giovedì 29 marzo 2018

Giovedì Santo - Omelia per la Messa in Coena Domini

S. Koder - La lavanda dei piedi
Entriamo con questa celebrazione nel mistero di quei giorni che cambiarono la storia.
Lo dico senza troppa enfasi, perchè non si tratta di fare affermazioni di trionfo: Cesare che varca il Rubicone, Napoleone che invade l’Europa, la Marcia su Roma... ci sono stati degli eventi storici molto appariscenti, molto “forti”, che hanno mutato effettivamente il corso degli eventi da quel momento in poi...
Ciò che accadde a Gerusalemme nella Pasqua degli anni 30 del primo millennio non fu niente di così eclatante: agli occhi degli storici poteva sembrare al massimo una sommossa sventata e la condanna di un uomo per sedizione, con l’immediata dispersione dei suoi discepoli.
Eppure in quella notte, che noi oggi ripetiamo nei gesti, e nella successiva liturgia del Triduo, noi crediamo che sia accaduto qualcosa di così speciale che ha portato una luce nuova sul senso della storia e della nostra vita.
Se vi sembrano parole strane, chiedetevi e chiediamoci: perchè siamo qui oggi?
Cosa ci ha attratto, cosa ci spinge a partecipare alle celebrazioni di questi santi giorni?
Forse per qualcuno può essere l’abitudine, il ricordare un’atmosfera antica di famiglia, una certa commozione che ci prende nel vedere i nostri bambini sui quali tra poco, come Gesù allora, ripeterò il gesto della lavanda dei piedi.
Ma, o cerchiamo di entrare nel senso profondo del Giovedì Santo, oppure anche oggi usciremo da qui come ci siamo entrati.
Allora chiediamoci: cosa stiamo facendo?
Stiamo facendo memoria della cena pasquale nella quale Gesù ha offerto sé stesso ai suoi discepoli, e alla moltitudine, per mostrare loro quello che sarebbe accaduto il giorno successivo.
In quella notte nella quale Gesù venne consegnato, egli volle lasciare ai suoi discepoli, fino al suo ritorno, un segno della sua presenza.
Perché noi abbiamo bisogno di segni: non ci bastano i sentimenti, non ci bastano le parole. Spesso i sentimenti sono fugaci, e le parole rischiano di essere un’esperienza soltanto intellettuale.
Perciò Gesù ci lascia un segno: un pasto, un evento così normale per noi, ma diventato speciale da quel momento in poi.
Un segno che trova origine nella volontà di Gesù: l’evangelista Luca ci ha tramandato la sua parola iniziando la cena: «Ho desiderato con tutto me stesso di mangiare questa pasqua con voi prima che io soffra»: è stato un esplicito desiderio di Gesù. E il vangelo di oggi ci ha ricordato che in quella sera Gesù ha amato i suoi fino alla fine, cioè in una misura unica, totale e definitiva, e lo ha mostrato loro attraverso la lavanda dei piedi, gesto riservato allo schiavo nei confronti del proprio padrone.
Dunque la cena pasquale, quella che per noi è diventata l’eucaristia, è un desiderio ardente di Gesù ed è un segno del suo amore totale per noi suoi discepoli.
Non è qualcosa che facciamo noi, che confezioniamo noi con la nostra buona volontà, con le nostre azioni: è qualcosa di totalmente e intimamente suo che egli offre a noi.
Tant’è vero che i discepoli non capiscono, sono recalcitranti, non si spiegano come mai uno di loro lo tradirà, visto che sono tutti uniti a mangiare dallo stesso piatto.
Non comprendono come un gesto di così intima unione e amicizia da parte di Gesù, sia fatto con persone, loro, noi, che lo tradiranno, lo rinnegheranno, lo abbandoneranno e si disperderanno. Si rifiutano di credere che lo lasceranno solo, promettono anzi di dare la vita per lui! Si sentono soggettivamente suoi amici, ma ancora solo a livello psicologico, come dimostreranno i fatti.
Perché proprio questo non è comprensibile: noi non invitiamo a cena una persona che sappiamo parla male di noi, o che peggio ci fa lo sgambetto, ci imbroglia, ci abbandona nel momento della necessità. Stiamo ben alla larga da chi ci ferisce e contribuisce alla nostra tristezza. Ci circondiamo di persone che ci rendono felici, e che vogliamo far felici a nostra volta. Non siamo disposti a stare a tavola con una persona che sappiamo ci tradirà appena uscita.
Il mistero pasquale invece diventa per noi discepoli quell’occasione che il Signore ci offre sempre di riscoprire quanto ama gli uomini, quanto è disposto a fare pur di non perderci, anche se noi ci perdiamo.
Qualcuno talvolta afferma: «In fondo a me basta Cristo dentro di me, mi basta sentirlo quando prego in casa mia», e pensa di essere comunque a posto, in pace, di essere cristiano, di essere meglio di quelli che vanno in chiesa, che sono i peggiori... Un po’ come Pietro: Se anche tutti ti rinnegassero, io no!
Ovviamente non si tratta di giudicare le intenzioni o il cuore di chi dice così... però io mi chiedo: Se Gesù ha avuto questo desiderio, così forte, così impellente, se ha fatto questi gesti verso i suoi discepoli, comandando a noi di ripeterli per fare così una memoria viva e attuale di lui, non solo un ricordo del passato, se ha amato così fino alla fine... e noi non lo accogliamo per quello che è, mi chiedo: che tipo di cristianesimo ci costruiamo? Stiamo semplicemente confezionando una religione a nostra misura, non stiamo facendo quello che Gesù ha voluto fare ai suoi discepoli... e quindi in sostanza possiamo dirci cristiani?

