Sieger Koder - Crocifissione - Cosa vide Gesù? |
Conosciamo
tutti la gravità di una sera come questa: penso che tutti abbiamo
avuto nella vita almeno una volta un lutto grave, di un parente, di
un genitore, di un figlio, di un fratello, di un amico. Conosciamo
tutti lo schianto e l’annientamento di situazioni simili, il
pianto, l’incapacità di parlare, il rivivere quegli ultimi istanti
e raccontarli solo con tante lacrime anche dopo molti anni... Tutto
questo non è lontano dalla nostra esperienza.
Così,
quando il Vangelo ci parla di perdono, possiamo essere un po’
scettici perché spesso facciamo difficoltà a perdonare; quando ci
parla di preghiera non capiamo bene perché neanche noi sappiamo
pregare; ma quando ci parla del dolore stiamo ad ascoltare, perché
conosciamo bene questa realtà. (Eb
4-5)
In
tutte le chiese del mondo oggi e domani si fa memoria della morte e
della sepoltura di Nostro Signore Gesù Cristo: non è un semplice
anniversario, come quello per ricordare i nostri morti. Noi ne
facciamo memoria attraverso alcuni elementi:
il racconto di ciò che avvenne, l’adorazione della croce e
l’eucaristia condivisa.
Il
racconto di ciò che avvenne.
Gli esperti ci dicono che i
vangeli sono come una grande introduzione al racconto della Passione
di Gesù, che occupa una parte consistente di ognuno di essi: da un
punto di vista quantitativo, la maggior parte del testo di ogni
singolo vangelo racconta la Passione di Gesù: una
settimana su trent’anni.
Perché? Certamente perché i discepoli e le prime comunità
cristiane hanno riconosciuto che in quelle poche ore, tutta la vita
di Gesù trovava come il suo senso e la sua consacrazione: come se
tutto ciò che egli aveva fatto, passando facendo del bene e
guarendo, trovasse compimento nella sua morte. E questa è una cosa
un po’ strana, perché in effetti la morte pone fine alle nostre
azioni, e noi diciamo con il buon senso, che la nostra vita si gioca
quando siamo vivi, non quando stiamo morendo.
Con
Gesù però è accaduta una cosa non trascurabile: i discepoli hanno
visto nel suo arresto, nel suo processo, nella sua condanna, nella
sua morte così ingiusta, un
segno definitivo.
Raccontandoci con tanta attenzione la Passione ci dicono: Ecco
per cosa è venuto Gesù: non
solo per predicare il regno di Dio con parole e con segni e miracoli,
ma finalmente per predicarlo
con la sua stessa vita, con il suo stesso corpo.
Non più parole o azioni, ma sé
stesso. Egli
è diventato in qualche modo la spiegazione
di ciò che ha predicato e dei miracoli che ha compiuto nella sua
vita. E lo è diventato nel momento in cui la parola gli veniva
difficile da pronunciare, e le azioni impossibili perché inchiodato
sulla croce.
Il
paradosso di Gesù di Nazaret sta qui: egli
è Dio nel momento in cui appare come un semplice uomo condannato a
morte tra malfattori, debole e sfortunato, inguardabile e
riprovevole. (Is
52-53)
Così
comprendiamo il senso delle sue parole, quando aveva detto che è
necessario che il chicco di grano sia gettato a terra e muoia per
fare frutto, o quando aveva
detto: beati i perseguitati a
causa della giustizia, o
quando ancora disse: Non c’è
amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici.
Le
parole dell’evangelista Giovanni relative alla sua venuta nel
mondo, «Il verbo si fece
carne» possiamo applicarle
anche all’evento della croce nei vangeli: «Il
racconto si è fatto persona»,
e quella persona è appesa alla croce. San Paolo, rivolgendosi ai
Corinzi dirà: «Quando venni
tra voi io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù
Cristo, e Cristo crocifisso».
E
questo è ciò che vorremmo anche per noi stessi: che la nostra vita
a un certo punto, arrivasse a maturazione non attraverso delle belle
parole che siamo capaci di dire, o dei bei gesti di bontà che siamo
capaci di fare, ma in tutto noi
stessi, nelle nostre fibre più
profonde e intime, persino in quelle cose che non siamo capaci di
esprimere con parole o con fatti.
Arriva
un momento in cui vorremmo non
solo fare delle cose buone, ma
essere
amore,
essere completamente inondati dalla bontà, dall’amicizia, essere
trasparenti, con tutto noi stessi: fiorire!
