martedì 31 ottobre 2017

Lettera a un futuro diacono, da Amos di Tekoa

AMOS DI TEKOA
(Libro di Amos)
Marc Chagall - Profeta

Carissimo.
Ti scrivo queste righe mentre prendo un po’ di fresco sotto il mio più grande sicomoro.
È molto bello, sai, ci si può persino arrampicare e da qui si gode una vista stupenda: sono le colline di Tekoa, e un po’ più in là il deserto che da Tekoa prende il nome, e in fondo, se mi volto a oriente, il grande Giordano. Nelle lunghe notti estive, custodendo il gregge, ho imparato persino a conoscere le stelle, le costellazioni, le Pleiadi e Orione: Dio è grande e sublime!
Io sono nato pastore, e pastori sono stati mio padre e mio nonno: ho vissuto una vita all’aperto, ho incontrato il Signore durante il mio lavoro. Ma non fraintendermi: non è che lui si sia manifestato a me come lui è, perchè nessuno può vedere Dio e restare vivo. Però ne ho sentito la sua presenza, forte, come il ruggito dei leoni che di tanto in tanto si spingevano fino alle nostre campagne, e che qualche volta avevano divorato il nostro bestiame: quel ruggito è impossibile da descrivere, ma altrettanto impossibile da dimenticare: è un terremoto che ti entra dentro le viscere, che ti fa vibrare i polmoni e i fianchi e ti atterrisce a tal punto da lasciarti paralizzato, senza sapere cosa fare...
Ecco, con questa forza mi si manifestò il Signore, che era acceso d’ira e minacciava di distruggere Damasco, Gaza, Tiro, Edom e Rabba: Fuoco! Era la mia parola preferita, quella che più spesso mi trovavo a gridare contro queste ricche città, che ammassavano denaro e potere, che costruivano palazzi, che deportavano i loro stessi fratelli, senza più ricordarsi dei legami di sangue, che ammazzavano persino le donne incinte per allargare i loro possedimenti.
Un fuoco era dentro di me, io che ero così piccolo e lontano dai giri politici, e divampava in modo tale che andò a bruciare anche Giuda e Israele, i quali non osservavano i comandamenti, anzi! Divennero idolatri, fedifraghi, profanatori. Per arricchirsi erano disposti a tutto, anche a opprimere i poveracci. Essi non ricordavano più le grandi meraviglie che il Signore aveva compiuto per noi, quando ci fece uscire dall’Egitto, ci diede la terra, una e unica, per tutti.
Il Signore mandò me, che ero della tribù di Giuda, a predicare a Samaria... ora non so se ti rendi ben conto, ma è come se, una volta diventato diacono e prete, il vescovo decidesse di mandarti in una parrocchia riformata a Ginevra: avresti il coraggio?
Eppure così fu per me, e non potei oppormi!
Un fuoco era dentro di me, ogni volta che il Signore minacciava. Lui minacciava, ma ero io a bruciare di zelo per lui. E ancora fuoco sentivo arrivare da nord, quando popoli più numerosi, militarmente più forti, più attrezzati, si preparavano ad invaderci. E più io gridavo, e più volevano che tacessi.
Sai, nel Regno del Nord, ormai staccato da Giuda, si moltiplicavano i santuari, sempre più ricchi, sempre più sfarzosi, i re e i sacerdoti di Betel e di Galgala avevano copiato le feste che si facevano a Gerusalemme, ma le facevano più belle, più luminose, più ricche.
Quelle vacche delle loro donne ostentavano i loro gioielli, quegli ubriaconi dei loro mariti opprimevano i poveri e contemporaneamente facevano sacrifici e offrivano doni, decime, frutti. Avevano una liturgia elaborata e varia, ogni giorno.
Sai cosa dovetti gridare un giorno, durante una festa solenne?

Io detesto, respingo le vostre feste solenni
e non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco le vostre offerte,
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.

Lontano da me il frastuono dei vostri canti:
il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!
Piuttosto come le acque scorra il diritto
e la giustizia come un torrente perenne.
Mi avete forse presentato sacrifici
e offerte nel deserto
per quarant’anni, o Israeliti?


