S. Koder - La lavanda dei piedi |
Entriamo
con questa celebrazione nel mistero di quei giorni che cambiarono la
storia.
Lo
dico senza troppa enfasi, perchè non si tratta di fare affermazioni
di trionfo: Cesare che varca il Rubicone, Napoleone che invade
l’Europa, la Marcia su Roma... ci sono stati degli eventi storici
molto appariscenti, molto “forti”, che hanno mutato
effettivamente il corso degli eventi da quel momento in poi...
Ciò
che accadde a Gerusalemme nella Pasqua degli anni 30 del primo
millennio non fu niente di così eclatante: agli occhi degli storici
poteva sembrare al massimo una sommossa sventata e la condanna di un
uomo per sedizione, con l’immediata dispersione dei suoi discepoli.
Eppure
in quella notte, che noi oggi ripetiamo nei gesti, e nella successiva
liturgia del Triduo, noi crediamo che sia accaduto qualcosa di così
speciale che ha portato una luce nuova sul senso della storia e della
nostra vita.
Se
vi sembrano parole strane, chiedetevi e chiediamoci: perchè
siamo qui oggi?
Cosa
ci ha attratto, cosa ci spinge a partecipare alle celebrazioni di
questi santi giorni?
Forse
per qualcuno può essere l’abitudine, il ricordare un’atmosfera
antica di famiglia, una certa commozione che ci prende nel vedere i
nostri bambini sui quali tra poco, come Gesù allora, ripeterò il
gesto della lavanda dei piedi.
Ma,
o cerchiamo di entrare nel senso profondo del Giovedì Santo, oppure
anche oggi usciremo da qui come ci siamo entrati.
Allora
chiediamoci: cosa
stiamo facendo?
Stiamo
facendo memoria della cena pasquale nella quale Gesù ha offerto sé
stesso ai suoi discepoli, e alla moltitudine, per mostrare loro
quello che sarebbe accaduto il giorno successivo.
In
quella notte nella quale Gesù venne consegnato, egli volle lasciare
ai suoi discepoli, fino al suo ritorno, un segno della sua presenza.
Perché
noi abbiamo bisogno di segni: non ci bastano i sentimenti, non ci
bastano le parole. Spesso i sentimenti sono fugaci, e le parole
rischiano di essere un’esperienza soltanto intellettuale.
Perciò
Gesù ci lascia un segno:
un pasto, un evento così normale per noi, ma diventato speciale da
quel momento in poi.
Un
segno che trova origine nella volontà di Gesù:
l’evangelista Luca ci ha tramandato la sua parola iniziando la
cena: «Ho desiderato
con tutto me stesso di mangiare questa pasqua con voi prima che io
soffra»:
è stato
un esplicito desiderio di Gesù. E il vangelo di oggi ci ha ricordato
che in quella sera Gesù
ha amato i suoi fino alla fine,
cioè in una misura unica, totale e definitiva, e lo ha mostrato loro
attraverso la lavanda dei piedi, gesto riservato allo schiavo nei
confronti del proprio padrone.
Dunque
la cena pasquale, quella che per noi è diventata l’eucaristia,
è un desiderio ardente di Gesù ed è un segno del suo amore totale
per noi suoi discepoli.
Non
è qualcosa che facciamo noi, che confezioniamo noi con la nostra
buona volontà, con le nostre azioni: è qualcosa di totalmente e
intimamente suo
che egli offre a noi.
Tant’è
vero che i discepoli non capiscono, sono recalcitranti, non si
spiegano come mai uno di loro lo tradirà, visto che sono tutti uniti
a mangiare dallo stesso piatto.
Non
comprendono come un gesto di così intima unione e amicizia da parte
di Gesù, sia fatto con persone, loro, noi, che lo tradiranno, lo
rinnegheranno, lo abbandoneranno e si disperderanno. Si rifiutano di
credere che lo lasceranno solo, promettono anzi di dare la vita per
lui! Si sentono soggettivamente suoi amici, ma ancora solo a livello
psicologico, come dimostreranno i fatti.