Essere cristiani non è celebrare riti, liturgie e cose simili, e poi dimenticarsi del prossimo, del fratello, dello straniero: su questo siamo d’accordo. Ma essere cristiani non significa neppure fare del bene al prossimo dimenticando quei segni, che sono i sacramenti, che Gesù ci ha lasciato, e che troviamo nella Chiesa, la comunità dei discepoli.
Un discepolo sa che per seguire Gesù è necessario alimentare continuamente il nostro rapporto con lui, così come lui l’ha pensato per noi e come ci è stato trasmesso: ha detto: «Fate questo in memoria di me», questo, prima che altro... (Paolo)
Per non cadere nell’illusione che basta avere Gesù nel cuore per essere cristiani.
Gesù nel cuore lo possiamo avere se viviamo come lui ci ha insegnato e come lui ci dà di vivere con la sua forza che nasce in quella ultima sera, che nasce il venerdì santo, che nasce la domenica di Pasqua: allora la nostra fede diventa autentica, perché si misura sul metro non del nostro cuore, ma del Suo cuore, del suo amore.
Così ritorno alle due domande iniziali: Perché siamo venuti qui stasera? Cosa facciamo stasera?
Ognuno di noi, ora, in un momento di silenzio, prima di ripetere la lavanda dei piedi, si ponga questa domanda, e si lasci interrogare dalla passione di Gesù, dal desiderio di Gesù per noi, dal suo amore per noi fino a chinarsi davanti a noi per lavarci i piedi.
E con questa autenticità stiamo davanti a lui, a costo di sentirci rispondere qualcosa che non ci piace: che uno di noi lo tradirà, che stanotte stessa non sapremo vegliare un’ora con lui, che tutti ci disperderemo per paura delle conseguenze.
E sentirci rispondere ancora e sempre: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Se non ti lasci avvicinare, non posso condividere la mia vita con te. Se non accetti di fare pasqua con me, di ricevere il perdono, io ti lascio libero, non ti costringo neppure a farti perdonare.

Ma se accetti scoprirai la mia amicizia, la mia consolazione, scoprirai una forza mai avuta prima. La forza dell’amore, di un amore capace di andare fino alla fine.

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