Il Signore sputava sopra le loro liturgie, non le voleva, non le gradiva, lo infastidivano, perchè esse non corrispondevano alla loro vita, alle loro scelte, alle loro azioni. Erano solo apparenza.
Quante volte ha cercato di farli desistere dalla loro condotta!
Arrivò la siccità, la carestia di raccolti, non c’era più pane da nessuna parte, i giardini e le vigne si erano seccate. Fuoco era persino l’aria che respiravamo!
Li strappò dal fuoco, come si strappa un tizzone ardente da un incendio... eppure neanche così tornarono a lui. Non capivano che erano segni attraverso i quali venivano messi alla prova: la vita non è sempre godereccia. Quando finiscono i piaceri e quando ci sono i problemi, cosa resta? Quando la luce si trasforma in tenebra, cosa si può sperare ancora?
Nulla. La vita sparisce in un battito di ciglia, e gli spensierati non se ne accorgono nemmeno, finché non arriva per loro il momento di diventare schiavi e di essere deportati. Io forse ero divorato dal suo zelo ed esageravo con gli oracoli e le visioni distruttive, ma loro certamente erano insensati, deficienti, come chi vorrebbe arare il mare con i buoi. Gente sciocca, vanesia, stupida, istupidita dal male stesso che compiva.
Così li invitavo continuamente a cercare Dio, a convertirsi. Dissi loro che sarebbe arrivato un momento in cui non ci sarebbe stata fame di pane, ma fame di parola di Dio, perchè nessuno avrebbe più parlato loro in nome di Dio... eppure niente: non volevano ascoltare.
Quella peste di Amasia, sacerdote di Betel, mi denunciò al re d’Israele e mi fece allontanare. Forse pensava che io fossi una spia di Giuda, che andassi lì perché ero pagato da Gerusalemme... non capiva che era il Signore a mandarmi a profetizzare, io che fino ad allora neppure avevo mai visto un profeta. Ma anche lui fece una brutta fine, come tutti i capi di Israele, deportati, uccisi, sconvolti.
Eppure, a un certo punto, neppure io ce la facevo più: la devastazione, la tristezza, il peso della desolazione che ero chiamato ad annunciare erano troppo anche per me. Mi resi conto che in fondo siamo tutti poveracci, tutti creature disgraziate che cercano la felicità a tal punto talvolta da bersi il cervello, e compiere il male. Male orrendo. Ma sempre male compiuto da poveracci, da poveri uomini e povere donne, tanto più poveri quanto più malvagi. Scoprii dentro di me un altro ruggito, ma stavolta più dolce, più sottile, più mite: le mie viscere si commuovevano davanti a tanto male subito da questi disgraziati dissoluti. E così implorai per due volte Dio: «Signore Dio, perdona! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo. Chi lo rialzerà se tu lo distruggi?». Non chiedermi né come né perchè, ma mi resi conto che la mia preghiera per il popolo fece cambiare idea al Signore. Egli mi aveva ascoltato. Aveva trattenuto la sua mano.
Tuttavia neppure la misericordia serviva con questi... a un certo punto, passeggiando per Betel vidi un muratore che innalzava un muro. Utilizzava un filo a piombo per costruire dritto, e capii che era giunto il colmo. Il Signore avrebbe tirato dritto nella sua decisione. Capii che tutte le loro feste, le loro liturgie splendide, si sarebbero presto ritorte contro di loro. Che lutto e nenie funebri avrebbero sostituito canti e balli. E alla fine il silenzio, quel silenzio opprimente e terribile nel quale non si ha neppure la consolazione della sua Parola.
Questa visione mi atterrì, perchè la sua grandezza e la sua forza sono irresistibili.
Mi atterrì a tal punto che pensai di non farcela, che pensai: A che pro, Signore, tutti questi sforzi che hai fatto, se poi distruggerai tutto?
Siamo davvero condannati a non trovare senso nella nostra vita? È davvero tutto così insensato, tutto così malato e toccato dal male in modo irreversibile? Mi hai mandato solo per annunciare rimproveri e castighi?
Mi crogiolavo in questi pensieri di morte, quando vidi in lontananza un campo di grano: tutto era bruciato, tranne che un piccolo angolo, nel quale le spighe erano miracolosamente rimaste integre. Le raccolsi, e dopo averle schiacciate feci un po’ di farina e del pane. E finalmente, dopo giorni di digiuno e di tristezza, mangiai.
E capii che il Signore avrebbe lasciato un resto, che la mia vita e la mia predicazione non erano state vane, anche se forse io non avrei visto il compimento e il rientro dei deportati, e di nuovo campi e vigne con i frutti.
Capii che seppur poveracci, il Signore ci avrebbe rialzato, avrebbe permesso alla tenda di Davide di venire nuovamente elevata. Ma doveva rimanere una tenda di pastore... non un palazzo!
Capii che questa è la nostra condizione: per quanti bei giardini coltiviamo, e per quante vigne curiamo, siamo nomadi, siamo in cammino.
Credente” è un participio presente, una dinamica sempre in atto, mai del tutto realizzata, ma sempre passibile di equivoci, di ipocrisia, di infedeltà: sempre da curare perchè il cuore corrisponda alle parole e le parole alla vita. A te diranno a breve: «Credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni».
Mi sembra una bella sintesi della mia vita, perchè quel fuoco che chiamavo dal Cielo a divorare gli altri, in realtà era anzitutto per me, che di Dio ero soltanto un ministro, un servo, un amplificatore della sua voce: ero io quel tizzone sottratto dall’incendio, e di questo non finirò mai di ringraziare l’Altissimo!

Buona predicazione della sua misericordia!

Amos, pastore di Tekoa

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