Ecco
dunque perché il racconto: perché quell’evento parli anche
a noi oggi, perché quelle parole testimoniano un evento compiuto
nella vita di Gesù che è in grado di illuminare il nostro presente,
la nostra vita, di trasformarla persino!
[Amico,
basta oramai. Se vuoi leggere ancora,
Va’
e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza.
(Angelus Silesius)]
L’adorazione
della croce. Per lunghi secoli
i cristiani, che pure dipingevano le tombe, non rappresentarono la
croce, se non sporadicamente. Essa era un simbolo troppo cruento,
perché ancora per molto tempo veniva usata come patibolo: gli
storici affermano che la croce era una forma di condanna a morte
infamante, riservata agli schiavi e agli stranieri, non ai cittadini
romani. Negli occhi e nel cuore di tante persone, l’impressione
della croce richiamava la macabra usanza romana, la loro violenza, il
sangue e il dolore, la persecuzione.
George Roualt - Pierrot (immagine di Cristo umiliato) |
Il
Venerdì Santo noi adoriamo la croce, cioè le riserviamo un gesto di
tenerezza, un bacio o una carezza. Perché
diamo un bacio a uno strumento di morte?
È come se il figlio di un condannato alla fucilazione baciasse la
pistola del soldato che ha dato il colpo di grazia: è
contraddittorio.
Sì,
in un certo senso lo è. La croce ci mostra l’uomo che decreta
l’inutilità dell’uomo, dell’innocente soprattutto, tanto da
ucciderlo. Dio aveva detto vedendo la sua creatura: «è
cosa molto buona». Ma l’uomo vedendo il suo simile dice:
Uccidiamolo! Il
mondo è pieno di croci!
La
croce ci dice che Dio resiste alla violenza dell’uomo sull’uomo,
accettando di assumerla in prima persona:
la croce è l’unica vera resistenza possibile al male.
Ecco perché occorre prenderla e portarla, dietro di lui: per essere
più umani! Da strumento di morte, essa è diventata quello che
nessuno avrebbe potuto immaginare: il modo per ricondurre gli uomini
a Dio dando la propria vita, consegnandosi in totale affidamento al
Padre alla desolazione della morte.
Così
noi possiamo adorarla senza essere masochisti, e senza adorare la
sofferenza che quella croce ha causato: in essa ci è dato di vedere
quanto Dio ha amato il mondo, fino a donarci il suo unico Figlio.
Perché quella croce,
e a partire da essa ogni croce,
ci ricorda che essa non è l’ultima parola sulla nostra vita, ma la
penultima. Che l’ultima parola sulla nostra vita ce l’ha Dio, ed
è una parola di risurrezione.
Cattedrale di Ales |
L’eucaristia
è il modo che Egli ci ha donato, che egli ha voluto e desiderato,
per personalizzarci il suo amore: amore sproporzionato e non
necessariamente reciproco.
Pensiamo
alle nostre relazioni: quando abbiamo amato qualcuno senza esserne
ricambiati, quanta frustrazione abbiamo sperimentato? Quanto
imbarazzo? Come per gli adolescenti, quando si fidanzano “ma lei
non lo sa”...
Eppure
Dio è così: in lui c’è il desiderio estremo di incontrare questa
sua umanità, di incontrare noi, ciascuno di noi... e noi il massimo
che ci sentiamo di fare, sovente, è dire: «Ma sì, dai, oggi è
domenica, dedichiamogli un’oretta, ma sbrighiamoci! Ho cinque
minuti: preghiamo un po’, che poi ho altro da fare».
Potrebbe
darsi che noi non abbiamo desiderio di Dio, fame di Dio, ma soltanto
di cose molto ordinarie: un lavoro, la salute, una famiglia, degli
amici.
Se
proviamo a essere autentici nei nostri desideri, pian piano
sperimenteremo una sete più grande, un desiderio più forte: di
senso, di significato anche per quei nostri piccoli desideri
ordinari. Perché, come dicevamo prima, non solo qualcosa di noi, ma
tutta la nostra vita fiorisca!
Stasera
siamo qui allora, perchè tutto questo, tutta la vita, tutto il male,
tutto il dolore del mondo, trovi senso a partire da questo
racconto che si rende presente in mezzo a noi in Gesù Cristo,
attraverso questa croce che ci pone davanti la misura
dell’amore, e ricevendo l’eucaristia, che ci alimenta per
dirci il desiderio che Dio ha di noi, perché anche noi possiamo
desiderare lui nella nostra vita.
Solo
un amore così, l’amore di Gesù crocifisso, amore sino alla fine,
può dare speranza anche alle nostre disperazioni, alle nostre
delusioni, alla nostra croce. E così sia.
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