per me. Mi resi conto che in fondo siamo tutti
poveracci, tutti creature disgraziate che cercano la felicità a tal
punto talvolta da bersi il cervello, e compiere il male. Male
orrendo. Ma sempre male compiuto da poveracci, da poveri uomini e
povere donne, tanto più poveri quanto più malvagi. Scoprii dentro
di me un altro ruggito, ma stavolta più dolce, più sottile, più
mite: le mie viscere si commuovevano davanti a tanto male subito da
questi disgraziati dissoluti. E così implorai per due volte Dio:
«Signore Dio, perdona! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto
piccolo. Chi lo rialzerà se tu lo distruggi?». Non chiedermi né
come né perchè, ma mi resi conto che la mia preghiera per il popolo
fece cambiare idea al Signore. Egli mi aveva ascoltato. Aveva
trattenuto la sua mano.
Tuttavia
neppure la misericordia serviva con questi... a un certo punto,
passeggiando per Betel vidi un muratore che innalzava un muro.
Utilizzava un filo a piombo per costruire dritto, e capii che era
giunto il colmo. Il Signore avrebbe tirato dritto nella sua
decisione. Capii che tutte le loro feste, le loro liturgie splendide,
si sarebbero presto ritorte contro di loro. Che lutto e nenie funebri
avrebbero sostituito canti e balli. E alla fine il silenzio, quel
silenzio opprimente e terribile nel quale non si ha neppure la
consolazione della sua Parola.
Questa
visione mi atterrì, perchè la sua grandezza e la sua forza sono
irresistibili.
Mi
atterrì a tal punto che pensai di non farcela, che pensai: A che
pro, Signore, tutti questi sforzi che hai fatto, se poi distruggerai
tutto?
Siamo
davvero condannati a non trovare senso nella nostra vita? È davvero
tutto così insensato, tutto così malato e toccato dal male in modo
irreversibile? Mi hai mandato solo per annunciare rimproveri e
castighi?
Mi
crogiolavo in questi pensieri di morte, quando vidi in lontananza un
campo di grano: tutto era bruciato, tranne che un piccolo angolo, nel
quale le spighe erano miracolosamente rimaste integre. Le raccolsi, e
dopo averle schiacciate feci un po’ di farina e del pane. E
finalmente, dopo giorni di digiuno e di tristezza, mangiai.
E
capii che il Signore avrebbe lasciato un
resto,
che la mia vita e la mia predicazione non erano state vane, anche se
forse io non avrei visto il compimento e il rientro dei deportati, e
di nuovo campi e vigne con i frutti.
Capii
che seppur poveracci, il Signore ci avrebbe rialzato, avrebbe
permesso alla tenda di Davide di venire nuovamente elevata. Ma doveva
rimanere una tenda di pastore... non un palazzo!
Capii
che questa è la nostra condizione: per quanti bei giardini
coltiviamo, e per quante vigne curiamo, siamo nomadi, siamo in
cammino.
“Credente”
è un participio presente, una dinamica sempre in atto, mai del tutto
realizzata, ma sempre passibile di equivoci, di ipocrisia, di
infedeltà: sempre da curare perchè il cuore corrisponda alle parole
e le parole alla vita. A te diranno a breve: «Credi sempre ciò che
proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che
insegni».
Mi
sembra una bella sintesi della mia vita, perchè quel fuoco che
chiamavo dal Cielo a divorare gli altri, in realtà era anzitutto per
me, che di Dio ero soltanto un ministro, un servo, un amplificatore
della sua voce: ero io quel tizzone sottratto dall’incendio, e di
questo non finirò mai di ringraziare l’Altissimo!
Buona
predicazione della sua misericordia!
Amos,
pastore di Tekoa
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