Perché
proprio questo non è comprensibile: noi non invitiamo a cena una
persona che sappiamo parla male di noi, o che peggio ci fa lo
sgambetto, ci imbroglia, ci abbandona nel momento della necessità.
Stiamo ben alla larga da chi ci ferisce e contribuisce alla nostra
tristezza. Ci circondiamo di persone che ci rendono felici, e che
vogliamo far felici a nostra volta. Non siamo disposti a stare a
tavola con una persona che sappiamo ci tradirà appena uscita.
Il
mistero pasquale invece diventa per noi discepoli quell’occasione
che il Signore ci offre sempre di riscoprire quanto ama gli uomini,
quanto è disposto a fare pur di non perderci, anche se noi ci
perdiamo.
Qualcuno
talvolta afferma: «In
fondo a me basta Cristo dentro di me, mi basta sentirlo quando prego
in casa mia», e
pensa di essere comunque a posto, in pace, di essere cristiano, di
essere meglio di
quelli che vanno in chiesa, che sono i peggiori...
Un po’ come Pietro: Se
anche tutti ti rinnegassero, io no!
Ovviamente
non si tratta di giudicare le intenzioni o il cuore di chi dice
così... però io mi chiedo: Se Gesù ha avuto questo desiderio, così
forte, così impellente, se ha fatto questi gesti verso i suoi
discepoli, comandando a noi di ripeterli per fare così una memoria
viva e attuale di lui, non solo un ricordo del passato, se ha amato
così fino alla fine... e noi non lo accogliamo per quello che è, mi
chiedo: che tipo di
cristianesimo ci costruiamo?
Stiamo semplicemente confezionando una religione a nostra misura, non
stiamo facendo quello che Gesù ha voluto fare ai suoi discepoli... e
quindi in sostanza possiamo
dirci cristiani?
Essere
cristiani non è celebrare riti, liturgie e cose simili, e poi
dimenticarsi del prossimo, del fratello, dello straniero: su questo
siamo d’accordo. Ma essere cristiani non significa neppure fare del
bene al prossimo dimenticando quei segni, che sono i sacramenti, che
Gesù ci ha lasciato, e che troviamo nella Chiesa, la comunità dei
discepoli.
Un
discepolo sa che per seguire Gesù è necessario alimentare
continuamente il nostro rapporto con lui, così come lui l’ha
pensato per noi e come ci è stato trasmesso: ha detto: «Fate questo
in memoria di me», questo, prima che altro... (Paolo)
Per
non cadere nell’illusione che basta
avere Gesù nel cuore per essere cristiani.
Gesù
nel cuore lo possiamo avere se viviamo come lui ci ha insegnato e
come lui ci dà di vivere con la sua forza che nasce in quella ultima
sera, che nasce il venerdì santo, che nasce la domenica di Pasqua:
allora la nostra fede diventa autentica, perché si misura sul metro
non del nostro cuore, ma del Suo cuore, del suo amore.
Così
ritorno alle due domande iniziali: Perché
siamo venuti qui stasera? Cosa facciamo stasera?
Ognuno
di noi, ora, in un momento di silenzio, prima di ripetere la lavanda
dei piedi, si ponga questa domanda, e si lasci interrogare dalla
passione di Gesù, dal desiderio di Gesù per noi, dal suo amore per
noi fino a chinarsi davanti a noi per lavarci i piedi.
E
con questa autenticità stiamo davanti a lui,
a costo di sentirci rispondere qualcosa che non ci piace:
che uno di noi lo tradirà, che stanotte stessa non sapremo vegliare
un’ora con lui, che tutti ci disperderemo per paura delle
conseguenze.
E
sentirci rispondere ancora e sempre:
«Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Se non ti lasci
avvicinare, non posso condividere la mia vita con te. Se non accetti
di fare pasqua con me, di ricevere il perdono, io ti lascio libero,
non ti costringo neppure a farti perdonare.
Ma
se accetti scoprirai la mia amicizia, la mia consolazione, scoprirai
una forza mai avuta prima. La forza dell’amore, di un amore capace
di andare fino alla fine.
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